[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” mi pare, ora che ci sono quindici articoli pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). gm].
Qui si parla di un libro, anzi due, che presuppongono un museo che a sua volta presuppone una collezione di ritratti. Si parla cioè di libri che prima di diventare libri erano qualcos’altro. Bella forza, direte, tutti i libri prima di diventare libri erano qualcos’altro: idee, intuizioni, vaghi progetti, fiammelle pronte a estinguersi nel gelido mare della pagina bianca. Sì, però non tutti i libri nella loro metamorfosi sono passati attraverso forme concretissime, visibili e sensibili come, appunto, una collezione di ritratti o un museo.
Gli Elogia furono scritti da Paolo Giovio in latino, ma furono tradotti già contestualmente all’uscita delle prime edizioni e poi molte altre volte nel corso dei secoli. In un’edizione Einaudi del 2006 i due volumi originali sono stati riuniti in uno solo col titolo di Elogi degli uomini illustri, a cura di Franco Minonzio con traduzione dello stesso Minonzio e di Andrea Guasparri e una prefazione di Michele Mari. Da questa edizione ho tratto le citazioni usate in questa noterella.
Prima di seguire ordinatamente il percorso che va dalla collezione ai libri, però, inquadriamo l’autore con un breve elogium a lui dedicato, precisando che nell’accezione usata da Giovio “elogio” non va inteso come sinonimo di encomio, ma nel suo significato antico di “motto o breve iscrizione”.
L’autore
Paolo Giovio (1483 (o forse 1486) – 1552), nacque a Como e ottenne la laurea in medicina a Padova. Fu celebre in vita non tanto come medico, quanto come erudito, storico e biografo, ma anche come abilissimo cortigiano e collezionista di prebende, pensioni, privilegi e sinecure. Mosse i suoi primi passi nelle corti romane attorno al 1512 sotto la protezione di nobili e cardinali. Le sue fortune raggiunsero l’apice duranti i papati liberali e umanistici dei Medici, Leone X e Clemente VII (che nel 1528 lo nominò vescovo di Nocera), per poi declinare durante quello di Alessandro Farnese (Paolo III), caratterizzato dal furore controriformisco che limitava la libertà intellettuale e, cosa assai invisa al nostro, quella dei costumi. Nel 1549 Giovio si trasferì a Firenze sotto la protezione di Cosimo I de’ Medici. La sua conoscenza della medicina non servì a salvarlo da un attacco di podagra, nota anche come gotta, di cui morì il 12 dicembre 1552. Fu sepolto in San Lorenzo, dove si trova tuttora il suo monumento funebre. Il giudizio sull’uomo e sull’opera, già a partire dai contemporanei, è controverso. Da un lato gli viene riconosciuta la grande erudizione e anche una certa apertura intellettuale e autonomia di giudizio, mentre dall’altro viene visto come personaggio prono ai potenti, ostile alle idee nuove, avido cacciatore di favori e per niente restio a falsificare dati e circostanze per esaltare i suoi protettori e svalutare i loro nemici. Come spesso accade, è molto probabile che entrambi i giudizi contengano buone dosi di verità.
La collezione
Per tutta la vita Giovio si dedicò principalmente a un progetto di Historiae sui temporis (Storia del proprio tempo) rimasto incompiuto, prova concreta del suo interesse per la storia che a sua volta aiuta a spiegare lo sfrenato collezionismo di aneddoti e testimonianze dirette su eventi notevoli passati e presenti. Giudicava l’originale come unica fonte affidabile e per questo insisteva fino alla noia per ottenere dai testimoni diretti la descrizione degli eventi più recenti e spesso, come nel caso dell’incoronazione di Carlo V a Bologna, brigava per essere presente in prima persona. Oltre a testi antichi e moderni, Giovio faceva incetta di ritratti di uomini celebri, collezionando incisioni e dipinti dei moderni, e chiedendo a pittori e incisori di ricavare i ritratti degli antichi da monete e statue coeve. Era ossessionato dalla verosimiglianza e dalla precisione dei tratti somatici, che per lui erano sufficienti a tracciare le qualità morali dei soggetti, anticipando in questo la fisiognomica tardo-cinquecentesca di Giambattista della Porta.
