di giuliomozzi
[Tra gli scartafacci relativi alla preparazione della prima edizione di Fiction – quella einaudiana, del 2001 – ho trovato questo pezzo incompiuto del quale m’ero completamente dimenticato. L’avessi trovato due settimane fa, magari potevo provare a infilarlo in Fiction 2.0, di prossima uscita – il 29 giugno – presso Laurana. Spero sia chiaro a tutti che questo pezzo è un pezzo appunto di fiction, e che colui che qui dice “io” ha ben poco che fare con il bipede implume noto all’anagrafe come Giulio Mozzi].
[E, dimenticavo: Venerdì 7 luglio alle ore 18, a Milano, presso lo Spazio Melampo in via Carlo Tenca 7, faremo non una presentazione ma una festicciola].
A volte ho il sospetto di essere l’ultimo democristiano rimasto sulla faccia della terra. Mi ricordo che già un tempo, quando la Democrazia cristiana esisteva, ed era anzi fiorente, e governava la mia città con la maggioranza quasi assoluta dei voti, trovare in città un democristiano – una persona che dichiarasse di essere democristiana – era quasi impossibile. Dentro la sede della Democrazia cristiana, lì, in piazza don Luigi Sturzo, dove, tanto per non sbagliarsi sulle identità, c’erano anche le sedi degli artigiani (Confartigianato) e dei commercianti (Confcommercio): be’, lì, teoricamente, era pieno di democristiani; ai quali ovviamente non ti veniva neanche da domandargli, per saperlo, se fossero democristiani o no; stavano lì, dentro la sede della Democrazia cristiana, facevano cose, si riunivano, percorrevano i corridoi, aprivano le porte, le chiudevano, telefonavano. Erano democristiani? Chi lo sa. Se vai in zona industriale, entri in un capannone, e vedi uno al tornio, mica gli domandi: scusi, lei lavora qui; lo dai per scontato. Così io lo davo per scontato, che dentro la sede della Democrazia cristiana, tutti fossero democristiani. A ripensarci oggi, forse avevo torto. Quasi tutti quelli che allora passavano di lì, oggi fanno ancora politica, a livello cittadino o provinciale o regionale, ma nessuno di loro è democristiano, e nemmeno exdemocristiano o postdemocristiano: si presentano come uomini nuovi, tecnici, esperti dell’amministrazione della cosa pubblica, ma da come ne parlano, non in specifico della Democrazia cristiana, che si guardano bene dal nominare, bensì della gestione della cosa pubblica degli anni trascorsi, di prima della rivoluzione elettorale televisiva, è come se con la Democrazia cristiana non ci avessero mai avuto che fare: come se a stento sapessero che era esistita. Pertanto, oggi non saprei dire, pur avendo frequentato il luogo, come intendo raccontare tra poco, se quelli che si aggiravano lì, in piazza don Luigi Sturzo, fossero veramente democristiani, oppure no. Forse erano socialdemocratici, che so, facevano il lavoro interinale alla Democrazia cristiana. Magari erano dei sabotatori. D’accordo. Non sono uno sciocco, ho un tot di cultura sociopolitica da autodidatta, più della media della mia generazione (sono nato nel 1960), ho letti tutti i libri di Ilvo Diamanti e quasi tutti quelli di Percy Allum, da piccolo (a 22 anni, cioè) insieme con sei amici avevo inventato un istituto di ricerche sociali, con un nome pomposissimo (Istituto di ricerche e interventi nel sociale; in sigla Iris: lo stesso nome d’una marca di piastrelle e d’una cantante lirica, come scoprimmo poi) ma sostanzialmente dopolavoristico (ci trovavamo la sera a casa dell’uno o dell’altro), con il quale facemmo un po’ di ricerche: sul voto giovanile, sul comportamento elettorale dei ragazzi dell’Azione cattolica, e così via (eravamo bravi: ci invitarono anche a un convegno della Società italiana di studi elettorali; Gianpiero si comprò per l’occasione un vestito nero gessato, che poi usò anche per il matrimonio). Lì, nei dati, i democristiani c’erano: i dati dicevano che sì, i democristiani c’erano. Ma c’erano statisticamente, come alle elezioni. Poi, faccia a faccia, a domandargli a ciascuno, sarai mica democristiano?, non so che cosa avrebbero risposto. Io, uno che mi dicesse: sì, sono democristiano, non l’ho mai incontrato. Nell’85, mi ricordo, feci una campagna elettorale. Lavoravo