di giuliomozzi
Un uomo ha un’intuizione. Comincia a scrivere un romanzo. Scrive con foga, quasi senza pensare, come se una voce gli dettasse da dentro. Ha la sensazione che ciò che sta scrivendo sia bello. Porta i primi capitoli a un suo professore. Il professore legge, è perplesso, fa due controlli, poi meravigliato dice: “Figliolo, ma tu hai semplicemente copiato il Don Chischiotte di Cervantes!”. L’uomo, che non ha mai letto il Don Chisciotte, resta sbalordito.
Questa è la storia, notissima, raccontata da Borges nel racconto intitolato appunto Pierre Menard, autore del “Chisciotte”. Ma non è importante la storia in sé, quanto uno dei possibili significati proposto da Borges: il Don Chisciotte scritto da Cervantes all’inizio del Seicento e quello scritto da Pierre Menard in pieno Novecento, per il solo fatto di essere scritti da autori diversi e in tempi diversi, benché identici parola per parola sono due libri completamente diversi. Il Don Chisciotte cervantino, per dire, non potrà che essere letto alla luce della cultura spagnola del Seicento; quello di Menard alla luce di quella francese del Novecento. Eccetera. Ma vi ho ingannati.
Perché non è vero che Pierre Menard ignori il Don Chischiotte. Lo conosce benissimo. La sua intenzione è proprio quella di riscriverlo. Non copiarlo: riscriverlo. Una pratica letteraria, sia detto per inciso, tutt’altro che bizzarra. Se le traduzioni sono riscritture, se in particolare le traduzioni da una lingua di un’epoca alla medesima lingua di un’altra epoca sono riscritture, basta poi qualunque apparato di note di un’edizione di Dante o di Petrarca per convincerci che la poesia vive di riscritture, più o meno esplicite. Pensate alla descrizione fisiologica della gelosia fornita da Saffo (“Davvero mi sembra simile a un dio”, ec.) e a quante volte è stata, integralmente o parzialmente, esplicitamente o implicitamente, riscritta da Catullo (almeno) in poi. La ragazzetta che in tram dice all’amica: “Quando lo vedo con quell’altra, mi sembra mi si restringa il cervello”, riscrive Saffo. A livelli più nobili, pensiamo a Seamus Heaney (poeta irlandese, Nobel) che traduce-riscrive il Beowulf (antichissimo poema epico); o a D’Annunzio che senza nessuno scrupolo versifica i trattati d’agricoltura di Columella o quelli d’architettura di Palladio, e così via; o a Manganelli che che si dà a scrivere un “libro parallelo” al Pinocchio di Collodi.
Ma in cosa differiscono, concretamente, il Don Chisciotte di Cervantes e quello di Pierre Menard? Borges fa un esempio:
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne.
Qui lasciamo perdere Borges e tutto il resto, e veniamo a noi. Nel 2001 Einaudi pubblicava un mio libro intitolato Fiction. Nel 2017 Laurana pubblica un libro intitolato Fiction 2.0, che si dà come “nuova edizione, insieme aumentata e diminuita” del Fiction del 2001. Sarebbe agevole sostenere che, se anche le due edizioni fossero testualmente identiche, essendo il Giulio Mozzi che nel 2001 autorizzò la pubblicazione di Fiction tutt’altra persona dal Giulio Mozzi che ora nel 2017 autorizza la pubblicazione di Fiction 2.0, in realtà esse non hanno nulla che fare l’una con l’altra. Non ci si bagna mai nel medesimo fiume, diceva quello; non si ripubblica mai il medesimo libro, aggiungo io.
Nel 2001 ero convinto che Fiction fosse un libro nel quale, finalmente, dimostravo di essere bravo. I miei precedenti libri erano stati letti pressoché da tutti (o così mi pareva) come esiti di rovelli esistenziali, come neanche tanto velate trasposizioni autobiograsfiche, come libri “sporchi” la cui effiacacia stava nel tracimare o nel trasparire dell’informe nel contesto di forme nevroticamente quiete e ordinate. Di questo ne avevo abbastanza. Volevo fare un libro nel quale non ci fosse traccia di me. Tutto in prima persona, ma di prime persone che non avessero nulla che fare con me. Pensai di intitolarlo Prosopopee; in casa editrice mi risero in faccia (giustamente), e mi proposero Ballo in maschera, che però ci parve subito troppo ambizioso nonché ambiguo (il senso era: tutti questi personaggi portano una maschera; ma poteva anch esuggerire che tutti quegli “io” deliranti nel libro fossero “maschere” o travestimenti di me). Alla fine fu Fiction.
Oltre che dimostrare di essere bravo, infattiì, con Fiction avevo l’ambizione di prendere per le corna il toro della finzione. All’origine di tutto c’è una domanda: “E’ possibile determinare se una narrazione sia veritiera o no, sulla base della sola narrazione?”. Attenzione. Se vi racconto che ho visto un asino che vola, voi sapete che non sto dicendo una cosa vera: gli asini che volano non esistono, lo sanno tutti, e quindi il mio racconto non è corrispondente alla realtà. Ma se vi dico che stamattina (giovedì 6 luglio 2017) ho fatto colazione un una tazza di caffè Lavazza Crema & Gusto (leggero: due cucchiaini in una moka da tre) e due biscotti Oro Saiwa, si può determinare se questo è vero o no? La verifica sul campo non è possibile, essendo il fatto già avvenuto (per carità: ci sono testimonianze, e si trovano anche in rete, della mia abitudine a bere caffè molto leggero, anzi “brodino di caffè”: ma non basta), e quindi per decidere se il racconto è vero o no possiamo basarci solo sul racconto stesso.
Qualche capoverso sopra ho scritto:
Ma vi ho ingannati. Perché non è vero che Pierre Menard ignori il Don Chischiotte.
Tutti avrete inteso correttamente: nel suo racconto, Borges dice che Pierre Menard non ignora il Don Chisciotte. Ma, ammetterete, l’uso della formula “non è vero” è, in questo caso, piuttosto curioso. Certo: si tratta di una ellissi per: “Non è vero che nel suo racconto Pierre Menard autore del “Chisciotte” Borges scrive che Pierre Menard ignora il Don Chisciotte di Cervantes”. Tuttavia, non vi pare che alla fin fine trattiamo il povero Menard come se fosse un oggetto dotato della proprietà dell’esistenza più o meno come ne siamo dotati noi? E, per dirla tutta: quando leggiamo una storia (o la guardiamo al cinema) e proviamo sentimenti veri, e magari forti (al punto da scoppiare a ridere o a piangere, o da sentirci innamorati o patriottici, o da andare a letto poi con le orecchie tese a tutti gli scricchiolii notturni della casa), in che modo questi sentimenti sono veri, visto che sono stati suscitati da narrazioni che sappiamo essere inventate? D’altra parte: quando eravamo bambini, la differenza tra ciò che è vero e ciò che è inventato ci era poi così chiara? E: la famosa formula della “volontaria sospensione dell’incredulità”, trovata da Coleridge, siamo sicuri che sia proprio vera? A me non pare di sospendere la mia incredulità allo stesso modo quando leggo, che so, Il compagno di Pavese o Aminta di Torquato Tasso: nel primo caso so che sto leggendo il racconto di cose che veramente potrebbero essere successe – nel secondo caso no. E: il racconto della creazione in sette giorni, che per secoli è stato vero nel suo senso letterale, in che senso o modo è vero oggi? E: l’Iliade, che per i greci antichi era storia patria, in qual momento ha smesso di essere una storia vera per diventare un prodotto artistico?
