Come sono fatti certi libri, 25 / “Fiction 2.0”, di Giulio Mozzi

by

di Edoardo Zambelli

[In questa rubrica pubblico descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa si intenda qui per “forma” mi pare, visti gli articoli già pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). Naturalmente, e sia chiaro soprattutto per questo articolo, la bizzarria della forma non comporta necessariamente un’alta qualità letteraria. gm].


Fiction 2.0:

Fiction, libro di Giulio Mozzi uscito per Einaudi nel 2001, torna oggi in libreria per Laurana Editore in edizione «sfoltita e incrementata» e con il titolo di Fiction 2.0.






L’opera non può avere presentazione migliore di quella che ne fa lo stesso Giulio Mozzi, nella breve notizia in apertura:

Il libro Fiction apparve nel 2001 presso Einaudi. Era un libro sbagliato, costituito di fatto da due libri – il libro delle storie basate su fatti di cronaca, l’antologia di eteronimi – che non potevano stare insieme. D’altra parte sentivo che ormai, come narratore, ero prossimo alla fine; e trattai il libro come un baule nel quale il viaggiatore, non sapendo che cosa gli accadrà lungo il viaggio e di che cosa avrà bisogno davvero, stipa un po’ di tutto.
Questa nuova edizione è stata sfoltita: sia perché alcuni pezzi, a rileggerli, mi sono sembrati davvero brutti; sia nella speranza di raddrizzare un po’ il libro e dargli un certo equilibrio – o uno squilibrio più artisticamente giustificato. Tanto per spiegarsi, i racconti fino a Narratology costituiscono il “primo libro”, i racconti da Narratology in poi costituiscono ciò che resta del “secondo libro”, e Narratology – un pezzo che, per me, costituisce un mistero – se ne sta in mezzo a tenere a bada questi e quelli.






E a questo pezzo ne aggiungo un altro, scritto sempre da Giulio Mozzi e pubblicato in vibrisse:

Sedici anni dopo, il libro è ancora qui. Si chiama Fiction 2.0. Ha perso i racconti di Brizzo e qualche altra cosa. C’è un pezzo firmato da Mariella Prestante, creata nel 2013 ed estinta l’altro giorno, indirizzato a Giulio Mozzi. Ci sono allegati nuovi, altri ne sono spariti. L’intervista e la dichiarazione di poetica di Carlo Dalcielo sono seguite da un corposo saggio interpretativo di Massimo Adinolfi: un uomo che, bizzarramente, esiste; e insegna filosofia all’Università di Cassino. Massimo scrisse quel saggio prima che ci conoscessimo (forse ci siamo conosciuti proprio perché, trovato il mio indirizzo, me lo spedì). Qua e là compaiono delle note che distinguono l’attuale Fiction 2.0 dall’originario Fiction. Un racconto, Lettera di conforto, nel quale compare un personaggio, “Bianca”, già apparso in altri miei testi o racconti (magari non nominato), è ora dotato di una sorta di nota storico-critica che tenta di descrivere, appunto attraverso le storie con quel personaggio, un pezzo o un movimento del mio immaginario (chi sia l’autore della nota, non è noto).
Non so che impressione possa fare il libro a chi, oggi, lo legga come se fosse un libro qualsiasi. Perché, bello o brutto che lo si trovi, un libro qualsiasi non è.






Rileggendo il libro in occasione della sua riedizione, e rileggendone in particolare tre racconti (Del matrimonio, Lettera ai direttori e Di mio padre) mi sono trovato a farmi una domanda: è possibile leggere questi tre racconti come racconti fantastici (e per «fantastici» intendo «appartenenti alla narrativa di genere fantastico»)? Ci ho pensato, li ho letti di nuovo e mi sono dato una risposta: sì. Non solo, sono esempi altissimi di letteratura fantastica, tra i più riusciti e brillanti prodotti dalla letteratura italiana negli ultimi anni.
Ciò che quindi qui andrò – proverò – a fare è illustrare i perché della mia risposta affermativa.
Insomma – e presumo che ormai si sia capito -, questa non è e non vuole essere una recensione, piuttosto il tentativo – riuscito o meno, non so dirlo – di (ri)leggere questo libro, o almeno una sua parte, in modo diverso e, spero, nuovo.


