[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” mi pare, ora che ci sono quindici articoli pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). gm].
Hypnerotomachia Poliphili, ovvero La battaglia d’amore in sogno di Polifilo, è un romanzo quattrocentesco, per quello che può indicare l’etichetta “romanzo” a quell’altezza cronologica. Il libro è comunemente attribuito a Francesco Colonna, frate domenicano probabilmente originario di Treviso, a lungo iscritto nei capitoli del convento dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, vissuto tra il 1433 e il 1527. L’attribuzione è stata oggetto di lunghe controversie non so fino a che punto sopite ai giorni nostri. L’attribuzione al frate Colonna è fondata su numerosi argomenti fra i quali il più curioso è il fatto che le lettere iniziali dei trentotto capitoli sono un acrostico che forma la frase «Poliam frater Franciscus Columna peramavit» («Fra’ Francesco Colonna amò intensamente Polia»).
Hypnerotomachia Poliphili fu pubblicato nel 1499 da Aldo Manuzio ed è considerato uno degli incunaboli più belli usciti dalla tipografia aldina, anche per le numerose immagini che accompagnano il testo. In rete, presso Archive.org è possibile sfogliare (o prelevare in diversi formati) una versione digitalizzata dalla Boston Public Library, mentre il progetto Manuzio mette a disposizione una trascrizione completa.
Un romanzo, quindi, e più precisamente un romanzo d’amore, dell’amore di Polifilo per Polia e di lei per lui, con una trama relativamente semplice: Polifilo si addormenta, e in sogno si ritrova in un luogo inospitale, una selva intricata e abitata da belve insidiose. Qui ode un canto melodioso e inizia a seguirlo. Nella prima parte del viaggio incontra architetture e paesaggi meravigliosi, descritti nei minimi dettagli, che rappresentano l’inizio di un cammino verso la conoscenza del puro amore. (Lo schema, notiamo, è il medesimo di molte narrazioni allegoriche dell’Età di Mezzo, dal Roman de la Rose alla Divina Commedia).

La prima pagina di un manoscritto del Roman de la Rose (1237-1280 ca.) conservato presso la biblioteca dell’Accademia d’Arte di Düsseldorf: un uomo addormentato, un giardino protetto da alte mura, una donna…

Ancora il Roman de la Rose: l’hortus conclusus, le figure allegoriche,
la dama, la fontana del rispecchiamento…
Superata una magna porta al termine di un’ascensione all’interno di una piramide, Polifilo incontra alcune ninfe che lo accompagnano nell’ameno regno di Eleuterillide, simbolo della liberalità amorosa e della Natura madre. Lì può riposare e saziarsi con un lauto pasto, poi altre due ninfe che simboleggiano Volontà e Ragione lo accompagnano nei pressi di tre porte che rappresentano la gloria divina, quella amorosa e quella mondana. Seguendo i consigli della Volontà e ignorando quelli della Ragione, Polifilo sceglie la porta dell’amore, oltre la quale troverà l’amata ninfa Polia, che lo accompagnerà nella seconda parte del viaggio. Insieme salgono su una navicella condotta niente meno che da Cupido e arrivano all’isola di Citera, patria di Venere, che visitano in lungo e in largo in compagnia di altre ninfe e di Cupido stesso, scoprendo templi, sepolcri e anfiteatri, fino al sacro fonte di Venere Natura. Giungono infine al sepolcro di Adone e lì Polia racconta alle ninfe come si è innamorata di Polifilo e lui di lei in una trama ricca di peripezie, fra cui un’epidemia di peste, lettere spedite e non lette, e perfino la morte di Polifilo poi resuscitato dall’abbraccio dell’amata. Terminato il racconto di Polia, le ninfe si congedano e i due amanti restano soli a parlare d’amore, fino a quando Polia abbraccia stretto Polifilo per poi scomparire ponendo fine al sogno.
Vedremo che il velo del romanzo amoroso cela un intenso racconto sapienziale ricco di allegorie, nonché un ricchissimo repertorio di tutto lo scibile dell’epoca, ma restiamo ancora un momento al di qua del velo. La trama può essere ricostruita anche allineando i titoli dei trentotto capitoli in cui il libro è suddiviso. Li riporto in originale per dar conto della lingua usata dal frate Colonna, un volgare veneto strettamente intrecciato al latino, di non immediata comprensione, ancora oggi affascinante e riconoscibile come lingua colta e destinata a un pubblico colto, ma anche singolarmente priva di esibizionismo, nitida e precisa, dove ogni parola sta al posto giusto e ha una funzione che non è mai solo ornamentale.