Non se ne esce. Rimuginavo intorno a queste cose, nel lontano 1999 o giù di lì, finché mi venne da scrivere un pezzo di racconto (a casa di Giovanni Arduini, oggi scomparso, che voleva farmi scrivere un film): per chi ha il libro, è il discorso di don Mario in La fede in Dio. Fallita l’idea (folle) di scrivere un film, mi rimase quel discorso. Costruii un racconto (appunto La fede in Dio) che potesse contenerlo. Il racconto in sé non mi soddisfaceva: lo arricchii con un paio di allegati, cioè altri due discorsi di don Mario. Che erano allegati, cioè non stavano dentro il racconto, bensì fuori. Mi accorsi che quegli allegati modificavano in parte, e in parte addirittura contraddicevano, il racconto. Eureka! Avevo trovato una forma.
Abbastanza rapidamente scrissi altri racconti: Lettera ai direttori, Di mio padre, Del matrimonio, ec., nei quali la faccenda si spingeva più in là. Il racconto vero e proprio era un testo in prima persona, gli allegati erano in terza – cronachistici e impersonali – e smentivano più o meno brutalmente il contenuto dei racconti. Il personaggio che parla si dice solo, e si scopre che è divorziato; si dichiara buon padre di famiglia, e si scopre che andava a prostitute; dichiara di aver ucciso il padre, e risulta invece che ha accoppato la madre; e così via. Addirittura, in uno di questi allegati compare un “perito narratologo”, tale Stefano Brugnolo, che dichiara incredibile il racconto per “eccesso di coerenza narrativa”: il racconto, cioè, non ha le sbavature e le incoerenze che una vera testimonianza solitamente ha (perché, come dice l’adagio, le vite dei personaggi di romanzo hanno sempre un senso, la vita vera non ce l’ha mai). L’anno prima dell’uscita di Fiction Zanichelli aveva pubblicato un Ricettario di scrittura creativa firmato da Stefano Brugnolo e da me…
Insomma: un tentativo di forzare la finzione. Questo è Fiction. Ma più esattamente: questa è la prima parte di Fiction. Perché poi c’è un racconto strano, Narratology, nel quale un uomo si interroga sul fatto che dall’anno 94 d.C., cioè dall’anno in cui si presume sia stato scritto il Vangelo di Giovanni, ultimo (in ordine di composizione) libro della Bibbia, ufficialmente il dio risulta aver taciuto. Com’è possibile, si domanda l’uomo, che dopo aver per parlato svariati secoli, tanto da riempire duemila pagine (questo il numero delle pagine della Bibbia in suo possesso), il dio abbia deciso di tacere? Sì, dal 94 d.C. in poi abbiamo avuto padri apostolici, padri della chiesa, dottori della chiesa, e quant’altro: ma nessuno di questi fu, come il testo biblico, “ispirato” dal dio. (Vedi la lettura “teologica” del racconto fatta da Antonio Spadaro, gesuita).
La domanda rimane aperta. A Narratology seguivano, nell’edizione einaudiana del 2001, alcuni racconti attribuiti ad autori diversi da me: una tale Regina, Lucio De Palma, Franco Brizzo, Giovanna Melliconi. Di alcuni di questi si potevano, chi le avesse cercate, trovare tracce anche fuori dal libro: Brizzo e Melliconi, per esempio, erano due (allora) giovani artisti (un’opera di Brizzo, Homo homini homo, stava in copertina), seguiti e curati da Bruno Lorini e Giulio Mozzi; e avevano alle spalle qualche piccola mostra, qualche partecipazione. Un terzo giovane artista della medesima squadra, Carlo Dalcielo, compariva non con un racconto: ma con un’intervista (lo intervistava Lucio Sorgato, preteso critico d’arte) e una dichiarazione di poetica. Pure di un Lucio De Palma, a cercar bene, si sarebbero potute trovare delle tracce: ma fortemente contraddittorie con ciò che su di lui si poteva apprendere in Fiction.
In sostanza: dopo i racconti “non credibili” di Giulio Mozzi, una serie di racconti non di Giulio Mozzi, bensì firmati da soggetti che avevano tutta l’aria di essere immaginari – ma comunque dotati di una loro vita esterna al testo. (Quello che farà più strada sarà Carlo Dalcielo, con l’opera Il pittore e il pesce ispirata a Raymond Carver – il relativo libro fu pubblicato da minimum fax).
A posteriori posso dirlo: non fu una buona idea unire quelle due serie di racconti. E non solo perché quelli di Brizzo, a rileggerli quest’anno, mi sono sembrati bruttini (uno l’ho messo qui). Ma perché il tipo di “attacco alla finzione” che i primi e i secondi svolgevano era completamente diverso. Un conto è presentare narrazioni non credibili, un conto è ragionare su che cosa sia un autore. Ma non me ne resi conto, allora, non se ne rese conto Dalia Oggero che fece con me l’editing del libro. Andò così. Il libro uscì. Non destò, che io mi ricordi, grande interesse. La rassegna stampa fu esigua – rispetto, almeno, allo standard Einaudi.
Sedici anni dopo, il libro è ancora qui. Si chiama Fiction 2.0. Ha perso i racconti di Brizzo e qualche altra cosa. C’è un pezzo firmato da Mariella Prestante, creata nel 2013 ed estinta l’altro giorno, indirizzato a Giulio Mozzi. Ci sono allegati nuovi, altri ne sono spariti. L’intervista e la dichiarazione di poetica di Carlo Dalcielo sono seguite da un corposo saggio interpretativo di Massimo Adinolfi: un uomo che, bizzarramente, esiste; e insegna filosofia all’Università di Cassino. Massimo scrisse quel saggio prima che ci conoscessimo (forse ci siamo conosciuti proprio perché, trovato il mio indirizzo, me lo spedì). Qua e là compaiono delle note che distinguono l’attuale Fiction 2.0 dall’originario Fiction. Un racconto, Lettera di conforto, nel quale compare un personaggio, “Bianca”, già apparso in altri miei testi o racconti (magari non nominato), è ora dotato di una sorta di nota storico-critica che tenta di descrivere, appunto attraverso le storie con quel personaggio, un pezzo o un movimento del mio immaginario (chi sia l’autore della nota, non è noto).