agli artigiani e avevamo un candidato per le europee: il nostro presidente, titolare di un’azienda di stampi, che non aveva mai fatto politica, sostanzialmente buonuomo, almeno all’apparenza, con una bella faccia e un bel portamento. Questo era il nostro slogan: lui era l’uomo nuovo, in mezzo a tanti marpioni della politica. Il collegio Italia NordEst prendeva dentro il Triveneto e l’Emilia-Romagna. Naturalmente lui era candidato nella Democrazia cristiana, perché la nostra associazione era collaterale alla Democrazia cristiana, o la Democrazia cristiana era collaterale alla nostra associazione, esattamente come erano collaterali gli agricoltori e i commercianti, anche se naturalmente mai nessuno avrebbe ammesso di essere collaterale a nessuno; nella classifica delle preferenze l’uomo nuovo doveva arrivare, per passare, almeno quinto, perché cinque erano i seggi che si prevedeva avrebbe vinti la Democrazia cristiana nel nostro collegio, e di arrivare almeno quinti ci sentivamo di avere ragionevoli speranze; quarti no di sicuro, la spina del fianco erano i voti dell’Emilia-Romagna, naturalmente, dove la Democrazia cristiana pescava poco, e in particolare gli artigiani erano tutti in quadrati nella Cna, l’organizzazione concorrente, collaterale ai partiti della sinistra, il Partito comunista e il Partito socialista, che c’erano ancora. Poteva farcela anche da sesto, forse, soprattutto se Giulio Andreotti, che era capolista da noi ma anche in altri collegi, e che sicuramente sarebbe stato eletto da tutte le parti, avesse optato per risultare eletto in un collegio diverso dal nostro; e se fossimo riusciti, almeno in qualche provincia, ad abbinare l’uomo nuovo con Andreotti: cosa che si fece, o non si fece, non ricordo più; ma mi pare di no. Andò che prendemmo poco più di 105 mila preferenze, l’uomo nuovo arrivò sesto, staccato di poco più che cento voti, Andreotti optò per essere eletto nel nostro collegio, credo più che altro per fare un dispetto a Forlani, anche se non mi ricordo più perché in questo modo Andreotti facesse un dispetto a Forlani, visto che l’uomo nuovo non era in alcun modo apparentato a Forlani, per quel che ne sapevo io, a meno che non ci fossero accordi segreti (ce n’erano di ogni tipo). Comunque, addio uomo nuovo. Immediatamente cominciarono le vendette: perché noi sapevamo, dai tabellini degli scritti all’associazione artigiana, provincia per provincia e comune per comune, quante preferenze avremmo dovuto prendere nel tal comune e quante nel talaltro, e addirittura quante nel tal seggio e quante nel talaltro. E ci fu un’intera provincia che subdolamente tradì. Oppure tradiva nel denunciare il numero degli iscritti, con il solito trucco dell’iscrizione automatica attraverso l’Inps, o l’Inail, non mi ricordo più. Fatto sta, non sono queste le cose importanti, che la campagna elettorale durò tre mesi – tre mesi di fase bollente, in realtà era tutto cominciato un anno prima – e io che lavoravo nell’ufficio stampa – ero il ragazzo di bottega dell’ufficio stampa, per così dire – passai tre mesi a contabilizzare preferenze: paese per paese, cena per cena, comizio per comizio, incontro per incontro. Ogni sera il nostro uomo nuovo aveva tre cene: qui mangiava il primo, lì il secondo, infine si sedeva per il dolce. A ogni cena stringeva la mano a tutti, faceva il discorsetto, rispondeva alle domande, e intanto io raccoglievo i soldi: perché una campagna elettorale costa l’iradiddio, e i soldi da qualche parte dovevano saltare fuori. Portammo via soldi raccolti in borse, in buste, in scatole da scarpe, in damigiane, in barattoli di latta (sgombro, confezione per comunità: parecchi biglietti si unsero, diventarono completamente trasparenti, passammo una notte ad asciugarli con il borotalco per portarli in banca che fossero appena appena decenti), in sacchetti del Pam, in sacchi neri da spazzatura, direttamente in tasca. Si buttavano sul sedile dietro dell’auto, e si andava. Io guidavo, l’uomo nuovo perlopiù dormiva, a volte contava i soldi, a volte telefonava, ma con cautela: perché avevamo, nell’85, il telefono nell’automobile, uno