I. Poliphilo incomincia la sua hypnerotomachia ad descrivere et l’hora, et il tempo quando gli apparve in somno di ritrovarsi in una quieta et silente piagia, di culto diserta. D’indi poscia disaveduto, con grande timore intrò in una invia et opaca silva.
II. Poliphilo temendo el periculo del scuro bosco al Diespiter fece oratione, uscitte fora anxioso et sitibondo, et volendo di aqua ristorarse, ode uno suave cantare. El quale lui sequendo, refutate l’aque, in magiore anxietate pervene.
III. Poliphilo quivi narra, che gli parve ancora di dormire, et altronde in somno ritrovarse in una convalle, la quale nel fine era serata de una mirabile clausura cum una portentosa pyramide, de admiratione digna, et uno excelso obelisco de sopra, la quale cum diligentia et piacere subtilmente la consideroe.
IV. Poliphilo poscia che egli hae narrato parte della immensa structura, et la vastissima pyramide, cum el mirando obelisco nel sequente capitulo descrive magne et miravegliose opere, et praecipuamente de uno caballo, de uno iacente colosso, de uno elephanto, ma praecipuamente de una elegantissima porta.
V. Poliphilo assai sufficiente havendo facta la dimonstratione et la symmetria dilla magna porta, sequita optimamente descrivendo il perpolito et faberrimo suo ornato, et quanto mirabilmente composita era.
VI. Intrato alquanto Poliphilo nella descripta porta, cum grande apiacere ancora vedeva el miro ornato dil suo ingresso. Et volendo poscia retro ritornare, vide el monstrifero dracone, et ello oltra el credere perterrefacto per lochi subterranei prehende fuga. Alla fine expectatissimo exito retrovando pervene in uno loco ameno.
VII. Poliphilo narra la benignitate dilla inventa patria, ove isso era intrato, nella quale vagando trovò una exquisita fontana, et molto conspicua. Et come vide venire cinque legiadre damigelle verso ad esso. Et quelle dil suo advento ivi assai meravegliantise. Pietosamente resicuratolo ad sui solatii pare cum elle lo invitano.
VIII. Eleuterilyda conducto, vide per la via, et al pallatio cose egregie et una eximia opera di fontana.
IX. Quanta insigne maiestate fue quella della regina, et la conditione della sua residentia, et admirando apparato Poliphilo al suo potere il narra. Et la benigna et affabile susceptione. et ella miravegliatose di lui. Et quanto mirabile et splendido fue il convito, sopra il capto della humana notitia excedente, et il loco ove fue fato (di comparatione privo) alquanto descrive.
X. Poliphilo sequita narrando oltra tanto convivio una elegantissima corea che fue uno gioco. Et come la regina ad due praestante puere sue il commisse. Le quale el conduseron ad mirare delitiose et magne cose, et confabulando enucleatamente la maestrorono commitante d’alcune dubietate. Finaliter perveneron ad le tre porte. Et come ello rimanete nella mediana porta, tra le amorose nymphe.
XI. Una elegantissima nympha in questo loco solo relicto et dalle lascive puere deserto gli vene all’incontro, la sua bellecia et indumento poliphilo amorosamente descrive.
XII. La bellissima nympha ad Poliphilo perventa, cum una facola nella sinistra manu gerula, et cum la soluta presolo, lo invita cum essa andare, et quivi Poliphilo incomincia più da dolce amore della elegante damigella concalefacto, gli sentimenti inflammarsene.
XIII. Polia ancora incognita all’amante Poliphilo gratiosa et facetamente el fa securo. Il quale per le sue mirande bellece da opera ad amore nella mente sua, et accostatise ambidui ad gli triumphi, innumeri adolescentuli et puere festigianti cum molto dilecto vide.
XIV. Poliphilo in questo praescripto loco vide le quatro triumphante seiuge tutte di varie petre et di pretiosissimi gioielli. Dalla multitudine promiscua di beati gioveni in laude del summo Iove molto venerabondi.