Non so che impressione possa fare il libro a chi, oggi, lo legga come se fosse un libro qualsiasi. Perché, bello o brutto che lo si trovi, un libro qualsiasi non è.
Tag: Andrea Palladio, Antonio Spadaro, Bruno Lorini, Carlo Dalcielo, Catullo, Cesare Pavese, Columella, Dalia Oggero., Eraclito, Franco Brizzo, Gabriele D'Annunzio, Giorgio Manganelli, Giovanna Melliconi, Giovanni Arduini, Jorge Luis Borges, Lucio De Palma, Miguel De Cervantes, Pierre Menard, Raymond Carver, Saffo, Samuel Taylor Coleridge, Seamus Heaney, Stefano Brugnolo, Torquato Tasso, William James
6 luglio 2017 alle 10:17
Gentile Giulio Mozzi,
interessante quanto ho appena letto, ma le domando: è davvero così importante per il lettore, un lettore qualsiasi, questa faccenda della verità, veridicità, verosimiglianza, fiction, autofiction, maschere, balli in machera ecc.
Un libro è un libro è un libro. O no..?
(magari sono troppo sempliciotta, pardon)
6 luglio 2017 alle 10:44
ho letto. Ma con Paola concordo che un libro è un libro. Forse questo articolo avrei dovuto leggrlo “dopo”. In ogni caso, sono preparata. 😉 Grazie, al solito, GM. Una giornata che inizia con le sue parole è una buona giornata. Infatti odio i week end. Mi ritrovo al lunedì ad aspettare Vibrisse: ma quando sforna i panini, mi dico, o il panino? Adesso vado a digerire, con lieve ruttino di soddisfazione gastrica e intellettiva.
6 luglio 2017 alle 11:46
Un (due) libro/i esperimento intorno alla verità e alla finzione con tutte le sfumature che si possono declinare.
Sto leggendo il primo, un poco perdendomici-salvo recuperati fili rossi conduttori a posteriori-, leggerò il secondo per amore di sinossi.
Una domanda però mi sorge: perchè tanto indagare intorno l’argomento?
Non attendo risposta, potrebbero essercene tante quanto i lettori oltre quella dell’autore.
Resta, al mio intendere, (limitatissimo in codeste tenzoni), che la verità del reale appartiene a tutti( anche se percepita soggettivamente), pur non appartenendo, nel senso di esperita sulla propria pelle in tutte le varie sfumature, a tutti.
E anche che sia possibile scrivere di fatti, non personali, presi solo come spunto, come se lo fossero; così come è possibile che fatti a noi lontanissimi ci facciano immedesimare in realtà ugualmente lontane dal nostro mondo scatenandoci svariate emozioni oltre che fantasie scrittorie.
In fondo tutti noi agiamo e siamo agiti sulla/dalla vita.
Ho sicuramente contribuito alla non chiarezza e chiedo venia, ma tempus fugit e le sinapsi van ingarbugliandosi.
p.s.
A quel caffè, nella moka, metta un cucchiaino in più di crema e gusto, si “esponga” poco poco alla variazione d’intensità, se ne gioveranno anche i due oro saiwa e questa è realtà, mica finzione. Cordialità.
6 luglio 2017 alle 12:22
bella la foto, proprio borgesiana… 🙂
6 luglio 2017 alle 15:39
Non esageriamo, Rossana.
6 luglio 2017 alle 15:40
Paola: è importante per un lettore non ingenuo. Quindi per molti lettori.
6 luglio 2017 alle 17:16
Problema che è stato risolto tempo fa: un’opera d’arte è “vera” non quando tratta di cose realmente accadute da qualche parte, ma quando è riuscita artisticamente, anche se tratta dell’ippogrifo.
6 luglio 2017 alle 17:39
Il problema posto è un altro, Benedetto.
(E ciò che tu dici, che tenta di risolvere un altro problema, non lo risolve: anzi, lo rende irrisolvibile).
6 luglio 2017 alle 18:39
Mi riferivo in particolare a questo problema:
quando leggiamo una storia (o la guardiamo al cinema) e proviamo sentimenti veri, e magari forti (al punto da scoppiare a ridere o a piangere, o da sentirci innamorati o patriottici, o da andare a letto poi con le orecchie tese a tutti gli scricchiolii notturni della casa), in che modo questi sentimenti sono veri, visto che sono stati suscitati da narrazioni che sappiamo essere inventate?
Che è irrisolvibile se si assimila il vero “estetico” al vero ontologico. Ma l’idea di giocarci sopra (nel senso latino di “ludere”) è buona: leggerò il libro.
6 luglio 2017 alle 21:00
Ma, appunto, né l’articolo né il libro pongono questioni attorno al “vero” estetico (intendendo per “Estetica” il “settore della filosofia che si occupa della conoscenza del bello naturale o artistico”).
E il libro non è sul “ludere” ma sull’ “illudere”, cioè sul “tirare dentro a un gioco”.
7 luglio 2017 alle 08:51
E’ un fatto eccellente che un articolo o un libro stimolino riflessioni anche al di là di quelle che fossero strettamente parlando le intenzioni dell’autore. Però è un “illudere” anche sostenere che questo articolo non tratti fra le altre cose della verità di un’opera d’arte: e il mio era un suggerimento di un possibile sviluppo.
7 luglio 2017 alle 09:55
Escludo. Terza volta che lo dico.
7 luglio 2017 alle 13:07
Sulla base della sola narrazione non è possibile dire che una storia è vera, ma questo non solo per la letteratura. E questo però io pensavo fosse un problema per vita reale, non per la letteratura, o per un autore. Infatti mi ha sempre incuriosito il perché tu insisti tanto sulla consapevolezza del lettore, ma pure DFW. Te lo scrissi già, penso che l’esperienza con i tuoi scritti sia stata la prima che mi ha destabilizzato in questo senso, ovvero del credere a quanto leggo, perché prima avevo solo letto opere di finzione palese (sebbene uno potesse leggerci tra le righe qualche contatto autobiografico con l’autore) oppure di non finzione. Ed è destabilizzante perché ci si può affezionare a personaggi di finzione come se fossero veri, ma affezionarsi a un personaggio che si crede vero, per poi scoprire che non esiste, è diverso. Un elemento per decidere della verità delle storie è la fiducia che si accorda a chi le racconta, ed è destabilizzante avere continuamente questa fiducia messa alla prova. Come anche è destabilizzante mettere alla prova ogni volta se quello che stiamo vivendo è vero o no, penso che sarebbe un inferno. Non capisco il senso della domanda originaria. Certo è interessante capire cosa vuol dire credere in qualcosa. Credere in Dio cosa vuol dire? Avere forse un’immaginazione molto potente e duratura nel tempo intorno all’oggetto. L’immaginazione, l’elemento simbolico hanno effetti veri, concreti, sul nostro corpo. Penso sia questa la differenza. Una storia inventata produce effetti reali, pur non essendo reali i fatti che racconta.
