Come sono fatti certi libri, 7 / “I promessi sposi, da sposati”, attribuito ad Alessandro Manzoni

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di Ennio Bissolati

[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” risulterà, credo, evidente. Se altri volessero contribuire, si facciano vivi in privato (giuliomozzi@gmail.com).]

Milano, 1873, 6 gennaio. Alessandro Manzoni scivola mentre scende gli scalini della chiesa di San Fedele. Batte la testa. Perde molto sangue. Nelle settimane successive alternerà momenti di benessere e di lucidità e momenti di sconnessione. Fa in tempo a veder morire il figlio maggiore, Pier Luigi, il 28 aprile, e il 22 maggio muore. Il Comune di Milano decide di far imbalsamare il corpo, e incarica della procedura sette medici, che la eseguono tra il 24 e il 27 maggio. Il funerale viene celebrato il 29, in Duomo, con grande concorso di folla. Commovente è il racconto che ne fa Felice Visconti Venosta, in un opuscolo scritto a spron battuto e pubblicato prima della fine dell’anno. Leggiamone qualche pagina (152-158):







Eccetera. Ai nostri più attenti lettori non sarà sfuggito il passo-chiave, quello che più qui ci interessa:

“Un gridio di venditori”. Ecco il punto. I promessi sposi aveva procurato ad Alessandro Manzoni, via via che passavano gli anni, grandissima fama; egli era stato creato Senatore del Regno; gli era stato affidato un importante incarico in materia di lingua e di istruzione. Il popolo stesso lo amava. E se andavano a ruba le fotografie, i ritratti, gli opuscoli biografici, eccetera: non sarebbe andato a ruba un séguito de I promessi sposi?

La risposta la sappiamo oggi: no, non andò a ruba. I colti e gl’incolti, i nobili e i popolani, i religiosi e i laici, gli uomini e le donne, quando videro apparire e propagandare, poco dopo la morte del Nostro, un volume biecamente intitolato I promessi sposi, da sposati, non ebbero alcun dubbio: quella roba lì non poteva essere altro che, con decenza parlando, merda della peggiore specie.

In realtà, la pratica di proseguire, anche di rapina, romanzi scritti da altri (il caro Mozzi ne ha fornito un importantissimo esempio a proposito del Don Chisciotte, pochi giorni fa) era a quei tempi, più che ai nostri, usuale. La frammentazione politica dell’Europa in generale e dell’Italia in particolare, la difficoltà a percorrere grandi distanze, l’assenza di una qualunque regolamentazione del diritto d’autore, e mille altre cause, rendevano la pirateria tipografica ed editoriale un’attività economica facile, redditizia e sicura. E non solo si proseguiva; ma si copiava, anche, a man bassa; si traducevano romanzi pubblicati prevalentemente in Francia, ma anche in Inghilterra ed in Ispagna, a pena mutandone l’ambientazione, o anche senza mutarla, apponendovi in capo il proprio nome; si ripigliavano gli intrecci; si mischiavano due romanzi diversi per farne uno solo; si mutavano i nomi dei personaggi a romanzi già pubblicati, per metterli fuori come presunti séguiti di altri romanzi giunti a gran fama; e così via: a nessuna scelleratissima pratica rinunciavano i romanzieri, compresa quella di farsi scrivere i romanzi, o più esattamente di accozzare un po’ di parole e di vicende a caso, da ignobili e famelici e affamati scribacchini. E peraltro, nonostante tutto ciò fosse moneta corrente, i pubblico dei lettori e delle lettrici nel nostro caso si schifò; forse per rispetto al Maestro, forse perché un’opera così felicemente compiuta non poteva proprio ammettere un seguito, forse per la villania di presentare il nuovo romanzo non come “il romanzo di Manzoni proseguito dal Tale”, ma come un autentico, nuovo, vero romanzo di Alessandro Manzoni. La speranza di far quattrini andò in fumo.

D’altra parte (poi ci arriveremo, al romanzo, ci arriveremo) i tentativi di appropriazione de I promessi sposi sono andati tutti (e lasciamo perdere i più triviali) incontro a veri e propri disastri.