XV. La multitudine degli amanti gioveni, et dille dive amorose puelle la nympha a Poliphilo facundamente dechiara, chi furono et come dagli dii amate, et gli chori degli divi vati cantanti vide.
XVI. La nympha havendo competentemente al suo Poliphilo, gli triumphali mysterii et el divino amore dechiarito. D’indi più oltra lo invita procedere, ove ancora cum summo dilecto innumere altre nymphe vide. Cum gli sui quam gratissimi amanti, in mille solacii per li flori delectantise, et per le fresche ombre et chiari rivuli et lympidissimi fonti, et como Poliphilo fortemente d’amore exagitato quivi rabiva. Ma cum sperancia moderantise. S’acquietoe la sua bella nympha nel suo dolce aspecto mirando.
XVII. La nympha per altri belli lochi, lo amoroso Poliphilo conduce, ove vide innumere nymphe solennigiante et cum il triumpho di Vertuno et di Pomona d’intorno una sacra ara alacremente festigianti. Da poscia perveneron ad uno miraveglioso templo. Il quale ello in parte descrive, et l’arte aedificatoria. et come nel dicto templo, per admonito della antistite, la nympha cum molta cerimonia la sua facola extinse, manifestantise essere la sua Polia a Poliphilo. Et poscia cum la sacrificabonda antistete, nel sancto sacello intrata, dinanti la divina ara invocò le tre Gratie.
XVIII. Polia divotamente le turture offerisce. D’indi uno spiritello advola. Diqué la antistite, alla divina Venere disse la oratione. Daposcia sparse le rose, et degli cigni facto il sacrificio, da quello miraculosamente germinoe uno rosario cum fructi et fiori. Ambidui di quegli gustorono. Daposcia ad uno ruinato tempio laeti perveneron. Dil quale Polia gli dice quale rito havea. Suadendo a Poliphilo ivi molti antiquarii epitaphii a contemplare andasse. Et cum spavento a lei ritornato, et ricreato, pari sedendo, Poliphilo mirando le immense bellece di Polia, tuto in amore se infiammava.
XIX. Polia a Poliphilo suade, che nel destructo tempio gli antiquarii epitaphii egli vadi a speculare, ove Poliphilo vide mirabile cose, et legiendo ultimamente il rapto di Proserpina dubitoe incautamente la sua Polia havere diciò perduta, et spaventato a llei ritornoe. daposcia il dio d’Amore venendo Polia intrare cum Poliphilo in la navicula invita. Il quale chiamando Zephiro navigorono foelici. Et navigando da gli marini dei ad Cupidine grande veneratione gli fue facta
XX. Poliphilo narra che le nymphe havendo gli remi infrenati incominciorono suavemente di cantare. et Polia cum comparatione cantando, magna dolcecia d’amore persentiva.
XXI. Pervenuti laetissimi allo optatissimo loco, la digna amenitate dil quale assevera Poliphilo di piante, herbe, et avicule, et inquilini opportunamente discrivendo. Ma inprima la forma dilla navicula, et come nel descendere dil signore Cupidine di rincontro honorabonde molte nymphe dorophore maturamente se apresentorono.
XXII. Usciti fora dilla navicula all’incontro infinite nymphe veneron cum trophaei superbamente indute. Poliphilo narra, et il mysterioso modo, che gli divini gestamini a Cupidine elle offerirono, et cum quale honorario processo, postose a sedere sopra il triumphale vehiculo. Et Polia et Poliphilo ambo ligati drieto sequenti, cum maximo triumpho alla porta dil mirabile amphitheatro perveneron. Il quale, et fora, et intro plenamente ello il discrive.
XXIII. Poliphilo il mirabile artificio dil venereo fonte descrive nel centro dilla theatrale area existente, et come fracta fue la cortinetta. et vide la divina Matre in sua maiestate, et come essa silentio alle cantante nymphe impose. Dille quale tre per uno a Polia et a llui gli consignoe. Daposcia Cupidine ambi dui gli ferite, et la dea cum l’aqua dil fonte gli imbrefece, et Poliphilo fue revestito. Postremo venendo Marte impetrata la licentia se partirono.