La realtà “inaccessibile”:

Il concetto di realtà è da sempre uno dei temi più frequentati dalla letteratura fantastica. Anzi, si può dire che la costruzione stessa di una realtà ne sia uno dei modelli espressivi più frequenti e – almeno per me – più affascinanti.
In questo tipo di narrativa i personaggi si trovano spesso ad abitare realtà distorte, irriconoscibili, alle volte anche inquietanti, allucinate, oppure semplicemente aperte al meraviglioso. L’effetto straniante, ovviamente, è diverso a seconda della modalità che un autore decide di adottare.
Andare a vedere qui tutte le varianti sarebbe un lavoro infinito, del quale tra l’altro non sarei nemmeno capace. Vorrei però provare una distinzione molto semplificata tra due tipologie di irruzione del fantastico: una è quella in cui il fantastico viene annunciato, anzi, meglio ancora, dichiarato (“e all’improvviso, l’elefante si staccò da terra lasciando i presenti meravigliati ecc.”); nell’altra tipologia invece il fantastico non si annuncia, è dentro il mondo narrativo, non c’è stacco né pausa, molto semplicemente il fantastico è lì (“era una bella giornata, la piazza era piena di gente, in cielo un elefante si muoveva aggraziato, bambini giocavano felici ecc.”).





Mi azzardo poi a dire che esiste un fantastico in cui lettore e personaggi partecipano insieme all’irruzione del fantastico stesso e un altro che è, invece, tutto per il lettore (perché lui lo avverte come tale, mentre invece i personaggi, semplicemente, ci vivono dentro).
Una sfumatura, più sottile, di quest’ultima definizione di fantastico potrebbe essere: in alcuni racconti la realtà non risulta incomprensibile ai personaggi bensì al lettore.
Il lettore, cioè, si trova al di fuori del mondo narrativo, può osservarlo, cercare di capirlo, ma ne rimarrà comunque irrimediabilmente escluso. Questo perché alcune dinamiche al suo interno (all’interno del mondo narrativo, non del lettore), che lo caratterizzano e in certo modo lo determinano, saranno visibili ai personaggi (e quindi da loro comprese) ma rimarranno nascoste al lettore. Da qui – dall’avvertimento di questa distanza – l’effetto straniante, l’intuizione del fantastico.
I tre racconti di Giulio Mozzi di cui ho parlato all’inizio appartengono proprio a questa tipologia, producono esattamente quel tipo di straniamento. Prima di arrivare a Mozzi, però, vorrei spendere qualche parola su un racconto di Julio Cortázar, per illustrare meglio questa dinamica della realtà “inaccessibile”.


Julio Cortázar

Julio Cortázar




Casa occupata di Julio Cortázar:

Casa occupata (Casa tomada in originale) di Julio Cortázar è apparso per la prima volta nel 1946 in rivista e incluso poi nella raccolta Bestiario del 1951.
I due protagonisti, fratello e sorella, vivono soli, isolati, in una grande casa. Il narratore in prima persona – la voce è quella del fratello – racconta di giornate passate in attività minime, piccole occupazioni quotidiane (la lettura, il lavoro a maglia, le cene, le chiacchierate). Ad un certo punto, una presenza mai nominata (e mai descritta) inizia a occupare alcune stanze della casa, costringendo i due fratelli a vivere in spazi via via sempre più ristretti, fino in sostanza a espellerli. Nell’ultima scena vediamo i due fratelli, abbracciati, che si allontanano lungo la strada.

Poiché mi era rimasto l’orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo ebbi pietà, chiusi bene la porta d’entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e entrare in casa, a quell’ora e con la casa occupata.



Clicca qui per leggere il racconto e visitare la casa occupata

Clicca qui per leggere il racconto
e visitare la casa occupata




Ora, è ovvio che qui il fantastico si manifesta attraverso la presenza che progressivamente va impadronendosi della casa. Una presenza, come ho già detto, che non viene mai descritta, mai nominata in modo esplicito. Non si capisce bene cosa sia, perché il narratore vi accenna sempre in modo vago, senza determinarla con precisione agli occhi del lettore.
La costruzione della realtà, avviene in modo sottile e progressivo. La preparazione al fantastico, chiamiamola così, si produce attraverso un inizio fatto di dettagli ordinari, di una quotidianità quasi banale.
E adesso vediamo il momento in cui il fantastico fa la sua apparizione:

Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza inutili particolari. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai passando per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere, e stavo svoltando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al tratto di corridoio che andava da quelle stanza alle porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte ed inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
– Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
– Ne sei sicuro?
Annuii.
– Allora, – disse raccogliendo i ferri, – dovremo vivere da questo lato.