dei primi, e una telefonata costava minimo diecimila lire. Raccogliemmo 105 mila voti e mi sento di dire che li raccogliemmo uno per uno. Ognuno di quei 105 mila voti era, per così dire, firmato e sottoscritto. La notte dei conteggi stavamo lì, nell’appartamento che avevamo affittato apposta a Mestre, per farne la centrale della campagna elettorale, con i fogli di carta da pacchi appesi alle pareti, non c’era stanza che avesse una parete libera, le sezioni erano centinaia e centinaia; arrivavano i risultati sezione per sezione, e scrivevamo, e avevamo sezione per sezione un numero scritto col pennarello nero, che erano le preferenze che dovevano arrivare, e cioè il numero degli iscritti all’associazione artigiana, diminuito di una certa quota percentuale, volta per volta diversa, nelle zone dove c’era un candidato concorrente serio, e invece aumentato di un’altra quota, volta per volta diversa, nelle zone dove avevamo gli abbinamenti migliori; e sotto scrivevamo col pennarello rosso le preferenze che effettivamente arrivavano, e ogni volta che i risultati erano significativamente diversi cominciavano le discussioni: qui si sono perse trenta preferenze, lì ce ne sono dieci impreviste, cosa sarà mai successo? Che qualche sezione non promettesse bene, nonostante le informazioni per così dire ufficiali, lo sapevamo già dalle cene: quando in una cena organizzata apposta per il sostegno alla campagna elettorale dell’uomo nuovo, l’artigiano, cioè l’uomo dell’associazione artigiana, l’uomo che antropologicamente rappresenta ogni artigiano perché come ogni artigiano è un lavoratore accanito, un evasore fiscale, un padre di famiglia, uno che non ha studiato tanto, uno che ce l’ha fatta da solo, uno che non vuole saperne di avere un padrone sopra la testa, uno eccetera eccetera, gli artigiani presenti non mollano più di diecimila lire a testa, avendone spese una ventina o una trentina per la cena, vuol dire che lì voti non ne raccogli proprio: a parte le facce cordiali e gli applausi di cortesia vuol dire che ti stanno facendo la festa, fanno finta, hanno altri giri e altri giochi da fare («giri» e «giochi» erano le parole che si sentivano più spesso, in quei giorni, alle riunioni quotidiane del comitato elettorale). Cene così ce n’erano state, e ci aspettavamo in buona parte ciò che effettivamente successe. Ma nella provincia che ci tradì, lì le cene erano state generosissime. Era la provincia che aveva messi più soldi, anche perché era quella più grossa e con più iscritti (veri o falsi che fossero). E oltre ai soldi raccolti alle cene, anche il contributo diretto dell’associazione provinciale era stato generosissimo. Ci avevano fregati. Non ce l’aspettavamo, invece loro erano stati parecchio più furbi di noi, noi eravamo i pivellini, in fondo era la nostra prima campagna elettorale, invece loro da decenni avevano i loro referenti diretti, nella Democrazia cristiana, fuori della Democrazia cristiana, espliciti, sottobanco, fissi, occasionali: in quella provincia l’uomo nuovo aveva l’abbinamento con un altro candidato, suggerito dall’associazione provinciale, un vecchio marpione, uno che si era già fatto quattro o cinque legislature alla Camera dei deputati, uno ben radicato nel territorio, come si dice, uno che conosceva tutti i conventi di suore e tutte le associazioni dopolavoristiche e tutte le squadrette di calcio, per non parlare dei sindaci e dei parroci, e così successe che il vecchio marpione i suoi voti se li prese tutti, e prese anche i nostri, e a noi lasciò il becco bagnato. Praticamente eravamo andati in giro a fare propaganda a lui, lui avrebbe dovuto tirarci la volata e invece fummo noi a tirarla a lui, evidentemente appena ce ne andavamo da una cena – per raggiungere la successiva – c’era qualcuno che si alzava in piedi e diceva: l’avete visto l’uomo nuovo, ora state bene attenti a non votarlo, dovete votare quell’altro che gli sta abbinato, e poi per chi volete, purché non per l’uomo nuovo, perché l’uomo nuovo l’hanno scelto dall’alto, non è nemmeno della nostra provincia, è uno straniero, forse non è nemmeno veramente un artigiano, ha fatto