XXIV. Per lo advento dil armigero recensente Poliphilo narra, che fora dil theatro uscirono cum tutto il consortio, et cum l’altre nymphe ad uno sacro fonte perveneron. ove le nymphe narrano del sepulchro di Adone. Et come la dea anniversariamente ivi conveniva adimpire le sancte cerimonie. et cessando dal tripudio et cantare suaseno. Poscia a Polia che ella narrasse la sua origine, et il suo inamorare.
XXV. Poliphilo incomincia il secondo libro di la sua hypnerotomachia. Nel quale Polia et lui disertabondi, in quale modo et vario caso narrano intercalariamente il suo inamoramento. Narra quivi la diva Polia la nobile et antiqua origine sua. Et como per li predecessori sui Trivisio fue edificato. Et di quella gente Lelia oriunda. Et per quale modo disaveduta et inscia disconciamente se inamoroe di lei il suo dilecto Poliphilo.
XXVI. Percossa Polia di pestifero morbo, a Diana se votoe, et consecrandose, a caso Poliphilo nel tempio la vidde. ove uno dì daposcia sola orante la trovoe. Alla quale esso narrando la noiosa pena, et il martyrio che per lei amando sostenea, et chiamando mitigio. Essa perstando immisericorde il vidde trangusire a morte. Diqué quale malefica d’indi prese celere fuga.
XXVII. Polia alquanto epiloga la sua immanitate, et che fugiendo fue da uno vertigine suvecta, et senza avertire portata in una silva. ove vide fare stracio di due damigelle, diciò ispaventata, per quel modo al suo loco ritornoe. Poscia dormendo gli apparve da dui carnifici essere rapita. Territa perciò moventise dal somno se excitoe la nutrice et essa. La quale utile consiglio sopra questa cagione li dete.
XXVIII. Polia raconta per qual modo la sagace nutrice per varii exempli et paradigmi l’amonisse vitare l’ira, et evadere le mine deli dei. Et como una donna disperata per intemperato amore seme uccise. Consultando senza pigritare ire alla antista del sancto tempio della domina Venere, che quello essa sopra di ciò debi fare. Quella benignamente gli prestarae convenevole et efficace documento.
XXIX. Polia perterrefacta della divina ira, per gli exempli della prudente alumna. Dispositamente incomincioe a inamorarse, et al tempio andoe, ove Poliphilo morto iacea, et piangendo, et illachrymando, et amplexabunda, ello suscita. Et come le nymphe de Diana gli fugano. Et le visione narra, che nella sua camera Polia vide. Daposcia al phano andando di Cenere, retrovoe lo amoroso Poliphilo.
XXX. Accusatose Polia dinanti alla templaria della transacta impietate. Et che al presente tuta era di ardente amore suffusa, dimonstrando Poliphilo astante. La religiosa matrona chiamatolo ad sé. Il quale supplicando stabilimento di ambidui in uno rato proposito. Polia da impatiente amore in sé infortito interumpette la risposta.
XXXI. Apena Poliphilo hebbe terminato la sua narratione, che Polia gli dice del suo vehemente amore intimamente saucia, et di amarlo molto avidissima, cum varie exemplificatione. Et per manifestare il suo urgente affecto, gli dede uno persuave basio per arra del suo excessivo amore. Et quello che la venerabile antista responde narra.
XXXII. Poliphilo lauda la perseverantia, obediendo al iusso del’antista. Intermittendo le parte dicte del suo inamorare narra et come la vidde ad una festa nel tempio, ove d’amore summamente exagitato, più poscia se dolse del suo discesso. Diqué li manifesta il suo cruciamento per inventione di mandarli una epistola.
XXXIII. Epistola prima la quale Poliphilo narra alla sua Polia havere scripto, et essa unquantulo non moventise, li mandoe la seconda.
XXXIV. Sequita la sua dolorosa historia Poliphilo, et como non se commovendo Polia per le due epistole, ello li mandoe la tertia, et quivi ancora essa perdurando più in la sua crudelitate, a caso Poliphilo la ritrovoe nel tempio di Diana sola orante, ove ello morite. Daposcia negli sui dolci amplexamenti resuscitoe.
XXXV. Sequita il suo narrato Poliphilo como gli apparve il spirito in esso reiterando parlare festivamente dicendogli, essere stato nel conspecto della divina Paphia placata et benigna, per la cui impetrata gratia, ritorna laetissimamente ad vivificarlo.