Il collezionismo, si sa, può degenerare in patologia, ma anche al di qua della malattia mentale può causare problemi logistici e finanziari a chi vi si dedica. È noto in tempi recenti il caso di Giuseppe Pontiggia, a cui a mala pena bastavano due appartamenti, una portineria e svariate cantine per ospitare i trentacinquemila volumi della sua biblioteca. Giovio, dal canto suo, per risolvere il problema degli spazi progettò e costruì una villa-museo a Borgovico, sul lago di Como.
Il museo
La villa-museo di Borgovico fu costruita fra il 1537 e il 1543 in uno stile sobrio e rustico, con la sola eccezione dell’imponente salone affacciato direttamente sul lago. Il progetto secondo gli studiosi si ispirò direttamente ai dettami di Vitruvio, saltando a piè pari la mediazione di Leon Battista Alberti. Anche in architettura, come nella ritrattistica, Giovio confermava la sua preferenza quasi ossessiva per l’originale e la parallela diffidenza per le copie o le interpretazioni moderne. Nelle stanze e nelle gallerie della villa trovarono posto i ritratti degli uomini illustri corredati da pergamene e cartigli con una descrizione di vita e opere dei soggetti raffigurati. Queste brevi biografie erano la prima forma scritta assunta dagli Elogia prima della loro definitiva trasmutazione in libri.

Anonimo lombardo, ca. 1618. Veduta della villa-museo di Giovio
(ricostruzione su altre fonti iconografiche realizzata dopo la demolizione)
L’idea di museo concepita da Giovio era piuttosto originale per l’epoca. Allora il museo era un luogo privato dedicato alle arti, spesso un salone o un insieme di ambienti in cui i facoltosi dell’epoca tenevano le loro collezioni. Giovio invece pensava il museo come luogo aperto al pubblico. Si trattava di un pubblico selezionato, naturalmente, invitato da Giovio stesso a visitare la villa, ma resta comunque l’idea di non considerare l’arte come proprietà esclusiva ma come bene a disposizione di molti, anche con fini pedagogici e di diffusione della cultura. Solo più tardi, su questa falsariga, sarebbero nati i musei come li intendiamo oggi.
Purtroppo in quegli anni le fortune di Giovio erano in fase discendente e alla sua morte gli eredi non furono in grado di mantenere in vita il museo. La collezione di ritratti andò dispersa e la villa fu venduta. Nel 1615 l’abate Marco Gallio la demolì per costruire al suo posto una residenza estiva, Villa Gallia, oggi proprietà della provincia di Como.
I libri
Quasi presagendo la triste fine a cui era destinato il museo, o forse ispirato dall’aureo motto di Orazio “exegi monumentum aere perennius”, o forse solo per far due soldi alla svelta, Giovio decise di raccogliere gli Elogia e darli alle stampe. Sia come sia, fu proprio l’idea di pubblicarli a salvare gli Elogia dalla fine ingloriosa del museo e dall’oblio perenne. Il progetto originario prevedeva tre libri dedicati rispettivamente ai letterati ai condottieri e agli artisti. Il terzo volume non vide mai la luce, mentre il primo fu stampato nel 1546 a Venezia e il secondo nel 1551 a Firenze.
Curiosamente entrambe le prime edizioni uscirono prive di illustrazioni: i libri in cui si sarebbe dovuta reincarnare la collezione esposta nel museo nascevano orfani della loro stessa ragion d’essere, forse per una banale questione di costi e tempi di realizzazione, se si considera che i ritratti dei letterati erano centoquarantasei e quelli dei militari centoquarantadue.
A questa contraddizione rimediarono le edizioni di Basilea del 1575 (vedi) e 1577 (vedi) che, essendo postume, Giovio non poté vedere. Giunti a questo punto, possiamo finalmente andare a curiosare dentro i libri, che fin qui non c’erano, per vedere come sono fatti.
