[In questa rubrica pubblico descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa si intenda qui per “forma” mi pare, visti gli articoli già pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). gm].
Il romanzo di Virginia Woolf To the lighthouse, a lungo noto in Italia come Gita al faro, in diverse edizioni recenti viene proposto col titolo più fedelmente tradotto di Al faro. Nell’Universale economica Feltrinelli, sezione Classici, è pubblicato con la traduzione (e una postfazione) di Nadia Fusini. È lungo 185 pagine e costa (a settembre 2017) otto euro. In copertina, un particolare del Portrait de dame en bleu di Paul Cézanne.
L’opera è divisa in tre parti, la prima delle quali s’intitola La finestra, la seconda Il tempo passa, e la terza Il faro.
Nella prima sezione, indubbiamente la più lunga, la storia narrata è presto detta: nella grande casa delle vacanze della famiglia Ramsay, sull’isola di Skye, nelle Ebridi, agli inizi del Novecento, si riunisce per l’appunto la numerosa figliolanza dei coniugi Ramsay, gli otto giovani figli (James, Jasper, Prudence, Rose, Nancy, Cam, Andrew, Roger), marito e moglie (il filosofo Ramsay e la sua amatissima e bellissima consorte), e un gruppo più o meno nutrito di amici e conoscenti.

È una giornata di metà settembre e tutti sono intenti alle loro occupazioni abituali: i ragazzi si godono le vacanze, cercando di eludere il controllo materno e di sfuggire all’autoritarismo paterno; Charles Tansley, un intellettuale dall’incerta carriera, ancora scapolo, disturba l’armonia con la sua petulanza, rendendosi particolarmente inviso ai ragazzi; Lily Briscoe, una pittrice intorno ai trent’anni, ancora nubile, poco avvenente e di estrazione sociale medio bassa, dipinge un quadro sul limitare del prato della villa. Minta Doyle e Paul Rayley, due giovani protetti dalla signora Ramsay, flirtano in attesa di rendere noto il loro fidanzamento. Si aggira per la casa il poeta Augustus Carmichael, e arriva in visita, dal vicino villaggio, un vecchio amico di Ramsay padre, tale William Bankes, studioso di botanica.
A un tratto, il minore degli otto ragazzi, il seienne James, che intrattiene con la madre un rapporto ancora simbiotico ed è di lei il preferito, esprime il desiderio di andare in gita, il giorno seguente, al Faro antistante l’isola: alla signora Ramsay, cinquantenne piena di virtù, fascino e carisma, risulta inevitabile rispondere positivamente alla richiesta del figlio prediletto. Ma la gita al Faro non si realizzerà a causa del diniego paterno, che richiama alla ragione delle cattive condizioni meteorologiche del giorno successivo. Tutta la prima parte dell’opera s’incentra quindi, come osserva Nadia Fusini, su quest’azione preclusa. La delusione di James è cocente, ma la signora Ramsay saprà riportare la serenità con le capacità empatiche che ne fanno il fulcro della sua famiglia, della sua cerchia di amici, e di conseguenza, del romanzo.
Un altro atto incompiuto, mancato, è il quadro di Lily, che non viene terminato. La giovane artista, soggiogata dalla presenza della signora Ramsay, della quale pare quasi innamorata, come del resto in fondo sono tutti i personaggi del romanzo, fa esperienza, davanti alla tela bianca, della sua inadeguatezza. Scrive mirabilmente la Woolf, su Lily intenta alla tela bianca, alcune osservazioni che costituiscono di per sé un vero e proprio saggio di estetica:
Quando guardava, vedeva tutto in modo chiaro, netto; ma quando prendeva in mano il pennello, le cose cambiavano. Nel battito d’ala tra la visione e il quadro si impadronivano di lei dèmoni che spesso la portavano alle lacrime e rendevano il passaggio dal concepimento all’opera tremendo, com’è tremendo per un bambino un corridoio scuro. Così si sentiva a volte- in lotta contro il rischio terrificante di perdersi d’animo. Doveva dirsi: “Ma questo è quello che vedo, quello che vedo è questo”, e tenersi stretto al cuore un patetico resto di visione, che mille forze cercavano di strapparle. Era allora, in quel varco gelido e ventoso, quando cominciava a dipingere, che le si imponevano con forza anche altri pensieri, il senso della propria inadeguatezza, della propria insignificanza, la sua casa dalle parti di Brompton Road, dove abitava col padre; e doveva sforzarsi molto per non seguire il suo istinto (grazie a Dio finora c’era riuscita) e buttarsi ai piedi della signora Ramsay dicendole- ma che poteva dirle? “Sono innamorata di lei”? No, non era vero. “Sono innamorata di tutto questo”, doveva dirle, indicandole la siepe, la casa, i ragazzi? Era assurdo, era impossibile. Non si può dire ciò che si pensa.