XXXVI. Poliphilo dice, che non più presto l’alma tacendo, nelle brace di Polia vivo se ritrovoe. precando poscia l’antista, che perpetuamente ambidui, gli debi d’amore invinculare, poscia fece fine. Et Polia conclude il suo narrare alle nymphe, como inamorata fue, et di essa Poliphilo.
XXXVII. Poliphilo dice che tacendo Polia hebbe ancora finita la florea strophiola, la quale essa postola nel capo el basciò suavemente. Et le nymphe che havevano cum tantula mora la historia amorosa auscultato, agli loro solatii ritornorono, et chieseno licentia. Polia rimanseron, et Poliphilo soli, et d’amore seco conferendo, Polia strictissimamente amplexantilo, disparve ella, et il somno.
XXXVIII. Poliphilo quivi finisse la sua hypnerotomachia, dolentise del somno che non fue più longo. Et che il sole fue invidioso facendo giorno.
Va detto che per il lettore digiuno, come me, di filologia e non troppo abituato a leggere un volgare illustre del xv secolo, la lettura dell’originale non è particolarmente agevole, anche perché la grafia dell’epoca, dove le “s” sembrano “f” e le “v” sono “u”, non facilita il compito. Per nostra somma fortuna nel 1998 Adelphi ha pubblicato una traduzione del libro, ripubblicata in edizione economica nel 2004. L’edizione è in due volumi. Il primo è una riproduzione dell’incunabolo originale, mentre il secondo contiene la traduzione e il commento al testo, assieme a una corposa e dotta introduzione dei curatori Mino Gabriele e Marco Ariani sul libro, l’autore, le controversie per l’attribuzione del testo e delle illustrazioni.
L’introduzione rende dettagliatamente conto dei legami stretti fra l’Hypnerotomachia e la lunga tradizione sapienziale e misteriosofica che ha origine in Platone e nell’ermetismo e passa per Apuleio, Plotino, Macrobio, Proclo e Marziano Capella, lo pseudo Dionigi Areopagita, il neoplatonismo umanistico di Marsilio Ficino e il sincretismo di Pico della Mirandola.

Presunti ritratti di Poliziano, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino,
in Esposizione al popolo del reliquiario del Miracolo Eucaristico,
affresco di Cosimo Rosselli, 1486;
Firenze, Chiesa di Sant’Ambrogio, Cappella del Miracolo
E ai dotti curatori rimando chi volesse approfondire l’originalità del percorso sapienziale di Francesco Colonna, che non arriva alla conoscenza spirituale attraverso la liberazione dell’anima dalla prigione dei sensi, ma al contrario prevede di raffinare i sensi per accedere al mistero anche attraverso esperienze estatiche e dionisiache. Un esempio unico di sincretismo in cui si mescolano elementi neoplatonici ermetici ed epicurei e in cui anima e corpo concorrono uniti all’esperienza mistica di tutte le cose, più che una loro astratta conoscenza mentale o spirituale.
Che questa visione paganeggiante del mondo sia opera di un frate domenicano non sorprende più di tanto, se si pensa che all’ordine non appartennero solo Tommaso d’Aquino o gli autori del Malleus Maleficarum ma anche figure poco ortodosse come Tommaso Campanella o Giordano Bruno, e che nelle cronache medievali non mancano esempi di contaminazioni fra conventi e culti esoterici. Francesco Colonna, però, a differenza di Bruno o Campanella, da un lato ha trascorso la sua lunghissima vita prima della Controriforma e in un clima culturale più aperto e dinamico, e dall’altro ha mantenuto un profilo basso e prudente che gli ha consentito di coltivare il suo sincretismo francamente pagano ed esoterico senza esporsi alla reazione dell’ortodossia. Dalle poche informazioni che abbiamo su di lui, quasi tutte provenienti dagli archivi del convento dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, emerge la figura di un frate dotto e partecipe della vita ecclesiastica, a cui i superiori assegnarono incarichi anche rilevanti. Certo, non mancarono i dissidi e le grane, fra cui l’accusa non molto edificante di aver “sverginato una putta”, ma niente che comportasse mai le conseguenze gravi e definitive a cui poteva portare un’accusa di eresia.
