di Giovanni Pacchiano
[Questo articolo è uscito in “Il fatto quotidiano” oggi 5 lugli9o 2017].
Nella produzione della narrativa italiana di oggi Veronica Tomassini risulta un’anomalia. Per il fatto che, mentre buona parte dei suoi colleghi si è buttata su gialli, thriller, horror e simili, inflazionando il mercato di robaccia e spingendoci a rileggere di corsa per l’ennesima volta a mo’ di antidoto l’immenso Ed McBain, lei persegue un suo ostinato petrarchismo di ritorno, tenace nel ricanto dell ‘ossessione d ‘amore, tema incorruttibile del genere umano. Ossessione che trascorre dall’asciuttezza cechoviana di Christiane deve morire (Gaffi, pp. 170, 13,50 euro) al turgore affannoso ed effusivo del Dostoevskji di Povera gente nel recente, bellissimo L’altro addio (Marsilio, pp. 206, 17 euro). Petrarchismo deviato perché rivolto verso un uomo collocato ai margini della società, etilista che dorme all’aperto, mendicante di strada. Un perdente segnato dal destino e infine rassegnato. Proprio perciò è petrarchismo mirabilmente originale, mescolato l’impulso amoroso al lamento di donna dolente che ha imparato «a covare il senso del lutto» e a compiacersene: presa, amata e poi abbandonata con un figlio ma tenacemente legata alla figura dell’amato.
Misiek (così lei lo chiama col vezzeggiativo, “orsacchiotto”), figlio di un veterocomunista «ubriaco e vinto», arriva dalla Polonia dove, uomo di vita e criminale a soli vent’anni («i soldi gli sfuggivano dalle mani»), è entrato in un giro di scassinatori professionisti ma si è deciso a lasciare il paese: con una vita fatta di colpi che gli fruttano quattrini e di contrabbando di merci comincia a tirare cattiva aria per lui. Arriva a Siracusa, in Sicilia, convinto che sia la terra del Padrino. È ancora «bello e crudele», ma fa presto a diventare un uomo di strada e un accattone. Incontra «l’italiana», «bianca, esile, chiara di occhi, non nera, magari avvolta da una mantella scura gettata sulle spalle curve e chiusa nell’indolenza e nel sospetto». È l’epoca del loro amore, si sposano, fanno un figlio, poi, dopo un breve tempo sereno, lui molla tutto e si ributta per strada. Sono passati dieci anni dal suo arrivo in Italia; torna per qualche mese in Polonia, affoga nell’alcol, ritorna a Siracusa per vivere ancora in strada, però lei caparbia non allenta i contatti. Lui trova lavoro in un albergo in Abruzzo ma eccolo di nuovo a bere.
Punta su Milano, come se la grande città potesse offrire possibilità diverse: incontra solo la miseria, dure notti nelle stazioni insieme ad altri relitti come lui, lunghe file alla mensa dei frati o alla Caritas. È una vita d ‘inferno; si ammala di tubercolosi, lo ricoverano a Sondalo, in sanatorio, tbc livello 10, dalla finestra i monti dello Stelvio gli fanno immaginare un’altra vita che forse non sarà mai la sua. Lo salvano per un pelo. Lei, pervicace, non lo abbandona, gli telefona, gli manda ogni settimana una ricarica, gli è vicina. Ah, l ‘amore.
La storia finisce qui, in sospensione. Ma è in sospensione tutto il romanzo, che mescola e confonde, creando suspense (e catartica angoscia) nel lettore, le diverse viae crucis della vita di Misiek: nella mente di lei che racconta il tempo si cancella, diventa eternità come l’amore infinito che la possiede. E ne esce alta poesia.
[Per chi volesse saperne di più, ecco la recensione di Giovanni Pacchiano al romanzo di Veronica Tomassini Sangue di cane, con il quale L’altro addio costituisce una sorta di dittico].
[E in vibrisse c’è anche il “racconto di formazione” di Veronica Tomassini].
5 luglio 2017 alle 11:31
da leggere, a quanto pare. Grazie, GM
5 luglio 2017 alle 15:09
Credo anch’io che il romanzo sia bellissimo per il gorgo di angosce e amore, sofferenze e amore, rispetto e amore in cui ti trascina.
Ma Petrarca non c’entra, il riferimento mi sembra del tutto fuorviante. C’entrano la compassione, nel senso etimologico della parola e uno stile che è un efficace guazzabuglio espressivo, come già in Sangue di cane.
5 luglio 2017 alle 15:14
Il riferimento a Petrarca lascia perplessa anche me.