Come dicevo, la presenza che inizia a occupare la casa non viene descritta, il narratore allude solo ad alcuni rumori, indizi di un movimento. Sicuramente l’elemento fantastico è questo. L’effetto di straniamento, però, non è dato tanto dall’invasione, chiamiamola così, quanto piuttosto dalle reazioni del narratore e di sua sorella. Sono turbati, questo sì, ma nulla di più.
Le poche battute di dialogo alla fine del brano citato sono costruite in modo da generare nel lettore tutta una serie di domande: chi sta occupando la casa? Sono più persone? Sono persone? Che intenzioni hanno? Perché lo fanno? Ecc.
La sensazione però è che i personaggi stiano tacendo qualcosa. Non per reticenza, semplicemente perché non hanno bisogno di parlare di ciò che accade, loro sanno. Sanno chi sta occupando la casa e perché, probabilmente sanno che non c’è nulla da fare se non adattarsi. Eccola, la realtà inaccessibile di cui parlavo. Le domande che il racconto genera non avranno risposta per il lettore, mentre invece i personaggi le risposte sembrano conoscerle e agiscono di conseguenza.
La dinamica interna alla realtà narrativa, che i personaggi conoscono, al lettore viene tenuta nascosta. Questa esclusione, questa distanza, lo “costringono” però a cercare un punto d’accesso, un modo per entrare in quella realtà. Un po’ come un sogno, il lettore può subirlo, viverlo, e poi a posteriori cercare di interpretarlo, sforzandosi in qualche modo di trovarvi un senso, ma alla fine dovrà accontentarsi solo della sua risposta, perché il racconto non gliene fornirà una.


Tre racconti di Giulio Mozzi:

Ed eccoci, finalmente, a Giulio Mozzi e al suo Fiction 2.0. Ho già detto (anzi, lo ha detto lo stesso Mozzi) che il libro è composto sostanzialmente di due parti, con Narratology al centro, a fare da spartiacque. I tre racconti dei quali mi occuperò appartengono alla prima parte, quella composta dalla coppia «testo + allegato».
Farei prima una breve descrizione di come i racconti sono strutturati, perché credo sia utile vederne la costruzione per poter poi capire in che modo sia proprio la loro struttura ad ascriverli, a mio modo di vedere, al genere fantastico (a quel particolare fantastico di cui ho parlato).


Dal videogioco Kentucky Route Zero




Del matrimonio (una storia con lieto fine):

1. Il testo:

Un memoriale, scritto in prima persona, che prende il via da un evento drammatico, inquietante. L’uomo che parla ha appena saputo da sua moglie Eleonora di essere stato avvelenato e che lei stessa si è avvelenata. Hanno appena finito di mangiare, lei ha comunicato la notizia al marito e poi è corsa a chiudersi nella sua stanza, per impedirgli di intralciarla nel suo proposito di morte. Gli ha però lasciato una scelta: lei il veleno lo ha assunto già da diverse ore, quindi non può salvarsi (e non vuole); lui però lo ha appena ingerito, se vuole può correre in ospedale, anche se lei preferirebbe di no.
Quello che segue è una lunga riflessione dell’uomo su ciò che il suo matrimonio e la sua vita sono stati fino a quel momento. Veniamo quindi a sapere, in questa lunga riflessione/ricostruzione, dell’impotenza del protagonista, di come questo problema non gli abbia impedito poi di sposarsi, di come lui e sua moglie siano riusciti ad aggirarlo, accontentandosi semplicemente di vivere il loro amore per ciò che è, di godere di ciò che potevano darsi. Ne emerge il ritratto (a detta del narratore) di un matrimonio solido, basato su fiducia e grande fedeltà da parte di entrambi. Nei mesi di poco precedenti l’avvelenamento avevano anche avviato le pratiche per l’adozione.
E allora perché Eleonora ha voluto uccidersi?