Dal suo unico libro emerge la figura di un uomo curiosissimo del mondo e della vita in ogni sua sfaccettatura, capace non solo di ricamare complicate allegorie sapienziali e voluttuose esperienze erotiche, ma anche ninfe, draghi, bestie feroci, castelli e piramidi, statue, anfiteatri, paesaggi incolti e campi coltivati, vigne e giardini, gemme e marmi, con una ricchezza di dettagli che presuppone uno studio straordinario di ogni risvolto della natura e dello scibile umano. Ed è proprio questa abbondanza descrittiva, unita a una decisa sensualità, che rende l’Hypterotomachia Poliphili un libro bello da leggere anche senza coglierne appieno tutte le complessità mistiche e sapienziali. Per non farla troppo lunga riporto un breve saggio della scrittura di Francesco Colonna, questa volta non in originale ma nella traduzione della citata edizione Adelphi. Dal capitolo XXIII, pag. 358 e seguenti dell’incunabolo, dove Polia e Polifilo arrivano al fonte di Venere sull’isola di Citera:
Quando, con venerabile rispetto e assoluta devozione, l’accorta Polia e io ci inginocchiammo emozionati davanti al mistico fonte della divina genitrice, mi sentii penetrare da un’impercettibile dolcezza, che mi pervase con tale violenza che a quel punto non sapevo più cosa fare. Veramente, l’incredibile amenità e delizia del luogo, piacevole oltre ogni immaginazione per la primaverile bellezza della vegetazione e per gli uccelli che fendevano l’aria purissima cinguettando e svolazzando fra le giovani fronde, seducevano i miei sensi corporei. Nell’udire il canto melodioso concertato con suoni inauditi dalle elegantissime ninfe, alla vista dei loro gesti divini e di quelle pudiche movenze, mi sentii eccitare da un ardore di suprema voluttà. Riflettendo con acuta curiosità su un’architettura di tanto elevata concezione e su quella squisita disposizione, bevendo avidamente di quella mai provata fragranza, non sapevo precisamente, per Giove immortale, a quale potere dei sensi ricorrere per fermarvi stabilmente l’intensità del mio sguardo, distratto da un diletto così nuovo, da un delizioso, incontenibile godimento, da un simile, voluttuoso piacere. […] Ma soprattutto, in quel luogo, eravamo estasiati dalla straordinaria novità del mirabile fonte.
Era divinamente costruito al centro di quel sovrumano edificio e realizzato in questo modo: della stessa nerissima pietra che sola lastricava interamente il pavimento dell’arena, proprio di essa era fatto un muretto che vi stava nel mezzo, alto un piede e modellato con eccelsa levigatura e ogni indispensabile ornamento. Esternamente aveva forma ettagonale, circolare all’interno, con tutto intorno una piccola cimasa e uno zoccolo. Nel punto mediano di ciascun angolo erano regolarmente posti dei piccoli e ben modellati piedistalli con le modanature a onda, sopra questi le basi e poi le colonne con entasi, cioè un po’ rigonfie: in numero di sette e favolosamente tornite. Due di queste stavano in esatta corrispondenza con l’ingresso, proprio di fronte a dove ci eravamo prostrati in ginocchio: una, quella di destra, rifulgeva del blu di un finissimo zaffiro, mentre quella di sinistra balenava del verde di uno smeraldo dal colore smagliante. […] Seguiva poi subito un’altra colonna di turchese, di un brillante, vivissimo azzurro, dotata della sua benigna virtù e, benché opaca, tuttavia sfolgorava come un lucidissimo specchio. Accanto alla colonna di zaffiro ce n’era una di prezioso smeraldo scuro, ma di un colore intensissimo come il meliloto e lustro come il traslucido fiore del batrachio. Accanto ce ne stava una di diaspro verde vetro, mentre l’altra era di un topazio fulgente come l’oro. Soltanto e unicamente la settima era esagonale, di un limpidissimo berillo indiano dal nitore olivastro che rifletteva gli oggetti al contrario.