Ugualmente reticente sul suo amore coniugale, la bellissima signora Ramsay non riesce a dire al marito, che sopporta, che incoraggia, che sostiene, che placa nelle sue ribollenti ire e altrettanto potenti frustrazioni, che lo ama, da sempre. Bellezza e verità si esprimono in lei senza la mediazione del linguaggio. La serata, e la scena di questo atto primo, si concludono con la cena, la messa a letto dei ragazzi, lo spegnersi delle chiacchiere tra gli ospiti nella grande casa che s’abbruna, e i coniugi che si ritirano nelle loro stanze, lui a leggere e lei a lavorare a maglia, stanchi, provati dalla genitorialità, dalle reciproche rinunce, ma tenacemente innamorati, e concordi.
Il lettore non potrebbe immaginare ciò che avviene in seguito, e ne viene travolto, come travolta ne è la casa sull’isola di Skye. La signora Ramsay muore all’improvviso: «era morta tutto d’un tratto alla fine, si diceva», scrive la Woolf, che fa della signora Ramsay un simbolo della morte esattamente come ne ha fatto simbolo di vita. Muore durante la Grande Guerra, a causa di un’esplosione di una bomba, in Francia, il giovane Andrew, quello tra i figli destinato a essere un genio. Muore di parto, a pochi mesi dal matrimonio, Prudence, Prue la Bella, quella destinata a seguire le orme della madre nel ruolo di moglie e madre a sua volta.
La famiglia è devastata da questi lutti, e non si reca più per dieci anni alla casa di Skye.
Il tempo passa, ed è il tempo del cordoglio, del dolore per quelli che sono rimasti. «Una lunga notte» cala sulla casa, e la devasta. Le pagine della seconda parte, Il tempo passa, sono di una potenza che ferisce il cuore. Alla famiglia, ai suoi riti, alla sua “cultura”, si contrappone il dominio della natura, che s’appropria con la sua forza primigenia di ogni angolo delle stanze, del prato.
La casa fu abbandonata, la casa era deserta. Rimase come un guscio di conchiglia lì sulle dune a riempirsi di grani di sale, ora che la vita l’aveva lasciata. Una lunga notte sembrò impossessarsene; le brezze leggere, mordenti, i soffi vischiosi, invadenti, sembrava avessero trionfato. La pentola s’era arrugginita e la stuoia distrutta. I rospi ci misero il naso. Pigro, indifferente, lo scialle continuava a dondolare. Un cardo s’infilò tra le mattonelle della dispensa. Le rondini fecero il nido in salotto; il pavimento si coprì di paglia; l’intonaco cadeva a palate; le travi rimasero nude; i topi prendevano da qui o da lì roba da rodere e se la portavano dietro gli zoccoli di legno. Dalle crisalidi dischiuse uscivano farfalle che finivano spiaccicate contro i vetri delle finestre. Tra le dalie crescevano da soli i papaveri; il prato sventolava d’erba troppo lunga; carciofi giganteschi troneggiavano tra le rose; un garofano screziato fioriva tra i cavoli; intanto, durante le notti d’inverno, il filo d’erba che batteva leggero alla finestra diventò un rullio di tronchi robusti e rovi spinosi, che d’estate inondarono di verde la stanza.
La protagonista di questo intermezzo doloroso è una donna del popolo, la signora McNab, che riceve l’incarico di riordinare la casa per l’improvviso, insperato ritorno dei signori. Come suggerisce Lidia Ravera in una vecchia intervista proposta da RaiLetteratura sul web, Virginia Woolf, nel suo rifiuto delle trame, nella sua convinzione della loro irrilevanza, mette tra parentesi gli eventi. Così fa, soprattutto in queste pagine centrali: all’improvviso, tra parentesi quadre, apprendiamo che la pittrice mancata, Lily, ormai quarantatreenne (l’età della scrittrice all’epoca di Al faro), si ripresenta a casa dei Ramsay sul far di una sera. La segue nei giorni successivi l’ormai anziano Carmichael, poeta pubblicato e di fama. Il signor Ramsay, Cam e James, con l’aiuto di Nancy, hanno riprogettato la gita al Faro, ed essa realmente si svolgerà.