Gli Elogia sono un grande affresco biografico di letterati e condottieri, che partendo da Romolo arriva fino ai contemporanei dell’autore, con una naturale prevalenza di questi ultimi. Anche solo sfogliandoli e leggiucchiando si percepisce l’atmosfera museale della grande collezione esposta al pubblico, e si ha davvero la sensazione di passeggiare in una galleria rinascimentale tappezzata di ritratti. Come capita visitando un museo, viene spontaneo soffermarsi ogni tanto a guardare più attentamente questo o quel reperto. Si scopre così l’ossessione di Giovio per i tratti somatici, il suo furore collezionistico di “veri” ritratti, ma anche la vasta erudizione, la cura dei dettagli, la capacità di sintesi e una lingua acuta e brillante.
Trattandosi di Giovio, però, è praticamente impossibile non notare due caratteristiche che fin dal principio gli furono riconosciute, diciamo così, dai lettori: l’inaffidabilità e la perfidia. Già i contemporanei lo consideravano una fonte poco attendibile. Per usare le parole di Giorgio Vasari, uno che di biografie se ne intendeva, che riferiva di una conversazione avuta con Giovio sugli artisti dell’epoca:
Mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti; ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile, e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l’opere, o non dicea le cose come stavano apunto, ma così alla grossa.
In una lettera del 1548 a Benedetto Varchi, Annibal Caro notò che Giovio vantava una conoscenza dettagliata e basata su fonti dirette di molti fatti storici, ma che “non ne aveva altro scartafaccio che la sua memoria”. Insomma, pare che il Giovio andasse un po’ a spanne, fidandosi troppo di quel che ricordava e senza prendersi la briga di verificare quello che scriveva.
Ma non si tratta solo di errori materiali o di memoria fallace. Capita spesso, infatti, che Giovio parta da un giudizio morale precostituito sulla base dei tratti somatici, secondo i dettami della sua personale fisiognomica, oppure sulla base di una divergenza di opinioni, specialmente se il malcapitato era considerato nemico della religione o del papato. I fatti e le notizie sono quindi piegati ad arte per sostenere a posteriori il pregiudizio.
A questo si aggiunge un tratto psicologico che Michele Mari nella sua prefazione alla citata edizione Einaudi del 2006 non esita a definire sadismo. Sembra proprio che Giovio goda nel fare a pezzi la fama altrui, e il sadismo diventa ferocia quando si tratta di personaggi invisi all’autore per le loro idee o azioni, come nel caso di Lorenzo Valla, colpevole di aver demolito la falsa donazione di Costantino “per tentare di sradicare l’autorità del pontefice” che viene descritto come un bilioso attaccabrighe, o di Niccolò Machiavelli, reo di non adorare i Medici, che per sarcastico contrappasso morirà “poco prima che Firenze, domata dagli eserciti imperiali, fosse costretta ad accogliere di nuovo i Medici, suoi antichi padroni”, con evidente soddisfazione di Giovio nell’accostare la morte del nemico al trionfo degli amici. E proprio agli amici e ai protettori sono per contrasto riservate lodi così definitive da scadere in accondiscendenza servile e adulazione. “Un saluto a te eroe grandissimo, il migliore, educatore generoso di ingegni nonché padre di tutte le arti” è l’incipit dell’elogio a Lorenzo de’ Medici, che poi si chiude con una goffa estensione della lode a papa Leone X, garante della pagnotta quotidiana del nostro: “È molto difficile ritenere che tu possa aver superato la gloria di tuo nonno Cosimo, se tu non avessi generato (fortunata discendenza) Leone X, concesso dal cielo per onorare la virtù”.
La perfidia di Giovio raggiunge vette insuperabili quando arriva a trattare la morte dei suoi personaggi, che nel suo resoconto è spesso frutto di dabbenaggine o giusto contrappasso di nequizie a volte universalmente riconosciute, altre volte attribuite ai poveretti dall’autore. Così Marsilio Ficino, attentissimo a difendersi dalle correnti d’aria, morì sbadatamente di una “febbre leggera”; Duns Scoto, che secondo Giovio fu un torbido corruttore di anime pie, dopo un colpo apoplettico venne creduto morto e sepolto vivo, e “chiedendo invano aiuto con un lamento straziante, batté a lungo la lapide, ma alla fine si spaccò la testa e morì”; Niccolò Machiavelli, velenoso in vita, morì “dopo aver assunto un farmaco che lo avrebbe dovuto proteggere dalle malattie”; Bartolomeo Cocles – astrologo, cartomante e veggente – “non riuscì a evitare l’agguato che gli sarebbe stato fatale” e il suo assassino “Copono non seppe giustificare l’assassinio in altro modo se non dicendo che Cocles gli aveva predetto che entro breve sarebbe divenuto un efferato omicida”.