7 luglio 2017 alle 13:52
E non ti pare stupefacente, Stefano, che oggetti non reali abbiano effetti sulla realtà? A me – non pretendo ad altri – constatarlo non basta. Vorrei sapere come funziona. Fisiologicamente, la faccenda dei neuroni specchio – per quanto mica facile da capire, per me – sta spiegando qualcosa. Osservare un bambino che apprende il linguaggio (per citare un’esperienza comunissima) e nel contempo apprende le basi della cultura (in senso antropologico), può dare delle suggestioni.
Ma io mi rigiro in domande del tipo: posto che sugli oggetti reali solo oggetti reali influiscono (posizione assai diffusa), se certi oggetti influiscono su oggetti reali, vorrà dire che in qualche modo sono reali. Ecco, io vorrei sapere in che modo sono reali. Non mi interessa trovare una verità (non sono un filosofo). Me ne basterebbero cinque o sei, magari incompatibili.
7 luglio 2017 alle 15:10
Ti risparmio il tuo quarto intervento. Ti ringrazio anzi perché hai risposto alla mia vera domanda: “E’ davvero Giulio Mozzi un esperto/maestro di letteratura?”.
7 luglio 2017 alle 15:43
Sì, anche se forse sono un po’ apatico. Però mi sono interessato anch’io in questi anni alle neuroscienze. Il libro di Kahneman sui bias ha degli episodi incredibili, nel senso proprio di aver difficoltà a crederci, sui condizionamenti mentali inconsci. E in più mi interrogo sulla fusione tra evoluzione e cultura.
In Anelli nell’io Hofstadter ne parla più o meno riferendosi alle note di uno spartito di Chopin che hanno trasmesso le sue emozioni nel tempo, e alla madre che guardava una foto del padre morto chiedendosi che senso avesse più. Attraverso oggetti reali che agiscono come messaggeri. Ombre
7 luglio 2017 alle 18:08
Faccio un po’ fatica a capire cosa potrebbe essere un oggetto non reale, mentre non ho problemi a considerare del tutto reali un racconto, un romanzo, un poema e i relativi personaggi. Mi sembrano pezzi del mondo proprio come il codice penale, la borsa della spesa e mia cugina, diversi tra loro ma tutti parte della realtà.
Pierre Menard o Oliver Twist sono reali assai più di Borges o Dickens, per esempio, che infatti a un certo punto cessarono di avere rapporti diretti con la realtà. Pierre Menard e Oliver Twist influiscono ancora oggi su altri oggetti reali: io, mia cugina, migliaia di liceali argentini e britannici, ecc.
8 luglio 2017 alle 12:49
sto leggendolo, e posso dire in tutta modestia che Mozzi scrive da dio.
9 luglio 2017 alle 08:04
Rossana, non esageriamo.
Lettore, io posso prestare a mio cugino Oliver Twist, romanzo, mentre non posso prestargli Oliver Twist, personaggio. Di entrambi però gli posso parlare.
Se entrambi sono reali, mi pare evidente che sono reali in modo diverso (lo dici anche tu). Quindi la domanda è: in che modo sono reali? Sono reali, per esempio, in quanto se ne può parlare? Questo basta a definire il loro tipo di realtà?
Stefano: la fotografia di una persona cara è indubbiamente reale (posso prestarla, anche se non ne ho tanta voglia); il suo ricordo nella mia mente è reale in un altro modo, suppongo, visto che la fotografia può sopravvivere alla mia morte ma il ricordo che nella mia mente no. Posso scrivere questo ricordo, producendo un oggetto prestabile (un testo), ma questo oggetto è un altro oggetto rispetto al ricordo che è nella mia mente. Un futuro lettore potrà leggere questo mio ricordo senza sapere se la persona di cui il testo parla è stata reale o no, eccetera.
Tutte cose che mi interessano, va detto, come produttore di testi molto più che come lettore.
9 luglio 2017 alle 10:04
Mi permetto una osservazione da persona che forse (anzi sicuramente)non ha capito.
Come lettrice ritengo che il creatore di una storia ,di un personaggio,possa costruire attingendo al suo vissuto oppure alla sua vivida immaginazione che è sempre comunque condizionata dal suo vissuto e dalla sua psiche.La creazione quindi è realtà,sempre però con questi limiti personali di interpretazione della realtà(anche quando il personaggio è esistito in carne ed ossa) che sono a mio parere inevitabili anche nella più caparbia intenzione di sfuggirgli.
Io come lettrice attingo al mio vissuto e posso sentire la creazione o come se fosse la realtà,una realtà magari eccezionale,mai conosciuta ma pienamente convincente da cui mi faccio trasportare, perchè i parametri di conoscenza del reale dello scrittore coincidono con i miei oppure la rifiuto anche se si tratta della narrazione più reale che ci sia.La rifiuto perchè la sento un artifizio anche se non lo è affatto.
Mi sembra che in letteratura la realtà abbia questi limiti,in parole molto ,molto povere.
9 luglio 2017 alle 13:46
Ho capito. Circa le domande, credo che una differenza sostanziale sia anzitutto che la realtà è fatta di oggetti indipendenti dalla sfera umana, che esistono di per sé. Mentre gli oggetti di cui parliamo noi, personaggi e concetti, esistono attraverso altri oggetti, le reazioni elettrochimiche del nostro cervello. Quindi i primi sono reali a prescindere, in quanto hanno una proprietà chimica. I secondi si manifestano solo quando se ne parla o li si pensa. E rovescerei una delle proprietà in: appartengono al dominio della realtà, dunque se ne può parlare. Ma appartengono al dominio della realtà, o dell’esistente in maniera differente: gli uni reali, gli altri immaginari. La letteratura (e le droghe) è in grado di confonderci i piani, perché tutto ciò per noi è mediato dai pensieri, e a livello mentali gli oggetti reali e quelli immaginari pari sono. Ma i piani rimangono separati.
9 luglio 2017 alle 18:37
Qualcuno ha detto che non sono tanto importanti le risposte, quanto le domande corrette. Io mi scervello su questa questione da anni (non per capire come far funzionare una finzione super realistica in una narrazione, ma perché ci litigo con l’istinto: ho sempre pensato che la razionalità, la capacità di ragionamento fosse una delle funzioni, capacità più abili a mentire, è sempre stato per me uno degli strumenti più bugiardi di cui il nostro cervello è stato fornito; forse mi sbaglio).
Dunque, che cosa è vero, reale e che cosa non lo è? Aggiungo: come distinguere le bugie dalle verità?, gli incontri reali rispetto a eventi solo vissuti in sogno?