Ci provò (è il tentativo più celebre), sul finire del 1929 – doveva essere una strenna natalizia -, lo scrittore di successo (e licenzioso) Guido Da Verona, pubblicando un volume intitolato I promessi sposi di Alessandro Manzoni e Guido Da Verona: coi ritratti d’amendue, Alessandro e Guido, in copertina, di profilo, a fronteggiarsi. Di che razza di operazione si trattasse, si può immaginarlo. Da che mondo è mondo, le parodie manzoniane (della cui legittimità, com’è ovvio, non si discute) girano attorno a due cose sole: la scrittura, che col tempo sembrò apparire troppo quieta e misurata, e alla fin fine ronronnante (il Da Verona, per dire, in qualità di “D’Annunzio delle dattilografe e delle manicure”, come impietosamente lo definiva Adriano Tilgher, puntava a una prosa ben più spiccia, libera, scoppiettante e ornamentale) (col Tilgher, comunque, c’entravano anche delle ruggini, essendo il Da Verona – ma il “Da” era un’aggiunta artistica – ebreo, libertino e firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile; mentre il Tilgher, cattolicissimo, un po’ modernista – amico di una vita di Ernesto Bonaiuti, per spiegarsi -, aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce); e la totale assenza di storia d’amore, visto che Renzo e Lucia e Lucia e Renzo si amano, fin dal principio, senza esitazioni o dubbi: anche la faccenda del voto contratto da Lucia nelle segrete del castellaccio dell’Innominato (se la Madonna l’avesse fatta uscire di lì, non si dice viva, ma intatta, ella avrebbe rinunciato “a quel poveretto”) è faccenda alla quale nessun lettore crede: stracco espediente per mandare avanti la storia, generativo più di aneddoti che di vere vicende, al momento buono viene liquidato in poche righe.

Su entrambi questi piani si svolge la riscrittura parodica del Da Verona; della quale, rimandando i coraggiosi allo sfogliamento dell’opera completa precedentemente linkata, offriamo qui un brevissimo excerptum:

Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli (tali notizie noi ricaviamo da un Manoscritto del Milleseicento, nel quale è narrata la presente istoria) è un lago esclusivamente d’acqua dolce, a differenza del Mar Caspio o del Mar Morto, che son salati per pura combinazione. Il suddetto ramo, strada facendo, vien, quasi d’un tratto, a restringersi formando in luogo la città di Lecco, i cui abitanti diconsi Leccobardi; gente industriosa e di grande malizia, che, per potervi gettar sopra un ponte, costrinsero il lago a divenire un fiume.
Fra le altre anomalie che presenta questo ramo, v’è ancor quella di lasciarsi circondare, come già dicemmo, da due catene non interrotte di monti, le quali, se si fossero avvicinate ancor più, avrebber costretto il lago di Lecco a trasferirsi altrove; per esempio nel Tavoliere delle Puglie, dove i laghi sono oggetti da collezionista, oppure nelle immediate vicinanze di Milano, dove gli edili, che non fanno complimenti, si sarebbero affrettati a ricoprirlo.

S’è capito, no? Sì, s’è capito. Per Guido Da Verona fu un disastro. Enrico Manzoni, discendente di Alessandro, definì l’operazione una “truffa letteraria goffa, puerile, irrispettosa e scurrile”. I preti si risentirono per lo sfregio al Monumento della Cattolicità Nazionale (una “profanazione letteraria”: Pietro Maffi, vescovo di Pisa). Ma ben più si risentì il regime, per gli elementi di satira qua e là subdolamente ma inequivocabilmente disseminati: “Una continua beffa al film italiano, alla politica demografica, alla Fiera campionaria, alle sigarette di stato, alla quota 90“: Cornelio di Marzio, Critica fascista, gennaio 1930. Né lo soccorsero gli antifascisti: il solito Adriano Tilgher denuncia, nel quotidiano Il popolo di Roma dell’8 gennaio 1930, “l’arbitrio assoluto, l’insensatezza della parodia daveroniana”. E irride: “C’è la stessa coerenza che si riscontra nelle filastrocche che recita Petrolini quando fa Fortunello. Lì si ride perché c’è Petrolini. Qui Petrolini non c’è”.

Lo stesso giorno della recensione di Tilgher un gruppo di “gufini” costringono l’editore a togliere dalla vetrina della propria libreria le copie del libro. Il 20 gennaio 1930 Da Verona viene aggredito a pugni da due giovanotti mentre passeggia in via Bernardo Luini: tenta di denunciarli al segretario della Casa del Fascio, ma questi non si fa trovare. Da lì in poi, è un disastro. Lo scrittore più venduto d’Italia (già nel 1919 riusciva a spuntare anticipi dell’ordine del milione di lire: che sarebbe all’incirca un milione e mezzo di euro, fatte le proporzioni) si trova in serie difficoltà.