carriera nell’associazione e ormai fa solo quello, non è più come noi, come voi, è diventato un romano, un nemico, non dovete votarlo. Devo dire che tutta la campagna elettorale per me fu sostanzialmente un divertimento. Tanto io non avrei votato per lui, non avrei votato nemmeno per la Democrazia cristiana, come tutti i veri democristiani – se esistono, se esistevano, se già allora io non ero l’unico democristiano sulla faccia della terra – non avevo nessuna intenzione di votare Democrazia cristiana, perché la Democrazia cristiana ovviamente faceva schifo, quarant’anni (allora) di malgoverno, cloro al clero, ero nato nel 1960 e a venticinque anni non era pensabile che votassi Democrazia cristiana, e nemmeno socialista o socialdemocratico, per un ragazzo colto e moderato della mia età, lì in provincia, bisognava votare i Verdi o addirittura il Partito comunista, che allora esisteva ancora, perché la Democrazia cristiana era il nemico da abbattere, il padre da uccidere, la perversione dei nostri ideali, posto che ne avessimo. Nei nostri uffici avevamo una ventina di ragazzi assunti a contratto, nessuno democristiano, evidentemente, perché se fossero stati democristiani avrebbero avuto un lavoro fisso, che stavano lì tutto il giorno a piegare in tre i pieghevoli dell’uomo nuovo, a metterli nelle buste, a dividere le buste per codice postale, a impacchettare, a pesare, a calcolare, a caricare sul Fiorino per mandare in posta. Avevo calcolato che senza battere la fiacca potevano confezionare a testa circa duemila spedizioni al giorno: gli stavo alle costole, perché questo era il mio lavoro del mattino, badavo bene che non battessero la fiacca, contavo i pieghevoli da piegare e quelli già piegati, telefonavo a destra e a manca ai destinatari di controllo per controllare che i pieghevoli arrivassero effettivamente, non mi fidavo dei postini che notoriamente erano tutti repubblicani, per via del ministro Visentini che era anche socio della società che possedeva l’Olivetti, e stava facendo l’informatizzazione delle Poste Italiane, rigorosamente con computer Olivetti (aveva anche fatto lo scontrino fiscale obbligatorio, poiché l’Olivetti produceva registratori di cassa); ai ragazzi dicevo che non doveva fregargliene niente se lavoravano per la Democrazia cristiana, perché se non l’avessero fatto loro qualcun altro l’avrebbe fatto al loro posto, quello sporco lavoro, e allora tanto valeva, dato che non li pagavamo neanche male, oltre al fatto che li pagavamo davvero. Non ho mai saputo quanto, in definitiva, ci costò quella campagna elettorale, anche perché i soldi che si raccoglievano erano tutti raccolti così, come ho già detto, al volo, e solo una parte lasciava una traccia contabile, la maggior parte finiva in un conto corrente privato, intestato al segretario dell’associazione, credo, o all’uomo nuovo, e come entravano uscivano, c’era una quantità di spese impressionante, ogni tanto qualche tipografo telefonava incazzatissimo perché l’avevamo pagato con un assegno scoperto, capitava, bisognava fare argine, difendere, essere gentili, provvedere subito, racimolare i soldi di corsa, pagare, magari con un altro assegno scoperto, ma intanto si prendeva tempo, perché in campagna elettorale i tipografi erano imperatori e re, non ti potevi inimicare i tipografi, se i tipografi ti voltavano le spalle era la fine: oggi con la televisione è tutta un’altra cosa, allora i tipografi erano i veri eroi nascosti delle campagne elettorali. Alla fine di tutto, scoperto di non essere stato eletto, l’uomo nuovo andò a letto e, così mi disse sua moglie, dormì difilato quattro giorni. Io rimasi sveglio per giorni e giorni, ancora, perché non ero più capace di fermarmi. Una bella avventura. Tuttavia in quei tre mesi credo di non aver mai incontrato un solo democristiano. Io c’ero sempre lì, era toccato a me di andare in giro – dal primo pomeriggio a tarda notte – con l’uomo nuovo, perché notoriamente io non dormo, non fumo e non bevo, così potevo farmi qualche centinaio di chilometri al giorno, passando da una cena all’altra, senza nessun pericolo per la salute dell’uomo nuovo (che invece nelle ultime settimane, ad esempio, per stanchezza e disperazione, perché nelle alte sfere cominciavano a intuire qualcosa del tradimento – io non ne sapevo ancora niente – aveva cominciato a bere un tantino troppo, e senza quasi mangiare). Alle cene mi sedevo anch’io, o piuttosto mi muovevo, dopo aver raccolto i soldi, passavo di qua e di là, andavo a salutare i presidenti dei mandamenti o dei gruppi di categoria, chiacchieravo, domandavo, stavo a sentire: facevo la spia, in somma, monitoravo la situazione a livello base, come dicevamo allora. Facevo il personaggio dello scettico, tanto io potevo, ero un dipendente dell’associazione e non un artigiano, nell’occasione apparivo qualcosa a metà strada tra l’autista e l’attendente, ero un semplice dipendente e in quanto tale potevo avere tutte le opinioni che volevo, non ero nemmeno tanto tenuto a essere democristiano, così facevo lo scettico, dicevo mah non so se ce la fa, oppure mah non so se uno digiuno di politica potrebbe, oppure mah non so se la categoria è poi così unita, cose del genere dicevo, in modo da tastare gli umori, di svegliare i cani dormienti. Dicevo anche questa cosa, come sfondo, tanto per acquisire subito un po’ di credito, per non destare sospetti, facevo una specie di professione di fede, dicevo: io sono democristiano, il che era vero, dicevo sono contento di fare questa campagna perché sono democristiano, anche per tradizione familiare, mia zia aveva lavorato nella segreteria del povero Aldo Moro, delle tante anime della Democrazia cristiana quella che mi sento più affine è l’anima della sinistra democristiana, più che quella del centro, alla quale appartiene l’uomo nuovo, ma sono contento di fare questa avventura, non mi succederà mai più in vita, credo, e mi sembra una bella cosa. Così dicevo, e scoprivo così, parlando, che a quei tavoli di democristiani, in generale, non ce n’era mai nessuno. Erano tutti liberali, repubblicani, missini, socialdemocratici, apolitici, c’erano già i primi della Łiga (la Łiga Veneta, che si pronuncia grosso modo «jiga», non la Lega Nord: tutta un’altra cosa, molto più ruspante), qualcuno si dichiarava addirittura socialista; in provincia di Venezia o di Rovigo, province rosse di tradizione, c’erano parecchi comunisti, e alla fin fine dai conteggi delle preferenze risultarono quelli più fedeli: per una volta votarono Democrazia cristiana, per votare l’uomo nuovo, si passarono parola e lo fecero votare anche alle mogli e ai figli, forse aiutati dalla tradizione di disciplina. Ma uno che dicesse, così come lo dicevo io, in tono di voce normale: sono democristiano, uno così, non l’ho mai trovato, pur avendo fatto duecentocinquanta, forse trecento cene, e in ogni cena avendo parlato, parlato davvero, a parte quelle più numerose dove tutto il tempo mi andava via per prendere su i soldi, con dieci, quindici persone. L’unica conclusione era, e le province di Venezia e di Rovigo ce l’insegnarono una volta di più, che solo chi non è democristiano vota per la Democrazia cristiana, in quanto di democristiani non ne esistono, o sono pochissimi, e quelli – come me – tendo a votare per qualunque cosa, purché non per la Democrazia cristiana. Oppure non so, semplicemente la lingua italiana è siffatta che pronunciare la frase: io sono democristiano, è una cosa quasi impossibile per tutti, ce la fanno solo pochi privilegiati o scalognati, a vostra scelta, le persone normali non ce la fatto e finiscono col dire, quando vorrebbero dire: io sono democristiano, qualcosa di diverso, come: io sono liberale, oppure: io ho sempre votato il Mis (che poi sarebbe, anzi era, il Msi). Allora penso che se nell’85 mi avessero detto, tu diventerai uno scrittore, mi sarei messo a ridere, non ci pensavo nemmeno, allora avevo venticinque anni e il mio primo racconto poi lo scrissi a trentuno; a venticinque anni ero un grande lettore di libri, questo sì, ero un grande lettore dall’età di sei anni, e facevo un lavoro a causa del quale dovevo scrivere molto, questo sì, essendo nell’ufficio stampa, ma non scrivevo altro che comunicati stampa e discorsi sindacali, occasionalmente