In un commento, Giulio, dici: “Quindi la domanda è: in che modo sono reali?” che è un po’ come dire: In che modo una finzione può essere presa per realtà? Chiedi poi se basta parlarne per “farli diventare veri”. Secondo me no. Secondo me tutto dipende dall’esperienza emotiva che se ne può fare. Nel momento in cui il mio corpo reagisce in un qualche modo a un dato oggetto o racconto, il rischio che questo diventi vero, reale si moltiplica. Lo penso da un po’. Sogno molto. E ho notato spesso che più il mio corpo reagisce emotivamente all’esperienza (anche la più folle e inverosimile) che il sogno mi propone, più al risveglio questa esperienza viene ricordata da me come realtà. Un racconto che riesce a generare stati emotivi reali, rischia di venir creduto – così penso io – maggiormente. O forse è il contrario: più appare come reale, e più suscita emozioni.
Anche i neuroni a specchio funzionano meglio o comunque anche quando gli stati emotivi vengono sollecitati maggiormente. Anzi, addirittura, cito “le emozioni degli altri non vengono capite “cognitivamente” ma sentite “direttamente” come fossero proprie. Io aggiungo come fossero “reali”. Cito ancora dal libro “In te mi specchio”: “ci immedesimiamo nelle emozioni espresse dagli altri”. Per me dunque: si percepisce come vero qualcosa che ci emoziona. Potrebbe essere?
Faccio un’aggiunta. C’è un telefilm che mi piace in quanto parla di neuroscienza (era così bello che ne hanno purtroppo sospesa la produzione alla fine della prima serie). Il titolo è Perception. Non ho controllato ancora se è tutto scientificamente vero, lo ammetto. Però mi trascrissi questa conclusione che parla “dell’opposto”, ma anche no. La domanda che si pone questa puntata è “Quale può essere il motivo che spinge ad essere restii nell’accettare la verità?” (Io ci leggo: quale può essere il motivo per cui si vuole credere a una menzogna, come fosse vera? Traslando: che cosa ci fa credere che sia reale una finzione?). Questo il testo da me trascritto che mi pare abbia un suo senso (se scientificamente registri e sceneggiatori ne hanno verificate le fondamenta, cosa che cercherò di fare prossimamente io): “Non c’è niente di peggio di un bugiardo. Tutti la pensiamo così, no? Ma perché un tale atteggiamento nei confronti di qualcuno che cerca di ingannarci? Le bugie ci disgustano. Letteralmente. L’incredulità viene processata dalla corteccia cingolata del sistema limbico e dall’insula anteriore. Le stesse aree del cervello che elaborano sensazioni viscerali come il dolore e il disgusto. E questo spiega perché odiamo i bugiardi, ma anche perché gli esseri umani desiderino con forza credere in qualcosa; che si tratti di Babbo Natale o di un fatto scientifico come la gravità, il cervello ci ricompensa emotivamente quando crediamo, credere ci fa sentire bene, confortati”. In pratica parla di “tangenti emotive”…
E io mi rendo conto che in certi casi sono molto corruttibile.
9 luglio 2017 alle 18:41
Qualcuno ha detto che non sono tanto importanti le risposte, quanto le domande corrette. Io mi scervello su questa questione da anni (non per capire come far funzionare una finzione super realistica in una narrazione, ma perché ci litigo con l’istinto: ho sempre pensato che la razionalità, la capacità di ragionamento fosse una delle funzioni, capacità più abili a mentire, è sempre stato per me uno degli strumenti più bugiardi di cui il nostro cervello è stato fornito; forse mi sbaglio).
Dunque, che cosa è vero, reale e che cosa non lo è? Aggiungo: come distinguere le bugie dalle verità?, gli incontri reali rispetto a eventi solo vissuti in sogno?
In un commento, Giulio, dici: “Quindi la domanda è: in che modo sono reali?” che è un po’ come dire: In che modo una finzione può essere presa per realtà? Chiedi poi se basta parlarne per “farli diventare veri”. Secondo me no. Secondo me tutto dipende dall’esperienza emotiva che se ne può fare. Nel momento in cui il mio corpo reagisce in un qualche modo a un dato oggetto o racconto, il rischio che questo diventi vero, reale si moltiplica. Lo penso da un po’. Sogno molto. E ho notato spesso che più il mio corpo reagisce emotivamente all’esperienza (anche la più folle e inverosimile) che il sogno mi propone, più al risveglio questa esperienza viene ricordata da me come realtà. Un racconto che riesce a generare stati emotivi reali, rischia di venir creduto – così penso io – maggiormente. O forse è il contrario: più appare come reale, e più suscita emozioni.
Anche i neuroni a specchio funzionano meglio o comunque anche quando gli stati emotivi vengono sollecitati maggiormente. Anzi, addirittura, cito “le emozioni degli altri non vengono capite “cognitivamente” ma sentite “direttamente” come fossero proprie. Io aggiungo come fossero “reali”. Cito ancora dal libro “In te mi specchio”: “ci immedesimiamo nelle emozioni espresse dagli altri”. Per me dunque: si percepisce come vero qualcosa che ci emoziona. Potrebbe essere?
Faccio un’aggiunta. C’è un telefilm che mi piace in quanto parla di neuroscienza (era così bello che ne hanno purtroppo sospesa la produzione alla fine della prima serie). Il titolo è Perception. Non ho controllato ancora se è tutto scientificamente vero, lo ammetto. Però mi trascrissi questa conclusione che parla “dell’opposto”, ma anche no. La domanda che si pone questa puntata è “Quale può essere il motivo che spinge ad essere restii nell’accettare la verità?” (Io ci leggo: quale può essere il motivo per cui si vuole credere a una menzogna, come fosse vera? Traslando: che cosa ci fa credere che sia reale una finzione?). Questo il testo da me trascritto che mi pare abbia un suo senso (se scientificamente registri e sceneggiatori ne hanno verificate le fondamenta, cosa che cercherò di fare prossimamente io): “Non c’è niente di peggio di un bugiardo. Tutti la pensiamo così, no? Ma perché un tale atteggiamento nei confronti di qualcuno che cerca di ingannarci? Le bugie ci disgustano. Letteralmente. L’incredulità viene processata dalla corteccia cingolata del sistema limbico e dall’insula anteriore. Le stesse aree del cervello che elaborano sensazioni viscerali come il dolore e il disgusto. E questo spiega perché odiamo i bugiardi, ma anche perché gli esseri umani desiderino con forza credere in qualcosa; che si tratti di Babbo Natale o di un fatto scientifico come la gravità, il cervello ci ricompensa emotivamente quando crediamo, credere ci fa sentire bene, confortati”. In pratica parla di “tangenti emotive”…
E io mi rendo conto che in certi casi sono molto corruttibile.
10 luglio 2017 alle 01:41
Sì, Giulio, avevo colto la domanda “in che modo [gli oggetti letterari], sono reali”, ma ho glissato e glisso perché è una domanda così complessa che non basterebbe compulsare l’intera tradizione filosofica e scientifica per tentare anche solo di abbozzare una risposta. Trovavo solo fuorviante l’altra domanda che mi sembrava aleggiare nei commenti: cosa è reale e cosa non lo è. Sono convinto che tutto ciò di cui è possibile parlare è reale, sogni e finzioni inclusi (e pure i numi e gli dei). Un oggetto “non reale” non riesco nemmeno a immaginarlo. Svicolo parafrasando Tolstoj: tutti gli oggetti non reali si assomigliano, ogni oggetto reale è reale a modo suo.