Se Eleonora ha deciso di morire, è perché non desiderava più essere viva. Sono stupito dal profondo significato di questa frase, che ho appena scritta – e ora sottolineo -: che peraltro è una frase quasi stupida, tautologica. Eleonora non ha voluto più essere viva. Questa è stata la sua decisione.

L’ultima parte del memoriale è dedicata proprio a cercare di capire perché Eleonora abbia deciso di uccidersi e, allo stesso tempo, a chiedersi se anche lui, il narratore, vuole morire con lei, per la decisione che lei ha preso per entrambi.
Alla fine, deciderà che vuole vivere, provare a salvarsi.

2. L’allegato:

Una cronaca giornalistica che ripercorre gli esiti della vicenda, dall’arrivo del protagonista all’ospedale (dove verrà salvato) fino al processo che lo vede accusato (e poi condannato) per omissione di soccorso, prima, e omicidio volontario, poi.
Durante il processo emergono anche tutte le avventure extraconiugali di Eleonora (di cui il marito era all’oscuro), quindi piccole crepe iniziano ad aprirsi nel memoriale, fino ad un inaspettato colpo di scena. Il memoriale non è stato scritto nei momenti subito successivi all’avvelenamento. La perizia disposta dal pm sul pc portatile di Giampietro Fargone (questo il nome del marito) dimostra che è stato scritto almeno quindici giorni prima e, addirittura, che la scena dell’avvelenamento è stata più volte manipolata e riscritta.
Giampietro verrà, come già detto, dichiarato colpevole, tuttavia nessuno (tanto i giudici quanto i giornalisti) riuscirà a ricondurre l’intera vicenda ad una verità coerente e definitiva.
L’allegato si conclude con la notizia della morte in carcere di Giampietro, che si uccide gettandosi a testa bassa contro la parete di un corridoio del carcere.


Dal videogioco Kentucky Route Zero




Lettera ai direttori (una storia che non sembra vera):

1. Il testo:

Una lettera indirizzata a più giornali, contenente un ricatto: se nessuno dei giornali pubblicherà il testo integrale della lettera entro una certa data (il due novembre), l’autore si darà fuoco. Ai direttori dei giornali la scelta: salvarlo o lasciarlo morire. Ecco, questo racconto è tutto qui.
L’autore della lettera dice poco di sé, racconta di una vita normale, a suo modo anche ricca, una vita che lo rende felice. Scapolo, senza figli, buon lavoro, vita sociale normale. A leggerla così – e lo stesso autore/protagonista così la definisce – è una vita piatta, senza grandi scosse, negative o positive che siano. Di lui – da ciò che egli ci dice di lui – apprendiamo poco altro: ha due fratelli, il padre è morto da quattro anni, gli piacciono i concerti di musica classica.

La mia vita futura ha un valore enorme o nessun valore? La risposta a questa domanda, egregio direttore, ho deciso di lasciarla a lei. Io ho bisogno di sapere se la mia vita ha un valore, ma non importa niente della mia vita passata, voglio sapere se la mia vita futura ha un valore e se qualcuno è disposto a scomodarsi, spendendo dei soldi o occupando un certo spazio nel giornale, per dichiarare che la mia vita futura ha un valore.

In questo breve estratto è racchiuso tutto l’intento della lettera. Il protagonista vuole solo sapere se la sua vita ha un valore e, per saperlo, è deciso a sacrificarsi. Non è un disperato, non vuole attenzione, non vuole lanciare nessun messaggio: solo sapere se qualcuno è disposto a fare qualcosa per salvarlo. Vuole sapere, insomma, se la sua vita vale almeno la pagina di un giornale.

2. L’allegato:

Anche in questo caso, come nel racconto precedente, l’allegato smentisce il racconto, o meglio, racconta una realtà diversa.
Inizia parlando del ritrovamento del cadavere di un uomo, bruciato, a Selvazzano Dentro, paese in provincia di Padova. L’uomo, di cui non si fa il nome (solo le iniziali, P.V.), viene riconosciuto come l’uomo della lettera, che nessun giornale ha pubblicato per intero, solo un paio ne hanno pubblicati alcuni estratti.
La nota poi prosegue, dando notizie sul morto e la sua vita. Era sposato, divorziato da due anni, aveva due figli, non ha mai avuto la passione per la musica classica, per anni aveva avuto un’amante (con cui metteva in atto pratiche sessuali che coinvolgevano anche prostitute). Ecco quindi che, di nuovo, il testo (la lettera), e il ritratto che il protagonista fa di sé, vengono completamente ribaltati dall’allegato.