La lingua chiara, nitida, densa di particolari restituisce contemporaneamente le immagini delle cose, la luce intensa della scena e le sensazioni che dalla vista passano a tutto il corpo del protagonista. A rendere piacevole la lettura, però, non è solo questo nitore descrittivo, ma anche l’azione che sempre accompagna la descrizione e che invoglia a voltar pagina per rispondere a classiche istanze del lettore di romanzi, come “cosa succede dopo” e “come va a finire”. Così, a pag. 361, nello stesso luogo appena descritto in tutti i suoi particolari:
Qui, tra le colonne di zaffiro e di smeraldo, pendeva, da lacciuoli annodati a dischetti girevoli, una cortina di tela grezza. […] Il divino signore Cupido porse alla ninfa Sinesia la freccia d’oro e con garbo fece cenno di offrirla a Polia, in modo che essa, con quella temibile saetta, lacerasse e rompesse la nobilissima cortina. Ma Polia, quasi dolendosi di quell’ordine di strappare e infrangere, sebbene si fosse sottomessa a quel divino comando, ne sembrava incapace e si rifiutava di eseguirlo. A quel punto, sorridendo il dio comandò alla ninfa Sinesia di consegnare la freccia alla ninfa Fileda perché me la desse in modo che ciò che la dolce e castissima Polia non osava fare dovessi eseguirlo io. […] Allora, afferrato il divino strumento, pervaso da una cieca fiamma, senza rifiutarmi, anzi gettandomi avanti spinto dall’emozione, colpii la cortina e, nel lacerarla, mi accorsi che Polia quasi se ne rattristava.
Cosa ci sarà oltre la cortina lacerata? Lascio al lettore il piacere di scoprirlo leggendo il resto.
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12 agosto 2017 alle 12:39
conoscevo l’opera scolasticamente, ma Giulio Mozzi è uno splendido Virgilio nel guidare attraverso i testi. Grazie.
12 agosto 2017 alle 17:20
Il pezzo è di Luca Tassinari. Virgilio è lui.
12 agosto 2017 alle 21:58
Potendo scegliere, preferirei Caron dimonio psicopompo o, visto l’argomento, bibliopompo. Grazie a Giulio Mozzi per l’ospitalità e per l’apparato iconografico.
13 agosto 2017 alle 09:51
Bibliopompo. Ottimo neologismo. Lo userò. Grazie.
13 agosto 2017 alle 15:54
Grazie, Luca Tassinari, per la scelta del testo e la sua esauriente illustrazione. Impertinente la mancanza del finale!!
14 agosto 2017 alle 01:31
Le illustrazioni, mi sembra di capire, sono dell’ospite, che ancora più impertinente dell’autore ha aggiunto il finale finalissimo proprio nell’ultima figura, anche se coperto dal velo del latino. La scena troncata dal Tassinari si presta benissimo a una lettura allegorica come deflorazione, quindi sì, omettere il finale è davvero impertinente. Comunque bello il libro e anche l’esposizione.
14 agosto 2017 alle 07:10
Direi, L. O., che “afferrato il divino strumento” è un eufemismo che lascia poco spazio all’immaginazione…
14 agosto 2017 alle 11:04
Oh, ma che roba romantica. Più che un bel pezzo, ecco, mi sono divertita a leggere di questo libro.
Facevo fatica solo a pronunciare Hypnerotomachia, e allora ho cercato il suo significato “amoroso combattimento onirico”, ma poi ho pensato che il titolo originale fosse decisamente migliore.
14 agosto 2017 alle 12:50
Mo sorbole, mi sento un po’ come quello del petaloso.
Ma.Ma, sì, il titolo originale è insuperabile.
Lettore e GM, non fate spoiler! 🙂
2 Maggio 2018 alle 21:19
Ti ringrazio per aver parlato del mio libro preferito!
Vorrei soltanto segnalarti che Polifilo dopo essere scappato dalle fiere, esausto, si accasca sotto un albero e dorme. Da lì inizia il secondo sogno con il proseguimento della storia.
Quindi la sua battaglia d’amore è un sogno dentro un sogno e se da quel che si evince dal finale, lui si risveglia soltanto dal primo (dato che anche nel primo sogno Polifilo dorme mentre c’è l’aurora), Polifilo rimane intrappolato nel primo sogno perché profondamente innamorato di Polia. Infatti, nell’epitaffio di Polia si evidenzia l’impazzienza della fanciulla per via dell’incapacità di Polifilo nell’accettare la sua morte. Forse l’acrostico potrebbe essere il suo epitaffio nel cimitero degli innamorati.
Saluti.