10 luglio 2017 alle 10:53
Ho letto tutti i commenti e le risposte con grande interesse. Sto leggendo Fiction 2.0.
Concordo pienamente con Ma.Ma quando scrive che “gli esseri umani desiderano credere in qualcosa”. Ed anche sulla questione delle “emozioni” che vengono suscitate (il discorso verte anche sui sogni, mi pare).
E la domanda che Lettore Occasionale ri-propone in ultimo risulta davvero una sfida… desidero quindi provare ad aggiungere a quanto detto una riflessione, visto che mi son sempre interessata – con un taglio di indagine sperimentale – ai meccanismi di fondo delle strutture narrative, alla ricezione delle stesse, fino ad arrivare alla questione del “vero” letterario – definiamolo ancora così, senza troppe implicazioni estetiche e filosofiche, se non le strette necessarie.
Forse è per noi “vero” ciò che, leggendo, possiamo esperire.
Possiamo arrivare a piangere per un personaggio che muore perché, oltre ad avvertire quella che noi pensiamo essere la sincerità del narratore, ovvero l’onestà nel dir bugie, se c’è questa onestà (cioè, brevemente, ma su questo si potrebbe aprire un’altra lunga discussione, un qualcosa che nasca da un desiderio di comunicare lecito, onesto e sincero) noi sentiamo che quella morte porrebbe accadere, che forse è già accaduta, persino…
Dico appunto “esperire”, ovvero sperimentare, perché credo che molto di questa straordinaria dinamica finzionale dei testi narrativi dipenda dal rapporto autore/lettore – che si ricrea ad ogni lettura – e da questa esperienza di vita simulata che scaturisce – sempre – dai testi letterari.
Noi, leggendo, facciamo in qualche modo delle “esperienze” di cui prima o poi faremo esperienza vera, certamente in modi molto molto diversi. Possiamo sorridere o piangere, sapendo che si tratta di un testo, perché esperiamo ciò che poi , vivendo – forse proprio domani o fra un attimo, cha sia ridere oppure piangere, che sia gioire oppure soffrire – potremmo vivere. Ciò che leggiamo diventa “vero” per noi, soggettivamente. E ciò che, come soggetti, noi proviamo, è in qualche misura, sempre, vero ed assai tangibile.
Poiché quindi la nostra conoscenza del mondo avviene in larga parte attraverso l’esperienza, sarà attraverso l’esperienza individuale che noi, piano piano arriveremo anche a conoscere “noi stessi”, specchiandoci appunto nelle sensazioni esperite da altri, che ce le avranno raccontate. Tutto il grande lunghissimo filo della narrazione ha questa matrice originaria, anche per introiettare – in origine – le regole sociali (le opere epiche, in parte, assolvevano a questa funzione). Pensiamo alle fiabe.
Visto che si tratta di Fiction 2.0, aggiungerei infine…
Chi, come Giulio Mozzi, ti fa vedere il gioco narrativo, te lo fa comprendere, te lo fa “esperire” – con le note a conclusione di racconti – nella tensione tra narrazione e cronaca, plasmando narratori diversi, facendoti avvertire, nello specchio narrativo, il filo della tua stessa adesione emotiva, che s’addipana, arriva davvero alla verità, poiché ti spinge, sfidandoti quasi, a distinguere la verità narrata in modo sincero, che svela il cuore magmatico della sua finzione, da quella un po’ infingarda, di una certa produzione letteraria che ( di nuovo brevemente: ma anche qui ci vorrebbe un più ampio discorso ) definirei “usa e getta”, che ti fa provare sì emozioni, ma “a poco prezzo”, senza una vera adesione del soggetto che scrive a quanto produce, senza – diciamo – l’onestà della bugia. L’onestà del mentire è molto importante.
10 luglio 2017 alle 11:22
Giulio,
il rapporto tra realtà e finzione interessa molto anche a me, e in particolare ragiono da tempo su similitudini e differenze, da questo punto di vista, tra letteratura e fotografia (la fotografia era fino a poco tempo fa considerata vera e propria impronta della realtà, ma mi pare che oggi la sua verità inizi a essere percepita non troppo diversamente da quella di un testo).
Tornando alla letteratura, mi piacerebbe sapere cosa pensi degli “esperimenti” che stanno conducendo su questo tema i Wu Ming, ad esempio sul racconto intitolato “Quarto” ne “L’invisibile ovunque”, scritto in modo da essere totalmente credibile (come se fosse, per capirci, un out-take di “Cent’anni a Nord-Est”, il saggio di Wu Ming 1 sulla prima guerra mondiale), e invece totalmente inventato.
10 luglio 2017 alle 14:59
Discussione interessante. Mi chiedo se non sia necessario andare ancora più a monte e chiedersi allora: “che cos’è la realtà?”
12 luglio 2017 alle 11:12
Stiamo camminando in un bosco. Improvvisamente, scorgiamo sul sentiero, messo di traverso, un *qualcosa* dalla forma allungata. Ci fermiamo. A questo punto, il nostro cervello processa l’informazione visiva (sentiero – qualcosa – forma allungata) e rapidissimamente fa delle ipotesi: bastone, ramo, pezzo di stoffa, tubo di gomma, pezzo di camera d’aria di bicicletta, serpente morto, serpente vivo. Posto che la tolleranza al rischio – e l’abitudine a camminare nei boschi – è diversa per ognuno di noi, è assai probabile che il nostro cervello – e più precisamente l’amigdala – propenderà per l’ipotesi “serpente vivo”, e ci costringerà all’arretramento e poi alla fuga. Il motivo è facilmente intuibile, e ha a che fare con la nostra sopravvivenza: fraintendere un innocuo ramo secco per un serpente vivo, può costarci al massimo una corsa a vuoto. Fraintendere invece un serpente vivo per un ramo secco, può anche portarci al Creatore. A prescindere dal dato effettivamente reale – serpente o ramo – la realtà alla quale finiamo per credere è quella che meglio si accorda con le nostre possibilità di sopravvivenza (possibilità fattuali o anche solo supposte). Da tempo ho il sospetto che la stessa cosa avvenga, nel nostro cervello, anche quando abbiamo a che fare con le narrazioni: ci appaiono credibili quelle finzioni che – praticamente o emotivamente – hanno una funzione “salvifica”, ossia determinante per la nostra sopravvivenza. E dunque: in che modo sono reali i sentimenti suscitati da una narrazione finzionale? Nel modo in cui, credo, agiscono come “agenti salvifici” nella nostra vita: e questo spiega perché, pur conoscendone i “trucchi”, continuiamo nutrirci di finzioni e perché la letteratura travalica – secondo me, anche quando non si presenta come fortemente intellettualizzata o colta – il semplice escapismo. (sono, chiaramente, semplici ipotesi sulle quali continuo anch’io a ragionare)
12 luglio 2017 alle 14:31
Valentina (ma anche Teresa), nel mio post faccio questa associazione: mi emoziona = è reale. Circa. Dopo averlo scritto mi sono però detta che “dipende dall’emozione”. Teresa ha provato a sondare un poco questa cosa aggiungendo il termine “vera”, tu, Valentina, il termine “salvifico”. A me piace l’idea di esplorare questo “campo”, eppure sia nel caso di “vero” sia nel caso di “salvifico” non mi identifico. Nel senso che non mi sembra sufficiente. Io arrivo a credere anche laddove non vi sia una promessa di salvezza (e non mi riferisco all’happy ending, sia chiaro, ho idea delle azioni salvifiche che possono essere anche passaggi molto traumatici) e credo anche dove vi sia una reale contraddizione con ciò che normalmente potrei considerare vero. Ci sono però cose che mi emozionano ma non mi portano a crederle reali, ed è forse quando l’emozione è palesemente “forzata”, forse. Secondo me. (E quando porto la mia persona come esempio lo faccio solo per comodità e perché gli assunti generici mi sembrano sempre un po’ presuntuosi, a vote riesco a entrare in quella modalità, ma non sempre: sorry).