In conclusione, Paolo Giovio è un erudito colto, raffinato, spesso acuto nei giudizi critici, ma inevitabilmente partecipe di tutte le contraddizioni dell’epoca e del proprio status di intellettuale di corte, mestiere che allora richiedeva la protezione della spada e buone dosi di equilibrismo per non perderla e finire magari in ceppi o al rogo. E comunque, alla fine della fiera, va detto che è proprio la sua perfidia a rendere la lettura degli Elogia godibile e divertente ancora oggi: il museo gioviano è anche un gigantesco pettegolezzo che abbraccia secoli di storia, una specie di gossip crudele e spassoso sullo star system antico e rinascimentale.
Bisogna infine dire che nel suo caso, come lui credeva delle fonti storiche, l’originale rende molto meglio dell’interpretazione, e quindi chiudo con una breve rassegna di alcuni ritratti accompagnati da estratti dei relativi elogia, a partire da quello di Campano, che è un autentico capolavoro di crudeltà. Buon divertimento.
Antonio Campano (1429 – 1477)
“Chi non si meraviglierebbe di trovare nella bocca spalancata di una scimmia grassa una predisposizione e una capacità intellettuale così alte? Chi non si meraviglierebbe di trovare in una stirpe così bassa una fortuna così grande? In effetti fu una contadina sfinita dal lavoro a partorire e allevare in un campo, sotto un alloro, Antonio Campano. […] Fra le molte opere che rimangono si legge con enorme piacere la vita del famoso condottiero Braccio, degna di passare alla posterità se non avesse alterato la verità dei fatti con l’adulazione poetica”.
Ezzelino III da Romano (1194 – 1259)
“Il tiranno di Padova Ezzelino, mostro del genere umano, si vede dipinto in Palazzo Pretorio, a Padova, con questa fronte accigliata, questo pallore tremendo, la ferocia del suo carattere indomabile che spira dagli occhi viperini. […] Non tradì il sangue infetto della sua discendenza. A mitigarlo, nella sua rabbia congenita, non valsero nessun modo di vita più umano, nessuna influenza positiva della linea materna, nessun influsso di una regione così tranquilla. […] Si era schierato dalla parte di Federico II quando quest’ultimo muoveva guerra agli eserciti del papa. […] [Quando fu sconfitto e fatto prigioniero], dalla folla che aveva circondato la tenda si levava un chiasso e un urlare confuso che ne chiedeva la testa. Poco dopo Ezzelino rese a Dio la sua anima dannata e, pieno d’odio, sfuggì alle giuste torture che l’ira tremenda degli esuli aveva preparato per lui”.
Giovanni Duns Scoto (1265-1308)
“Nessuno di quelli che bruciando di un sano amore per la pietà cristiana si sono spontaneamente asserviti alla vita monastica fu più acuto o più sottile di Giovanni Scoto negli studi più severi. […] In realtà questo personaggio, con il suo modo di discutere arrogante e capzioso, sembra che si sia preso gioco dei dogmi cristiani. […] Ma Giovanni, che sembra avere portato un certo numero dei propri monaci alla rovina, splendidi ingegni nati per produrre frutti eccellenti, instradandoli in un cammino tortuoso verso la verità, fu preso da un colpo apoplettico e pagò il fio di una colpa, palese od occulta. Dato per morto, fu tumulato troppo rapidamente. La sua vita, infatti, si riaccese e la natura si trovò ad avere sconfitto troppo tardi l’assalto della malattia: chiedendo invano aiuto con un lamento straziante, batté a lungo la lapide, ma alla fine si spaccò la testa e morì”.
Giorgio Trapezunzio (1395 – 1472)
“Aveva un intelletto davvero portato al ragionamento ma, come apparve subito, pieno di un odio aspro. Si dichiarava, infatti, un filosofo peripatetico ed esaltava solo Aristotele. Perciò fu così prevenuto nell’accogliere le idee altrui, da non permettere che si lodasse neppure l’intelletto del divino Platone: pubblicò un famoso libro in cui, con estrema violenza e in modo indecente, ne calunniò non solo il pensiero, ma anche la condotta morale. […] Giorgio riuscì ad arrivare a una vecchiaia così avanzata che il ricordo di tutte queste cose svanì completamente nella sua testa, ridotto com’era a uno stato di rimbambimento delirante”.