qualche pezzo un pochino più letterario a proposito dei mestieri di tradizione, la sartoria o la fusione di campane o la fabbricazione di ocarine; non pensavo certo che il mio futuro sarebbe stato quello che poi è stato; ma evidentemente già nell’85 c’era in me una qualche vis linguistica che agiva e che mi faceva dire cose impossibili a dirsi per i comuni mortali, per i comuni democristiani: potrebbe essere così, forse sì, ma non so. Oggi, 15 gennaio duemila, trovo citata nel «Corriere della sera» una famosa battuta di Sandro Pertini, buonanima, quella famosa frase detta in uno dei discorsi televisivi di capodanno, un messaggio alla nazione, di quella volta che improvvisamente incominciò a dire, accalorandosi: io, socialista da sempre…, e questo attacco, mi ricordo perché c’ero anch’io, davanti al televisore, come più o meno tutti peraltro, lo ripeté un paio di volte, nel corso della frase, per enfatizzare: io, socialista da sempre…, e mi sono trovato a pensare chi, oggi, fatta eccezion di me, chi se la sentirebbe di dire, non dico di fronte a una nazione, al popolo catodico, ma di fronte a una o due altre persone, anche amiche, chi se la sentirebbe di cominciare un discorso dicendo: io, democristiano da sempre…: non so, non mi viene in mente nessuno. Una volta avevo degli amici che facevano una rivista, anche bella, di intervento politico e sociale nella mia città, che è Padova, ed erano amici che io tranquillamente consideravo democristiani, credo addirittura che qualcuno di loro fosse davvero iscritto alla Democrazia cristiana, eppure non erano mai capaci di dirsi democristiani, dicevano invece di richiamarsi alla tradizione cattolico-democratica – che è una cosa diversa, ben diversa, dal dirsi democristiani –, parlavano della cultura della mediazione, che è una cosa molto democristiana, di fatto partecipavano sia pure con un certo distacco a questioni di corrente, un paio di loro furono in lista qua e là – poca roba, consigli di quartiere – ma sempre con una quantità di distinguo, di separazioni, con questa estrema cautela di non dirsi mai, mai e poi mai, democristiani. A me la parola democristiano piace, è una parola bella grossa, fa la bocca piena, ci si mette un bel po’ a dirla, è come scrivono i giornalisti densa di significato, in somma è una parola seria, una parola impegnativa. A me piace dire: io sono democristiano, anzi a volte dico addirittura: io sono un democristiano genetico, e il più delle volte mi capiscono, altre volte no, in particolare fuori dal Triveneto – quello che oggi si chiama NordEst – non mi capiscono, e mi tocca spiegare: che io non sono democristiano per scelta, ma per natura; che dalla mia natura non mi posso separare, che se un pezzo di legno si ritrova violino è tanto meglio o tanto peggio per lui, e dal destino non ci si allontana, non ci si può allontanare: qualunque allontanamento da un destino è semplice travestimento, bluff, inganno, falso. Fatto sta, mi diceva un amico qualche giorno fa, un amico che io ho sempre considerato democristiano, e che si è sempre rifiutato di dichiararsi tale, sia in passato sia recentemente, un amico per dire che è stato consigliere d’amministrazione di una municipalizzata, in quota Democrazia cristiana, e che adesso è nell’Ente per il diritto allo studio, quello che gestisce le mense e gli alloggi dell’Università, in quota Cicidì o Cocodè, non so bene, fatto sta, mi diceva lui, che tu (cioè io) tuttora disponi di un’identità forte, puoi appoggiarti a qualcosa che ti sostiene, e ti invidio, diceva, cioè mi invidiava, perché tutti noi adesso siamo così sospesi, dopo la caduta del muro e delle ideologie, in questo tempo di globalizzazione, di pensiero unico, paradossalmente mancano i riferimenti, si naviga a vista, la gestione del presente anzi dell’istantaneo è tutto, non hai notato, mi diceva lui, non hai notato l’enfasi che da ogni parte si mette sull’immediatezza, sul tempo reale, per ogni cosa, dalle informazioni finanziarie alla consegna a domicilio delle pizze, tutto è istantaneo, subito, just-in-time, qui-e-ora, hic Rhodus, senza por tempo in mezzo? Non esiste più il