Meno sfortunata fu la ventura dei Promessi sposi di Piero Chiara, assai più nobile scrittore: scritto nei primi anni Settanta come soggetto e trattamento per il cinema (l’aveva richiesto Marco Vicario, il regista di Sette uomini d’oro), il romanzo – peraltro incompiuto: l’indisponibilità dell’industria cinematografica a un’operazione così ardita, verificata dopo aver fatto circolare alcuni capitoli, dovette essere decisiva – restò inedito, e fu pubblicato postumo per iniziativa di Ferruccio Parazzoli, allora dirigente in Mondadori. Così recensì, in La Repubblica, Paolo Mauri, il 2 giugno del 1996 (e si noti l’ironia di recensire la parodia di un Monumento dell’Italianità il giorno della Festa della Repubblica, in La Repubblica):

Tradendo Manzoni [Piero Chiara] celebra il miracolo, osserva Ferruccio Parazzoli, della resurrezione della carne. Una Lucia tutt’altro che modesta, con un seno prorompente, eccita infatti gli appetiti di un ben dotato Fra Cristoforo, di don Rodrigo e dell’Innominato che però si chiama Bernardino Visconti e dunque tecnicamente innominato non è più. L’unico destinato a restare a bocca asciutta è il povero Renzo, che non si chiama però Tramaglino ma Brambilla. […] Alla fine della parodia trionfa sempre il parodiato. Ma l’infrazione di Chiara è minima, quasi affettuosa.

Maggior fortuna auguriamo al ben più delicato, e alla fin fine del tutto alieno da quegli intenti morbosetti, romanzo-ricettario di Marco Giacosa e Chef de Valise Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, da poco pubblicato presso Miraggi, che non si dà altro scopo che di divertire un po’ chi ben conosce il capolavoro manzoniano, e di introdurre con facilità alla lettura chi invece non lo conosce. E possiamo immaginare che don Lisander, da lassù, lui così attento alle condizioni materiali di vita dei suoi personaggi, a simili operazioni non possa che divertitamente plaudere.

Ma veniamo dunque al dunque, ossia al nostro I promessi sposi, da sposati. Di Alessandro Manzoni, dice il frontespizio, ma diremmo: attribuiti ad Alessandro Manzoni. Da chi? Non si sa. L’articolazione del volume (piuttosto complesso, come vedremo) prevede la presenza di un “curatore” o “editore”, il quale peraltro non si firma che “P.S.”: che potrebbe valere, anche, per Post Scriptum. Forse anche l’oblio nel quale il volume è rattamente caduto ha distolto gli studiosi dall’esaminare la faccenda: in qualche archivio milanese uno scartafaccio ci sarà, supponiamo, capace di rivelare il segreto; ma non oggi.

Quanto alla materia narrativa, c’è poco da fare. Visto che Renzo e Lucia sono sposati, quale materia resta da narrare? Il misterioso P.S. (o chi per lui) doveva avere a mente il disastro (più artistico che commerciale) di Pamela’s conduct in high life (1741), orribile sequel di Pamela, or Virtue Rewarded (1740) di Samuel Rihardson (scritto, pare, dico il sequel, da tale John Kelly con l’approvazione e la partecipazione ai diritti di Richardson): nel quale la virtù della protagonista, messa alla prova nel primo originario volume, alla prova non viene messa più; con conseguente stanchissimo e aneddotico procedere della narrazione. E dunque, saggiamente, il P.S. decide di procedere per la via maestra: la storia di due sposi non può che essere una storia di matrimonio che va in crisi, ovvero di tradimento (vero o supposto) e di gelosia. E chi – riflettano i nostri venticinque lettori – chi può essere a mandare in crisi un così solido matrimonio? Chi, nell’originario I promessi sposi dispone di un talento sensuale bastevole a scardinare una coppia così avventurosamente e solidamente incardinata?

Lei, ovviamente, lei e solo lei: la sventurata Gertrude, in arte La Monaca di Monza. E dunque: l’industria della tessitura va in crisi; Renzo è costretto ad abbandonare la famiglia per andare in cerca di fortuna; gira di qua, gira di là, finisce a Monza, e si ritrova a fare l’uomo di fatica in un monastero femminile: dove incontra colei. Con totale spregio della storia di Virginia de Lyeda, la “vera” Monaca di Monza (che probabilmente il P.S. non conosceva: sua ispirazione sembrano essere, piuttosto, la vita di Elena Cassandra Tarabotti, monaca col nome di Arcangela, e soprattutto i suoi scritti: La tirannia paterna, La semplicità ingannata, L’inferno monacale, i quali forse occhieggiò pure il Manzoni), nell’ignoranza assoluta dei due capitoli cassati dal Manzoni e sostituiti dal famosissimo “La sventurata rispose”, il P.S. s’inventa una storia tra il pastorale e il pecoreccio, in verità più allusiva che sostanziale (sono ancora lontani i tempi dell’imperativo Show, don’t tell!), nella quale alla fin fine se il fatto avvenga, o sia solo desiderato o immaginato, non si capisce. Al termine di quattrocento stanchissime pagine, comunque, sia detto per tranquillità del lettore, la riconciliazione avviene e la felicità ritorna, appena annebbiata dal decesso dell’ormai decrepitissima Agnese.