Lidia Ravera è convinta che, a conti fatti, ora la gita non interessi più a nessuno; Nadia Fusini sottolinea invece che la gita, che dieci anni prima era stata appoggiata solo dal punto di vista emotivo dalla madre, si realizza invece sotto il segno della guida paterna. Ramsay è un padre distrutto dal dolore, piegato dalle perdite, ma che sulla barca verso l’isolotto del Faro appare capace di una repentina ripresa di entusiasmo per la vita quotidiana. James è un sedicenne scontroso (è stato costretto a crescere senza la madre), Cam è una vestale di Ramsay: i due adolescenti vivono all’ombra dell’ingombrante padre, intenti a schivare la sua irritabilità, a eseguire i suoi ordini, come un drappello di muti, spaventati, obbedienti soldati dopo la perdita della guerra.
Eppure, il triste manipolo arriva al Faro, dopo una navigazione che sembra la descrizione di un percorso di dolore: ed è commovente, per quanto desolante, sentire quanto l’esperienza della perdita sia diversa per ciascuno, e li caratterizzi, li distanzi, nonostante sia una prova comune, familiare. Tutti e tre vivono la sofferenza in modo differente; essa li ridefinisce stabilendo confini in una famiglia dove la simbiosi, quando era in vita la madre, era la forma di convivenza sperimentata e possibile. Non è un caso che Ramsay mormori, durante il viaggio, alcuni versi d’un’opera di un autore inglese della fine del ’700: «Perimmo, ognuno da solo».
James e Cam hanno stretto un patto, quello di resistere alla tirannia del padre fino alla morte. Ma Cam è una ragazza, avverte tutto lo smarrimento davanti al reale com’esso si configura dopo la cancellazione della vita vissuta e finita, tanto lontana da sembrare irreale. Cam è triste, cedevole: James sente che non riuscirà a non farsi affascinare dagli aspetti sfaccettati della personalità paterna, dalle sue ombre e dalle sue luci. James è rigido, «sembra un dio», pensa Cam di lui. Anche in questo caso Lidia Ravera dice a ragion veduta: «La Woolf non fa parlare i suoi personaggi, li fa pensare».
Intanto, sulla terraferma, nella casa riaperta alla vita, Lily Briscoe, in piedi, sull’orlo del prato, dove dieci anni prima s’era consumato il suo fallimento d’artista, riprende in mano l’opera incompiuta, il suo quadro. E questa volta lo dipinge, lo termina. Dalla marea montante dei suoi pensieri mentre fa ciò che «deve» fare, apprendiamo che il matrimonio tra Paul e Minta è naufragato miseramente, che Tansley è diventato un accademico. Rivediamo la signora Ramsay, che è così nitida e presente e precisa nei ricordi di Lily da sembrare ancora lì in tutto il suo splendore. E vediamo il quadro. Il quadro che raffigura la casa, la felicità del passato, l’incerto presente; raffigura il desiderio di James, la bellezza della signora Ramsay, l’amore di Lily per la vita, per l’arte.
Così, in conclusione, la Woolf:
Eccolo, il suo quadro. Sì, coi verdi e gli azzurri, le linee che correvano in alto e di traverso, la volontà di qualcosa. L’avrebbero appeso in soffitta, pensò; forse distrutto. Ma che importava? si chiese, prendendo di nuovo in mano il pennello. Guardò i gradini, erano vuoti. Guardò la tela, era confusa. Con intensità repentina, come se per un istante tutto le apparisse chiaro, tirò una linea lì, nel centro. Era fatto; finito. Sì, pensò, mettendo giù il pennello spossata, ho avuto la mia visione.
Tag: Daniela Russo, Leonard Woolf, Lidia Ravera, Nadia Fusini, Paul Cézanne., Roger Fry, Virginia Woolf
16 settembre 2017 alle 12:49
Sono stata colpita da questa”guida alla lettura”di un libro d’autore complesso e importante(letto in gioventù,e da rileggere).
La lettura è facilitata quando c’è una struttura rivelata( e a questo livello!) che la sostiene.
16 settembre 2017 alle 14:05
Ho letto questo articolo subito dopo il precedente (come sono fatti certi libri, 23 / “Pedro Páramo “ di Juan Rulfo), con ancora fresche tutte le suggestioni che mi ha lasciato.
Non conoscevo il romanzo di Rulfo, mentre ho letto e frequentato parecchio il bellissimo libro di Virginia Woolf, e mi sembra che la definizione di “romanzo labirinto”, in tutte le accezioni che ne ha dato Michela Fregona a proposito di Pedro Páramo, sia applicabile anche a “To the lighthouse”, anzi, sia utile a capirlo meglio.