12 luglio 2017 alle 21:40
Sì, Ma.Ma. hai ragione. Infatti il mio era un semplice spunto di riflessione, non intendevo restringere la letteratura alla sua dimensione “soteriologica”. Direi così: il cervello umano è in grado di sostenere due tipi di verità: le verità di ragione e le verità di fede. Le seconde possono pervenire a conclusioni che contraddicono le prime (e viceversa), ma questo non significa che siano meno vere. La famosa “sospensione di incredulità” che si produce leggendo un testo narrativo non ha forse a che fare con la verità di fede? E quand’è dunque che una realtà finzionale diventa vera? Forse quando da credibile diventa, da qualcuno, creduta. Ma qui scivolo nei sofismi e resta anche questa una visione parziale.
12 luglio 2017 alle 22:41
Sai che mi intriga tantissimo ’sto discorso? Mi sa però che si farebbe molto lungo.
Il concetto di narrazione o letteratura salvifica o soteriologica, come preferisci, non credo si dia sempre (io la sento poco questa cosa, però “credo” molto). E non per fede, ma proprio per convinzione! Credo come capiti ai bambini: ecco, loro sono incredibili nella grande capacità che hanno di credere a realtà non “vere”. Da piccola si faceva spesso un gioco, credo lo abbiano fatto tutti e forse lo si fa ancora oggi. Uno mette la mano sulla propria bocca nascondendola tutta, poi si gira al contrario rispetto all’altro che lo guarda. Ebbene non c’è stata una sola volta che pur sapendo assolutamente chi fosse a coprirsi la bocca, io non mi fossi convinta (terrorizzandomi da sola) di trovarmi davanti a un’altra persona (dove le sopracciglia si fanno baffi e la mano una testa calva). E credimi senza “sospensione di incredulità”. Ovvero nelle mie intenzioni c’è sempre stata la ferma volontà di non cascarci. Cresciuta mi sono poi ritrovata a rifare questo gioco con dei bambini. Certissima che non mi avrebbe più fatto quell’effetto mi sono messa in gioco anche nel fare quella che fissava l’altro, il bambino: oh! Roba da non credere ma ci casco ancora oggi. Mi dà emozione? Sì, mi viene una fottuta paura di stare a fissare uno sconosciuto… forse. Subire un inganno smascherato sin dall’inizio a me fa un’impressione pazzesca. E continuo a ragionarci su queste cose. Certo, diventa vera per chi ci crede, ma solo per questa persona, non per le altre. Il discorso di poter controllare questo meccanismo per applicarlo alla letteratura mi pare un bel mezzo per ragionarci senza cadere in discorsi astratti e filosofeggianti. Penso anche ai mentalisti che loro si giocano tutto sulla “credulità” dei loro spettatori. E poi rimbalzo però all’esatto opposto: quanta realtà c’è in quello che facciamo o assistiamo quotidianamente? Quanti fingono, recitano una parte, si immedesimano in ruoli altri e quanta gente crede comunque in loro?, senza dover andare molto distanti. Io so che nella cosiddetta “realtà” credo molto meno, anzi mi pare di riuscire a smascherare quasi tutti quelli che incontro o di cui faccio conoscenza: sono diffidente. Mentre nella finzione narrativa scritta come la scrive Giulio stento a non credere. Lo trovo difficilissimo, a volte impossibile.
13 luglio 2017 alle 11:14
Ma.Ma. Il gioco della bocca coperta è molto carino! 🙂
Sull’argomento ragiono moltissimo anch’io. Parto dalla tua domanda: “Quanta realtà c’è in quello che facciamo o assistiamo quotidianamente?”, dunque sul rapporto tra finzione e realtà.
L’essere umano, per vivere in un mondo dotato di senso (la mancanza di senso porterebbe alla disperazione e alla pazzia) ha bisogno di ordinare la realtà secondo rapporti di causa-effetto: se faccio questo, ottengo quest’altro, se succede questo, poi succederà quest’altro. Questa consequenzialità, benché noi la percepiamo come reale, dunque intrinseca alla realtà, è spesso fittizia, ossia: una forzatura prodotta dal nostro desiderio. Ci sono diversi esperimenti di psicologia cognitiva a riguardo. Del tipo: viene prodotto un rumore, da qualche parte; si apre la portiera di un’auto, da tutt’altra parte; se la sequenza si ripete, casualmente, un certo numero di volte, il cervello umano è portato a creare una connessione: è il rumore (nei fatti del tutto estraneo) che fa aprire la portiera dell’auto. Credo che la realtà da noi percepita nelle narrazioni sia proprio figlia di questo desiderio: riscontrare quel rapporto causa-effetto che diamo scontato esserci (perché è vitale per il nostro bisogno di senso, dunque per la nostra sopravvivenza) nel mondo che ci circonda. Le narrazioni in effetti (quelle buone, quelle che ci appaiono come molto credibili e alle quali finiamo per credere) si costruiscono su questo: su rapporti perfettamente oliati fra causa ed effetto. E quando si ottiene questo nella produzione di un testo (perché anche a me, come a te, questo preme)? Forse quando la tecnica viene padroneggiata al punto tale da farla scomparire, scivolare sullo sfondo, e il gesto (la narrazione, ma penso anche ai ballerini, dei quali non vedi la fatica, pur sapendo che c’è) si presenta in tutta la sua naturalezza. Ma è una naturalezza “fasulla”, figlia, appunto, dell’artificio. Mi viene in mente una frase detta da Pontiggia, in una delle sue lezioni: “Nella nostra vita quotidiana noi diciamo un mucchio di frasi maldestre o inutili o infelici. Ma il narratore non può permettersi questo lusso. Ogni sua battuta di dialogo deve essere studiata, funzionale e felice (nel senso di: indovinata)”. Questo, secondo me (la naturalezza che deriva da una perfetta manipolazione dell’artificio o, in termini tecnici, dell’arte retorica), è difficilissimo: c’è chi pecca di ingenuità, chi esibisce fatica e strumenti (e allora risulta pesante o pretenzioso o fastidioso), chi riesce fino a un certo punto, ma poi la narrazione di slabbra. La capacità di Giulio – così come i risultati che ottiene – sono fuori dal comune (nel senso che: è poco comune trovare chi riesca a eguagliarli).