Dal videogioco Kentucky Route Zero




Di mio padre (una sbobinatura):

1. Il testo:

La penultima volta che ho visto mio padre è stato martedì diciassette giugno 1997, giorno del mio ventiquattresimo compleanno, nella chiesa dell’Annunziata. Mia madre era stata investita dall’ApeCar del lattaio undici giorni prima, il venerdì sei giugno, alle sette e quaranta di mattina, mentre attraversava la strada per buttare nel cassone il sacco nero della spazzatura.

Così si apre il terzo racconto. Da qui in poi il protagonista racconta gli eventi accaduti in un arco di tempo di circa un anno dal funerale della madre. A partire proprio dall’incontro col padre, che dopo il funerale lo riaccompagna a casa e si trattiene con lui per non più di mezz’ora, giusto il tempo di scambiare brevi, inutili frasi.
Poi il protagonista ci informa della sua vita con la fidanzata, Myriam, che si prende cura di lui nei momenti difficili; del suo rapporto col lattaio, con cui spesso passa del tempo a parlare; del suo lavoro.
Il ritmo del racconto, via via che prosegue, si fa sempre più veloce, incalzante: un giorno il protagonista riceve una telefonata da una donna, si chiama Antonia, ed è la compagna di suo padre. Vorrebbe conoscerlo, invitarlo a cena. Si incontrano. Poi ad un certo punto Myriam parte per Londra. Da qui in poi il racconto si fa frammentario, frasi brevissime che restituiscono per piccoli passaggi il tempo che il protagonista passa senza la fidanzata. Piccole informazioni – che forse sarebbe meglio chiamare rivelazioni – spuntano qui e là tra un evento e l’altro: il lattaio è stato condannato, il protagonista ha un rapporto sessuale con Antonia, Myriam ritorna e confessa due tradimenti anche lei. Il protagonista si ammala, non si sa di cosa, rimane a letto qualche mese, non riesce a dormire mai, poi un giorno si addormenta, dorme due settimane, poi una mattina si sveglia.
E così, poi, si conclude il racconto:

Questa mattina mi sono svegliato con la forza, mi sono alzato piano per non svegliare Myriam, mi sono vestito con quello che mi capitava a tiro e sono uscito di casa. Da un telefono pubblico ho telefonato a mio padre, l’ho svegliato e gli ho detto che volevo vederlo per l’ultima volta. A quest’ora, ha detto lui. Per l’ultima volta, ho ripetuto io. Sì, ma a quest’ora, ha ripetuto lui. Non ci sei mai, gli ho detto. Ci vediamo domenica, ha detto. Vengo a trovarti adesso, gli ho detto. Va bene, ha detto. Mi ha aperto la porta in pigiama. Questa è l’ultima volta che ti vedo, gli ho detto entrando. Poi ho chiuso bene la porta e ho cominciato a colpirlo. Poi l’ho fatto, anche se mi faceva impressione.

2. L’allegato:

Di nuovo, stesso meccanismo: una paginetta e mezza di precisazioni circa il racconto che contraddicono la storia appena letta. Una domenica di novembre del 1999, Giacomo P. (nome del protagonista) uccide a martellate sua madre e suo padre, separati da diversi anni. Prima va dal padre, lo uccide, poi torna a casa, dove vive con sua madre, e uccide anche lei. Poi passa il pomeriggio con la sua fidanzata, vanno al cinema (forse, e dico forse, è significativo che insieme guardino Eyes Wide Shut), poi la sera Giacomo la riaccompagna a casa. Quella notte stessa prende un treno per Vienna, dove poi si consegna alla polizia austriaca qualche giorno dopo. La perizia psichiatrica lo dichiara capace di intendere e di volere. Confessa l’omicidio del padre, ma per quello della madre continua a dichiararsi innocente. La nota si conclude con la notizia che Myriam, poco dopo i fatti, scopre di essere incinta. Darà poi alla luce il figlio, dichiarandolo figlio di padre ignoto.