Anche nel romanzo di Virginia Woolf, come in quello di Juan Rulfo, vivi e morti tornano in luoghi ormai abbandonati per incontrarsi ancora, e ricomporre, se possibile, qualcosa che è rimasto incompiuto nel passato; anche qui, mentre gli elementi naturali e il tempo corrodono tutto, c’è la presenza costante, lontana della luce. La costruzione per accumulazione di cui parla Michela Fregona per Pedro Páramo è evidente anche nell’inizio della seconda parte di “Al faro”, “Il tempo passa”. La figura retorica dell’accumulazione, fra l’altro, è quella che restituisce meglio il caos e allo stesso tempo lo ricompone.
Nell’articolo su Pedro Páramo c’è una foto del modellino del labirinto di Cnosso esposto nel Museo Archeologico di Heraklion, a Creta. Mi ha fatto effetto vederla lì perché ne ho fatta una identica poche settimana fa, e da allora quella immagine mi segue e un po’ mi inquieta. Forse tutti i racconti sono labirinti con un mostro al centro e la luce fuori, da qualche parte, fosse anche solo la luce artificiale di un faro.
E forse noi umani, da sempre, costruiamo labirinti e racconti nel tentativo di confondere le idee alla morte.
17 settembre 2017 alle 17:27
Non ho letto il libro Gita al faro, conosco Virginia Woolf solo attraverso qualche film. Ho letto questo articolo con interesse e questa analisi mi ha invogliato a reperire subito il testo per farmene una mia idea. Sono sicura non mi deluderà e ringrazio l’autrice dell’articolo per come ha esposto la mia futura lettura.
17 settembre 2017 alle 20:00
Grazie a Michela Fregona per questa lettura di un libro non certamente facile ma certamente importante. Letto tanti anni fa ma un po’ perduto nella mia memoria, mi ha risvegliato la voglia di rileggerlo.
18 settembre 2017 alle 16:53
Però, però, però… come dire? Non ho mica ben capito la particolarità della “forma” di questo libro. Cioè mi pare come ce ne sono tanti… semplicemente suddiviso in parti. Forse mi è sfuggito qualcosa. Non ho letto bene, magari, perché – lo ammetto – per quanto l’articolo sia ben scritto, alcune parti le ho passate più in fretta perché non è una storia che mi prende. Sorry.
18 settembre 2017 alle 18:14
Ma. Ma.: “Non ho mica ben capito la particolarità della “forma” di questo libro. Cioè mi pare come ce ne sono tanti… semplicemente suddiviso in parti. Forse mi è sfuggito qualcosa.”
Anche l’Ulisse di Joyce è suddiviso in parti, ma non è un libro come ce ne sono tanti.
18 settembre 2017 alle 18:36
Ma.Ma, struttura e forma sono concetti diversi. Facendo uno sforzo di sintesi direi che la struttura ci dice come sono organizzati i contenuti e la forma ( generi, stile, registri,aree semantiche, musicalità, lessico, simbologia, figure retoriche, ecc) ci dice come sono espressi i contenuti. Per questo pensavo all’Ulisse, che ha una struttura semplice (18 capitoli suddivisi in 3 parti) ma una forma complicatissima.
18 settembre 2017 alle 21:12
C.P., capisco il tuo commento, è che io mi riferivo alla premessa della rubrica che parla di “libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra”. Ecco è questo che non ho “capito” di questo libro, se c’è. Anche dell’Ulisse avrei fatto lo stesso commento, perché l’originalità mi pare di capire che rientro nell’inciso “al di là”…
18 settembre 2017 alle 21:50
Ma.Ma., sì, in effetti mi sa che la premessa del libro dice il contrario di quello che ho pensato io.
18 settembre 2017 alle 21:52
Quella che percepiamo chiaramente come la protagonista del racconto muore improvvisamente e senza motivi narrativi a metà racconto. Questo non è mica normale.
18 settembre 2017 alle 22:08
Sì Giulio, ma la tua premessa dice anche “al di là della storia che raccontano”. Che abbia una forma particolare è evidente anche per me, forse però non al di là di tutto tutto, ecco.