tempo, diceva lui, nessuna scelta può essere meditata, è come se il nostro sistema nervoso corresse tutto sottopelle, anche il cervello fosse spalmato sotto la pelle, per cui ogni parte del corpo risponde immediatamente a qualunque stimolo, non c’è più un elaboratore centrale, ci manca il server, siamo una rete, abbiamo questo mito della rete; e allora, diceva lui, io ti invidio, diceva che mi invidiava, perché invece tu (cioè io) tuttora disponi di un elaboratore centrale, le tue azioni non sono semplici reazioni, tu agisci in base a un progetto, hai un motore immobile dentro di te, sei più vulnerabile, certo, un colpo in testa e via, noi cerebrocutanei possiamo anche perdere un braccio, o la testa addirittura, non cambia niente, sono un po’ ciber, scusa, non volevo essere macabro, però: ti invidio, ecco, io non potrò mai più essere così, essere come te, diceva lui. Io non dicevo niente. La parola «democristiano», secondo il Dizionario etimologico della lingua italiana Zanichelli, seconda edizione, è attestata per la prima volta nell’edizione del 1905, la prima, del Dizionario moderno di Alfredo Panzini; io del Dizionario moderno ho la quinta edizione, del 1927, dove la voce «democristiano» ha la data 1918 (e quindi: sarà diversa da quella della prima edizione?), e vi si legge: «neologismo, detto dei cattolici con tendenza socialista, o modernista, ma ossequienti alla volontà del Pontefice». Socialista o modernista. Il modernismo è morto da un pezzo, anzi la chiesa è da un pezzo più modernista di quanto il più radicale dei modernisti d’inizio secolo osasse sperare; quanto al socialismo, quello reale è bell’e finito, quello surreale è in esilio, come dice lui, o contumace, come dico io, e speriamo che ci resti. Il bello è che io sono stato perfino iscritto alla Democrazia cristiana, e per due volte: la prima volta senza saperlo, e la seconda volta di mia spontanea volontà. La prima volta andò così: che un comparrocchiano, che era nella Democrazia cristiana, e naturalmente non era democristiano, o almeno così diceva, invece era nell’associazione artigiani, possedendo una fabbrichetta di cuscinetti a sfera, e si definiva un artigiano prestato alla politica, o un artigiano della politica, e comunque si occupava solo di politiche dell’artigianato, tanto che poi finì addirittura assessore comunale, non mi ricordo di che, forse al personale o al cerimoniale, comunque un assessorato del tubo, quest’uomo mi chiese se poteva abbonarmi a una rivista di politica, una rivista interessante, così, semplicemente perché gli sembravo un bravo ragazzo, avevo sedici anni, del quale valeva la pena di coltivare la cultura politica; io gli dissi di sì, naturalmente, carta stampata gratis non si rifiuta, ero onnivoro all’epoca, leggevo qualunque cosa, anche Hegel, perlopiù senza capire niente, e così cominciò ad arrivarmi a casa «La discussione», settimanale fondato da Aldo Moro, e io non mi resi conto di essere stato iscritto alla Democrazia cristiana se non quando, un giorno, qualche mese dopo, quest’uomo mi telefonò e mi disse se per piacere andavo nel tal posto, tra il tale e il tale giorno, a prendere la mia scheda, e a votare per lui: per una carica nel partito, forse la presidenza della sezione cittadina, non mi ricordo. Io gli dissi di sì, per non stare a discutere, poi non ci andai, e alla scadenza naturale dell’abbonamento «La discussione» smise di arrivarmi a casa. La seconda volta invece avevo ventisei anni, dieci anni dopo, l’anno prima avevo fatta la campagna per l’uomo nuovo, e un ragazzo che era stato mio compagno di catechismo mi invitò a entrare non proprio nella Democrazia cristiana, cosa che gli sarebbe sembrato indecente propormi, così disse, ma invece nel movimento giovanile, che era tutta un’altra cosa, secondo lui, e infatti lui alla Democrazia cristiana pura e semplice o vera e propria non si sarebbe iscritto mai, diceva, non essendo democristiano, e anzi provando una certa ripugnanza per i democristiani in generale, oltre che per i democristiani veneti e della nostra città in particolare. Gli feci notare che io ero democristiano e lui rispose