La realtà inaccessibile nei racconti di Giulio Mozzi:

Ciò che risulta subito evidente da queste descrizioni è che i tre racconti funzionano tutti allo stesso modo: presentano un testo (scritto in prima persona) che poi viene completato da un allegato, scritto sotto forma di ricostruzione giornalistica. Nel passaggio dall’uno all’altro, però, qualcosa va perso. Le due realtà presentate, infatti, coincidono in alcuni punti e ne lasciano irrisolti altri.
Parlando di Casa occupata, ho cercato di mostrare che questo tipo particolare di racconto si basa sostanzialmente sull’omissione. Al lettore, cioè, viene omessa un’informazione (o una serie informazioni) che gli permetta di capire la realtà testuale e questa distanza, una volta avvertita, provoca straniamento.
E ora proverò a illustrare come Mozzi mette in moto lo stesso meccanismo.
Innanzitutto bisogna partire dal presupposto che la struttura stessa dei racconti è un inganno, il primo, quello che in certo senso determina poi tutti gli altri.
Lo schema è questo:
1. Testo (memoriale, lettera, sbobinatura) – realtà soggettiva
2. Allegato (tono giornalistico) – realtà oggettiva
Perché dico che questa struttura è un inganno? Perché ci suggerisce di fidarci di un elemento (l’allegato) e dubitare dell’altro (il testo), mentre in realtà sarebbe bene dubitare di entrambi. Ciò che implicitamente viene omesso – può sembrare una cosa scontata ma non lo è – è che entrambe le parti sono finzioni.
Una volta stabilito questo, il passo successivo è pensare i due elementi (testo e allegato) non come due cose separate, ma come facenti parte di una stessa narrazione. Questo aiuta a capire che il punto centrale – il punto di stacco, il punto di rottura in cui “irrompe” il fantastico – sta proprio negli allegati, cioè in quella parte di racconto che dovrebbe essere oggettiva.
Per spiegare meglio ciò che intendo, provo adesso a guardare un po’ più da vicino l’allegato del primo racconto, Del matrimonio. Dico subito che questo stesso sguardo ravvicinato lo si può spostare sugli altri due racconti e ottenere le stesse identiche conclusioni. In questo racconto, però, la variante del “gioco dell’omissione” è realizzata in modo particolarmente interessante.
Del matrimonio, quindi.
Qui il meccanismo dell’omissione è stato da una parte così ben dissimulato da non essere visibile, dall’altra così ben utilizzato da risultare ugualmente percepibile.
La prima parte dell’allegato riporta (in forma indiretta) le dichiarazioni di Giampietro Fargone circa l’accaduto e sono, in buona sostanza, le stesse cose che ritroviamo nel testo principale. L’utilizzo in posizione strategica di espressioni come «così dichiara», «stando alle sue dichiarazioni» e simili danno a chi legge l’impressione di avere davanti agli occhi un qualcosa di veritiero (una ricostruzione vera) e, al contempo, fanno sì che il lettore non si accorga di ciò che avviene poco dopo.
D’un tratto, l’allegato riporta il colpo di scena emerso durante il processo: la perizia sul pc di Giampietro Fargone data la scrittura del memoriale a quindici giorni prima dei fatti che racconta. E qui le dichiarazioni di Giampietro Fargone scompaiono (ed è bene notare che da nessuna parte è scritto che Fargone, ad esempio, ha deciso di non rispondere alle domande del pm, perché è lecito pensare che chi indaga gli abbia chiesto conto della tempistica del memoriale).
Immediatamente dopo, per confondere ancora di più le acque, o, se si vuole, per mimetizzare meglio l’omissione, nell’allegato compare una nuova rivelazione (le relazioni extraconiugali di Eleonora), e qui l’allegato torna a riportare le dichiarazioni di Fargone, che si dice all’oscuro dei tradimenti.
Tutto questo succede in pochissime righe. Il piccolo “buio” di informazioni dura così poco che si finisce per non notarlo, rassicurati dalla calma che lo precede e distratti dalla rivelazione che lo segue. Questa microscopica anomalia nell’allegato, però, è così determinante da condizionare l’intero racconto. Sì, perché è proprio quell’omissione a produrre una realtà non spiegata, incompleta, interna allo spazio del racconto ma negata al lettore: inaccessibile, appunto.