Cesare Borgia (1475 – 1507)
“Dicono che Cesare Borgia, equiparato ai tiranni dell’antichità per il suo carattere sanguinario e la sua mostruosa crudeltà, sia nato da sangue infetto e da un seme ignobile. Infatti aveva il viso di un colorito rossastro scuro, cosparso di escrescenze purulente, gli occhi incavati, che facevano guizzare un atroce sguardo da serpente, infuocati. […] Era impegnato nella guerra contro il conte di Lerin e, dopo essere uscito vincitore da uno scontro disordinato nei pressi di Viana, cadde colpito da una pallottola. […] E di quella morte il suo animo feroce, all’uscire dal corpo, avrebbe potuto allietarsi: sarebbe dovuto morire come una vittima sacrificale abbattuta dopo aver subito le torture più atroci”.
Marsilio Ficino (1433 – 1499)
“L’opera del suo valido intelletto fu tanto feconda e veloce che la maggior parte della gente si meravigliava che in un corpo piccolino come il suo, che a stento arrivava alla dimensione di un mezzo uomo, ci fosse una forza di spirito così grande e inusitata, nonché tanta competenza nelle due lingue [latino e greco, ndr]. […] Era così scrupoloso nell’illusione di poter vivere a lungo che spesso cambiava cappello anche nella stessa giornata, quando la temperatura aumentava o si alzava un po’ di vento. Ma dopo aver pianto le morti premature di Lorenzo, Ermolao, Poliziano, Pico della Mirandola, tutti morti nello stesso anno, e quelle di Landino e Savonarola, morì di una febbre leggera nella sua villa di Careggi”.
Angelo Poliziano (1454 – 1494)
“Poliziano ebbe fama di possedere un ingegno stupefacente fin da subito quando, ancora giovanissimo, dopo aver celebrato gli spettacoli equestri di Giuliano de’ Medici in un famoso poema, superò il famoso poeta Luca Pulci. […] Spesso aveva comportamenti contorti, accompagnati da un viso tutt’altro che nobile e davvero assurdo, soprattutto per il naso enorme e l’occhio strabico. Dicono che, divorato dall’insano amore per un giovane di nobile famiglia, fosse stato facile vittima di una malattia. Effettivamente, imbracciata la cetra, mentre quella fiamma e una febbre veloce lo bruciavano dentro, cantò versi di assoluta follia. Addirittura, mentre delirava, la voce stessa, i nervi delle dita e il respiro vitale lo abbandonarono in poco tempo, sotto il peso di una morte priva di dignità”.
Cristiano II re di Danimarca (1481 – 1559)
“Si può credere che tu non sia stato generato da una donna, ma sia nato da una belva mostruosa, terrificante, di quelle che abitano il tuo mare del Nord, e sia stato allevato fra le balene e le orche. In effetti tradiscono questa nascita i tuoi occhi insidiosi e da vipera, il viso feroce, i denti mostruosi, la barba ispida imbevuta di sangue umano, la stessa che si dice abbiano i cannibali antropofagi del Nuovo Mondo. […] In effetti, privo di fede e arrogante come sei, non hai abbandonato solo il pontefice romano, cosa che forse si potrebbe sopportare, ma Cristo e i suoi santi, per […] farti odiare dal genere umano come un assassino mostruoso, con il risultato che le popolazioni di tutta la Danimarca, del Gotland e della Norvegia hanno cospirato per ribellarsi pubblicamente, piene di odio perché a governarle non è un uomo ma un mostro. E alla fine, dopo averti scacciato, al posto di un senzadio si sono scelti un re cristiano, di nome e di fatto, che ti ha rinchiuso tra le sbarre di una gabbia come una belva indomabile, incatenato per sempre”.