19 settembre 2017 alle 05:30
Devo ho usato la parola “forma” (con prudenti virgolette) in modo deliberatamente vago (e pensando, per di più, più che altro alla “forma fisica” del libro). Le tre tappe di Al faro – la “vita felice” della famiglia e degli ospiti, la desolazione dell’abbandono, la penosa gita al faro – non solo impongono dei salti temporali cospicui, cosa che può accadere anche nella narrativa più serenamente popolare, ma ci costringono ad accettare una storia che contraddice alcune “regole” elementari: per esempio, che la storia finisce quando il protagonista e/o l’antagonista vincono o muoiono (non per nulla l’Iliade se ne infischia di raccontarci la conquista di Ilio, e si ferma al funerale di Ettore; ma poteva anche fermarsi alla pura e semplice morte di Ettore).
Si può dire: certo, ma la gita al faro è una specie di funerale della signora Ramsay, e quindi lei è comunque “sempre presente”, eccetera. Si può dirlo, ed è ragionevole. Ma, per dire, la morte di Ettore è narrativamente motivatissima, quella della signora Ramsay no; il patrimonio narrativo dell’Iliade è senz’altro esaurito alla morte di Ettore, e quel che segue è chiaramente un epilogo, mentre non si potrebbe dire che la terza parte di Al faro sia un puro e semplice epilogo – anche la quantità di testo successiva alla morte della signora Ramsay è spropositata, ec.
19 settembre 2017 alle 06:02
Ho capito, grazie Giulio.
19 settembre 2017 alle 13:58
Quando ho ricercato con più calma la causa della morte della signora Ramsay, ho trovato un punto in cui la Woolf dice: a furia di dare, dare, dare, si era spenta(una roba del genere).
Piuttosto vago come indizio, che poi ho perso di vista prima d’esser riuscita a trascriverlo.
19 settembre 2017 alle 14:25
Appunto: molto vago.
19 settembre 2017 alle 16:27
Quello che non capisco è perché, perché Ramsay ha voluto fare quella gita dopo dieci anni? Anche io, al posto di James, mi sarei appuntata di restare arroccata contro la tirannide. Solitudini, una diversa dall’altra, sì, ma qui la causa prima, scatenante, è l’incomunicabilità. Perché se si fossero parlati di più, prima, tutti loro, la gita al faro dopo dieci anni sarebbe stata superflua.
19 settembre 2017 alle 18:49
Librini, credo che la gita al faro sia un omaggio post mortem a Miss Ramsay. Giulio scrive: è una specie di funerale. È anche, forse, un modo per ripetere una consuetudine della signora: portare generi di conforto alla famiglia del guardiano del faro. Ramsay padre non ci è riuscito per dieci anni. Forse il dolore si è un po’ attenuato. È un segno di ripresa della vita. La stessa Woolf scrive Al faro a 43 anni circa, dopo aver perso i suoi quando ne aveva 13. In seguito, riesce a non essere più totalmente ossessionata dalla perdita dei suoi genitori. Miss Ramsay è la madre di Virginia Woolf. Quando la sorella di Virginia legge il manoscritto, ha un colpo, e si chiede come Virginia sia riuscita a descrivere così perfettamente la loro madre, lei, che all’epoca era appunto solo una fanciulla. Del resto, si trattava di Virginia Woolf.
20 settembre 2017 alle 07:38
quindi dobbiamo dire che la signora Ramsey non è la protagonista: protagonista è il tempo.
20 settembre 2017 alle 15:46
Nella prima parte è protagonista la signora Ramsey; nella seconda sono protagonisti la casa e il tempo; nella terza penso sia Lily. Lo statuto del protagonista in questo libro, ricordiamocelo, è abbastanza eroso.
20 settembre 2017 alle 20:34
C.P. bisogna scegliere! se no così troviamo il protagonista ad ogni pagina. Poi già la parola protagonista (ma lo dici anche tu mi pare)
20 settembre 2017 alle 22:07
Cristian, io trovo meraviglioso e commovente che questo libro sia organizzato così, intorno a tre nuclei: la madre in tutto il suo splendore; il silenzio e l’abbandono dopo la morte della madre; la nascita dell’artista, che è donna ma non è madre, e della madre riesce, alla fine, a ricomporre il volto. Woolf riesce a trasformare la propria esperienza, le ferite irrisolte, in qualcosa di così bello. Chiaro che dire meccanicamente che il “protagonista” cambia a ogni parte, come ho fatto io, è riduttivo, ma dietro c’è tutto questo, difficile condensarlo in poche righe.
9 novembre 2017 alle 12:42
Davvero una bellissima “recensione”, anche se la definirei più un viaggio nella memoria e nella scrittura della Woolf. Anche per me le parole di Nadia Fusini incarnano esattamente l’essenza di Virginia.