Al lettore, quindi, non resta altro da fare che cercare in qualche modo di ricondurre la trama ad uno schema completo, interpretabile. Cosa che, ovviamente, non è possibile. A seconda della fantasia o dell’immaginario di ognuno, il “buio” può essere illuminato da ipotesi di ogni tipo. Chi ci assicura, per dirne una, che il memoriale non sia il risultato di un viaggio nel tempo? Nessuno, se io volessi riempire così quel vuoto – per quanto assurda la mia ipotesi potrebbe essere – potrei farlo.
Come ho già detto, questa piccola indagine può essere svolta anche sugli altri due racconti con gli stessi identici risultati, l’effetto che ne deriva è identico. E con questo non voglio dire che anche negli altri due sia presente questa stessa identica modalità di dissimulazione.
Se guardiamo ad esempio l’allegato di Lettera ai direttori, possiamo notare che qui la dissimulazione opera ad un altro livello, portando con sé anche un certo grado di incertezza: non vi sono infatti indizi certi che l’uomo ritrovato bruciato sia proprio l’autore della lettera. In casa dell’uomo non vengono ritrovati giornali, e l’allegato ci informa anche che le lettere risultano spedite da Brescia (che non è proprio a due passi da Padova, dove il corpo viene ritrovato). Detto in altre parole, è possibile che l’allegato – la storia che racconta – non abbia nulla a che vedere con il testo principale. È una coincidenza? Un’omissione voluta? Non lo possiamo sapere.
Dicevo, quindi, che non tutti gli allegati funzionano allo stesso modo. Solo, a ben guardare, si nota che gli allegati costituiscono a tutti gli effetti i finali dei racconti e sono loro a far sì che le due realtà raccontate risultino inconciliabili.
Se infatti le narrazioni principali rimanessero, diciamo così, nude, potrebbero benissimo essere dei racconti autonomi, anche belli, ma sarebbero un’altra cosa. E ancora, se i racconti invece avessero comunque gli allegati, ma questi non fossero reticenti (se ad esempio in quello di Del matrimonio Fargone dicesse che lo ha scritto prima perché voleva uccidere la moglie e pensava di farlo proprio così, tanto che alla fine è riuscito – costringendola, forzandola, pregandola, chissà – a inscenare proprio ciò che aveva immaginato e scritto), l’effetto che ne deriverebbe sarebbe magari comunque riuscito, ma si tratterebbe, di nuovo, di un altro tipo di racconto. La realtà ne uscirebbe spiegata, magari oscura, potrebbe essere quasi un noir, ma non avrebbe quel determinato effetto.
Spendo un’ultima annotazione per precisare che nel resto del libro, gli allegati – e quindi la loro relazione con i testi principali – non funzionano tutti allo stesso modo, creando cioè l’effetto che io ho finora descritto. C’è spazio per due lezioni di teologia, per un catalogo delle apparizioni del personaggio “Bianca” nei racconti di Giulio Mozzi (scritto da chi, non si sa), e c’è un vero articolo di giornale (ma vallo a sapere cosa è veramente vero in un libro così).

E adesso, alla luce di tutto ciò che ho detto – spero in modo non troppo confusionario – proverei a trarre qualche conclusione.




Conclusioni (un’omissione):









































































































































































































































































































Giulio Mozzi, 24 aprile 2016

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4 Risposte to “Come sono fatti certi libri, 25 / “Fiction 2.0”, di Giulio Mozzi”

  1. Ma.Ma. Says:

    …tu metti tutto in dubbio, io ho creduto a tutto: a dimostrazione di quanto hai scritto nel tuo bel pezzo, Edoardo.

  2. Fiction 2 (prima parte) | La poesia e lo spirito Says:

    […] Confronta qui altre […]

  3. Fiction 2 (seconda parte) | La poesia e lo spirito Says:

    […] nel suo Vibrisse Bollettino, dove ha invece pubblicato altre recensioni a questo libro (vedi qui, qui e qui). Qualcuno potrebbe pensare che, per vendicarmi, in questa seconda parte voglia […]

  4. profgemelli Says:

    Non so se Mozzi critico rende giustizia a Mozzi autore. PS i tre racconti qui analizzati non sono tra quelli che mi hanno interessato do più. Condivido in pieno, però, le conclusioni.

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