Niccolò Machiavelli (1469 – 1527)
“Chi non si meraviglierebbe del fatto che in Machiavelli tanto siano prevalse le doti naturali che, pur non avendo alcuna cognizione di lettere latine o, comunque, avendone una mediocre, riuscì ad acquisire una perfetta competenza come scrittore? […] I Medici, che dopo l’espulsione di Pier Soderini lo avevano messo sotto inchiesta torturandolo per farlo parlare, per calmare il suo risentimento nei loro confronti lo avevano assunto con un salario annuo per scrivere di storia. In realtà Machiavelli non riuscì troppo bene a soffocare il suo odio ed esaltava i vari Bruti e Cassi della situazione non solo quando parlava, ma anche quando scriveva. […] In seguito visse in povertà, sempre irrisore e ateo. Morì per scherzo estremo facendosi beffe della sua vita, dopo aver assunto un farmaco che lo avrebbe dovuto proteggere dalle malattie. Fu poco prima che Firenze, domata dagli eserciti imperiali, fosse costretta ad accogliere di nuovo i Medici, suoi antichi padroni”.
Pomponio Gaurico (1481 – 1530)
“Fu poeta di una certa fama e notevole per il suo ingegno appassionato e produttivo in diversi campi; sennonché, distratto dal suo carattere incostante e a caccia di novità, passava febbrilmente da un’arte all’altra senza risultare mai preciso o diligente. […] È noto che Pomponio si innamorò follemente di una nobildonna e che svelò la sofferenza del suo animo utilizzando la poesia come mezzana. E lo fece in modo tanto incauto e appassionato che, mentre si dirigeva a Stabia passando per Sorrento, durante il viaggio fu salutato da alcune persone che lo incontrarono, ma dopo non ricomparve più da nessuna parte”.
Carlo III di Borbone (1490 – 1527)
“Chi ha visto Carlo di Borbone non può non riconoscerlo in un ritratto somigliante come questo e non giudicare la leggerezza e la perfidia del suo spirito incostante dalla sua espressione e dal suo sguardo. […] [Durante il sacco di Roma del 1527,] in una tragica carneficina la chiesa più sacra e più grande del mondo fu profanata con il sangue dei disgraziati che si erano rifugiati presso gli altari. Per quanti avevano subito slealmente quella violenza e quella strage, l’unica consolazione fu che lo stesso comandante Carlo di Borbone, mentre ordinava di accostare le scale, fu colpito da un grosso proiettile. […] I Romani credevano devotamente che fossero state le loro volontà a dirigere questo pezzo d’artiglieria contro l’inguine di un nemico condannato dal cielo”.
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17 agosto 2017 alle 10:21
Grande passione per la ricerca e il passato. Complimenti, Luca. Letti con interesse questo e il precedente.
17 agosto 2017 alle 10:45
Ammappete! altro che haters della rete: questo sì che è un vero stronzo.
17 agosto 2017 alle 11:31
Ma cavoli! Questo pare proprio spassosissimo. Me lo voglio leggere. E semmai pure quello di Pontiggia. Una domanda: ma in pratica fa il verso al libro di Nepote? (Vite degli uomini illustri-De viris illustri)
Complimenti per l’articolo.
17 agosto 2017 alle 12:20
Grazie Bart, troppo buono.
Ma.Ma, sì Nepote, Svetonio, Plutarco… il genere non era nuovo. L’originalità di Giovio, a parte la stronzaggine sottolineata dal perfido Lettore 🙂 , è la concezione “museale” del genere biografico.
19 agosto 2017 alle 13:56
A parte la felice intuizione di un museo aperto al pubblico,- per quanto selezionato -, direi che da questa preziosa disamina emerge un personaggio da prendere molto con le pinze dai suoi coevi e che, un poco, ricorda certo do ut des della politica di ogni tempo ,con colpi bassi per gli avversari e lusinghe a caccia di favori per il potente di turno. Il lato meno nobile della nostra imperfetta e debolissima natura umana, insomma. Complimenti per l’ottimo lavoro.
20 agosto 2017 alle 07:17
Sì, Emanuela, anche se va detto che la cortigianeria e gli sgambetti reciproci per conquistare i favori dei potenti erano un vizio diffuso (e a sentire i racconti di chi lavora nelle università, pare che sia diffuso anche oggi). Giovio ha almeno il dono di una bella penna e di una vis comica dì tutto rispetto.