Va detto che il P.S., in questa scelta, non si sa se si sia dimostrato più banale o più precursore. Al di là del fatto che i capitoli espunti sono stati più volte, in tempi recenti, pubblicati anche in edizioni popolari, e comunque con commenti e dichiarazioni filologicamente ineccepibili, non si può negare che Gertrude, tanto sventurata nella vita, abbia poi avuta una ventura letteraria decisamente fortunata. Ci si esercitò con acribia di storico più che con fantasia di narratore, l’indimenticato Mario Mazzucchelli; ci si impegnarono, con non poca fortuna, il giornalista Roberto Gervaso e il regista Eriprando Visconti (nipote di Luchino) (discendente di quel Felice Visconti Venosta dal quale prese inizio la nostra divagazione); ci diede il peggio di sé Totò; e ancora oggi, di tanto in tanto, nella narrativa popolare la povera Gertrude rivive:

Per tacer delle bufale da rotocalco:

Ma dunque: com’è fatto questo romanzo? Anche qui il calco manzoniano è evidente, benché rovesciato. Renzo Tramaglino, ormai anziano (siamo nel 1660, più o meno), confida il racconto delle sue “ulteriori avventure” a un dotto del paese, che diligentemente prende nota e, con sublime fantasia, decide di restare anonimo. Si mette tuttavia alla ricerca di documenti e informazioni, e fortunosamente rinviene un diario scritto di proprio pugno dalla sventurata Gertrude. Lo ricopia, allegando l’uno e l’altro scartafaccio in un involto che ripone poi, timoroso di far danno alla Storia Patria, alla Chiesa, e chi sa ad altri, nel tiretto nascosto di un tavolino. Un paio di secoli dopo il nostro P.S., avendo comperato il tavolino da un antiquario, avendovi ricoverato un certo numero di pistole (monete), dovendo partire di fretta, ed essendosi inceppata la serratura dello sportello, prende un’ascia e spacca tutto: salta fuori così l’involto. Dal trovarlo al leggerlo, e dal leggerlo al decidere di pubblicarlo (“rifacendone tuttavia la dicitura”, avvisa il P.S.), passa giusto il tempo di compiere l’operazione e di seguire un’intuizione.

Come dunque avviene spesso nei sequel, si incrementa in quantità per sopperire alla mancanza di qualità: non più un solo manoscritto, ma due; che il P.S. non allinea in sequenza, ma incastra drammaticamente a capitoli alternati. La conclusione vera della storia è affidata al discorsetto di Agnese a figlia e genero, sul letto di morte, tutto pieno di buoni consigli; il sottofinale è la notizia della morte di Gertrude, arrivata insieme a una lettera-confessione piena di scuse, e un bel sacchetto di dindi d’oro.

E questo è tutto. Se è un romanzo da leggere? Assolutamente no.

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3 Risposte to “Come sono fatti certi libri, 7 / “I promessi sposi, da sposati”, attribuito ad Alessandro Manzoni”

  1. Lettore Occasionale Says:

    Grazie al sempre egregio Bissolati per questa gustosa rassegna di proliferazioni manzoniane. Egli saprà senz’altro che sequel del romanzone compaiono ancora in epoca contemporanea. Ne è un esempio il “Maria Tramaglino” del Civardi. Chissà, forse fu il Manzoni stesso a tirarsi addosso questa iattura, pubblicando lui per primo quel “contenuto extra” dei Promessi sposi che fu la Storia della colonna infame.

  2. C. P. Says:

    Ma P.S. non aveva scritto anche il prequel “I promessi sposi prima della promessa”, in cui si scopre che Lucia è la figlia segreta dell’Innominato? Altro che improvvisa conversione…

  3. “Seconda parte. Storia universale delle continuazioni”, di Armando Séguito | vibrisse, bollettino Says:

    […] di Ariosto che continua Boiardo, di Avellaneda che continua Cervantes, delle continuazioni dei Promessi sposi, di Richardson o Defoe che continuano sé stessi, di Stig Larsson continuato da David Lagercrantz, […]

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