13 luglio 2017 alle 13:00
L’esistenza non è una proprietà, diceva Kant, e l’esistenza non è un predicato, diceva Bertrand Russell. Se ben comprendo, per i filosofi analitici Pierre Menard esiste, ma esiste come personaggio creato da Borges non come persona fisica: quella che tu Giulio chiami ellissi loro la chiamano interpretazione. Non si tratta cioè di una trasformazione, per quanto implicita, di un costrutto linguistico in un altro, ma di una corrispondenza tra gli elementi di una frase e le informazioni che fanno parte del bagaglio di conoscenze degli interlocutori. L’esistenza rappresenta la possibilità di stabilire questo riferimento e la non-esistenza l’impossibilità di stabilire questo riferimento (reference failure, mi sembra la chiamasse Russell).
Consideriamo due frasi:
1. Giulio Mozzi vive in via Giuseppe Comino 16/b a Padova.
2. Sherlock Holmes vive al 221B di Baker Street, a Londra.
Tu Giulio mi chiedi: è vera l’affermazione numero 1? A quanto ne so io, tu sei una persona in carne ed ossa, e dalla tua pagina dei contatti so qual è il tuo indirizzo. In altre parole, nel mio bagaglio di conoscenze Giulio Mozzi identifica una persona, e quindi Giulio Mozzi esiste come persona, e Giuseppe Comino 16/b a Padova identifica un luogo fisico, e perciò esiste come luogo fisico, e queste due entità sono in una relazione (A abita in B). Posso quindi rispondere che la affermazione numero 1 è effettivamente vera.
Supponiamo ora che io venga a conoscenza che tu sei invece l’espressione di un collettivo di persone (una parla in pubblico, una legge per Marsilio, una scrive su Vibrisse). Ora Giulio Mozzi continua ad esistere, ma non più come persona ma come un gruppo di persone che lavorano insieme. Mi sa però che l’affermazione numero 1 non sia poi vera.
Tu mi chiedi ora: è vera l’affermazione numero 2? Certo: Ho visto la serie TV “Sherlock” con Benedict Cumberbatch, quindi per me Sherlock Holmes esiste come personaggio di filmati, ed in questi egli vive a Londra, in 221B Baker Street. Quindi sì, sono disposta ad accettare la verità della affermazione numero 2, anche se non sono disposta ad accettare che Sherlock Holmes indichi una persona fisica o che 221B Baker Street indichi un luogo fisico.
Verità, esistenza, e realtà sono tre concetti ben distinti.
Le informazioni che costituiscono il nostro bagaglio di conoscenze e le emozioni che fanno parte del nostro stato d’animo sono espressioni della realtà elettrochimica del nostro cervello, anche se ancora sappiamo molto poco su come questa relazione funzioni. Non mi sembra perciò così strano piangere lacrime reali per vicende che reali non sono, perché e reale il medium con cui riceviamo le informazioni su queste vicende, e reale è la configurazione elettrochimica del nostro cervello corrispondente allo stato d’animo che risulta dalla digestione di queste informazioni.
O ho capito male?
13 luglio 2017 alle 14:48
Alex: “Quarto” mi sembra semplicemente un racconto di finzione. Con tutta una costruzione narrativa che ne denuncia – appunto – la natura finzionale.
13 luglio 2017 alle 14:50
P. O.: hai capito tutto. Ma a me sembra che ci siano due questioni diverse. Una relativa all’ “essere vero per finta” (vedi l’indirizzo di Sherlock Holmes), che non mi sembra porre tantissimi problemi (o comunque sono già stati risolti). L’altra è quella delle reazioni emotive e delle eventuali convinzioni che ne derivano (e qui non è questione di vero o no, ma di reale). Proverò a spiegarmi di più un’altra volta.
17 luglio 2017 alle 07:53
Pensieri Oziosi: “Verità, esistenza, e realtà sono tre concetti ben distinti”. Ecco, questo rende molto più chiaro il campo della discussione.
La realtà, mi sembra, è il grado zero del linguaggio: è reale ciò che può essere detto (ovvero ciò che ha un significato condiviso da una comunità di parlanti). Verità ed esistenza richiedono invece un percorso interpretativo, logico nel caso della verità e ontologico (o metafisico) nel caso dell’esistenza. Se posso dire “L’ircocervo esiste”, l’ircocervo è reale per il solo fatto che se ne può parlare. Il solo enunciato, invece, non è sufficiente né per stabilire se la frase “L’ircocervo esiste” è vera, né per stabilire se l’ircocervo effettivamente esiste.
Tutto questo non risponde alla domanda “in che modo è reale l’ircocervo”, ma credo che renda più chiara la domanda.
18 luglio 2017 alle 12:02
C’è sempre un certo livello di arbitrarietà quando si cerca di disambiguare termini che nel linguaggio comune hanno una sovrapposizione di significato, non necessariamente esatta, ma comunque significante: se fossimo i primi a porci questi interrogativi, potremmo tranquillamente definire reale come lo intendi tu.
Non ci muoviamo però nel vuoto, ma nel contesto di una tradizione filosofica di 2’500 anni e, all’interno di questo contesto, reale e realtà hanno assunto vari significati nel corso del tempo, nessuno dei quali però è riconciliabile con la tua definizione. Fondamentalmente, oggi si intende come realtà l’oggetto dell’indagine sensoriale o equivalente, a prescindere dalla fattibilità e fallibilità di tale indagine o che cosa voglia dire un’indagine “equivalente” a quella sensoriale. Alcuni filosofi, indicano come realtà il frutto di questa indagine, e quindi la nostra conoscenza della realtà nella prima accezione, ma io, personalmente, eviterei questa confusione.
Un ente (e non un termine) è perciò reale, se ha un riscontro nella realtà. Naturalmente, la nostra capacità di giudicare se un ente è reale o no dipende dal nostro bagaglio di conoscenze.
No, per quanto detto qui sopra.
31 luglio 2017 alle 08:09
[…] del bollettino di letture e scritture vibrisse, consulente editoriale – racconta “Fiction 2.0″, il libro uscito nel 2001 per Einaudi con il titolo “Fiction” e oggi ripubblicato, […]
20 settembre 2017 alle 10:04
[…] a questo pezzo ne aggiungo un altro, scritto sempre da Giulio Mozzi e pubblicato in […]