che non era possibile, infatti non innescavo in lui nessuna reazione allergica o psicotropa, così disse: allergica o psicotropa (forse era una battuta), e che se io ero assolutamente libero di pensare di essere democristiano, lui si riteneva assolutamente libero di ritenere che non lo fossi affatto, e per questo mi invitava a entrare, come lui era già entrato da anni, nel movimento giovanile, poiché la Democrazia cristiana, mi spiegò, non può evolversi e cambiare se non inglobando forze nuove, rigorosamente non democristiane, estranee alla cultura del partito-stato, delle pastette, dei signori delle tessere, del consociativismo, del collateralismo clericale, del moderatismo quietista, del piccoloborghesismo moralista, e chi più ne ha più ne metta. A me risultava un po’ strana la faccenda, che l’unico modo per riformare o rifondare la Democrazia cristiana fosse quello di riempirla di non-democristiani, come se per migliorare una razza di vacche bisognasse incrociarle con i canguri, anziché con altre vacche; comunque la cosa mi attirò, ero molto ingenuo a quel tempo, peraltro lo sono ancora, così cedetti all’invito e mi iscrissi. Il movimento giovanile era spaccato in due, scoprii ben presto, due gruppi si fronteggiavano, quello della sinistra e quello genericamente doroteo, naturalmente entrambi composti da non-democristiani di ferro, che si erano iscritti alla Democrazia cristiana con il solo obiettivo di cambiarla da dentro, di farla diventare non-democristiana, di de-demo-cristianizzarla radicalmente, di fondare una classe dirigente nuova e laica, per bene, tecnica, onesta. Tra risicata maggioranza (della sinistra, alla quale apparteneva il mio amico, e di conseguenza anch’io, cosa che non fu nemmeno in discussione) e potente minoranza (dorotea) non tirava un’aria tanto buona, e a me restò dall’inizio alla fine incomprensibile quale fosse la posta in gioco. Pareva che la questione essenziale fosse difendere l’accesso alla stanza del movimento giovanile, seconda porta a destra nell’appartamento di piazza don Luigi Sturzo, e nel giro di due mesi – durai due mesi, poi lasciai perdere – vidi sostituire quattro volte le chiavi della porta. In due mesi mi resi conto che l’ex compagno di catechismo, benché fosse capo della maggioranza, e benché la sinistra fosse la corrente che in quel momento esprimeva addirittura il sindaco, era un perfetto idiota: o almeno appariva tale a confronto con gli avversari. Io stesso, peraltro, ero un perfetto idiota. In generale la trattativa non è il mio forte, e naturalmente dentro un partito, e dentro la Democrazia cristiana in particolare, quindi anche dentro il movimento giovanile, non c’è scampo se non sei abile nella trattativa, dirò di più: non c’è scampo se non consacri l’intera tua vita di partito alla trattativa. Se non sei abile nella trattativa ti ammazzano, se non capisci subito qual è la posta in gioco ti ritrovi fuori della porta con in mano un mazzo di chiavi che non serve a niente, se non ti rendi conto di che cos’è la politica di partito, e nel partito, servi solo come soggetto per storielle che gli altri si raccontano poi, facendo grasse risate. In quei due mesi maturai la decisione: che qualunque cosa avessi desiderato fare nella città, l’avrei sempre fatta come privato cittadino: come privato cittadino che eventualmente si associa o si aggrega a qualcuno, come privato cittadino che eventualmente entra in una associazione, come privato cittadino che eventualmente si sceglie dei compagni di viaggio: ma mai e poi mai in futuro avrei accettato di entrare in una associazione la cui identità si sovrapponesse alla mia, mai e poi mai in futuro avrei accettato di entrare in una associazione nell’identità della quale io provassi l’istinto di identificarmi. Oggi come oggi ad esempio lavoro nell’Arci, ho ricevuto una proposta di candidatura dai Ds (l’ho rifiutata: come dice mio fratello, Ds significa: Democristiani superstiti), scrivo sul supplemento settimanale del «manifesto», pubblico libri con una casa editrice di proprietà di Silvio Berlusconi. Ogni tanto trovo quello che mi dice: ma non ti vergogni ad aver fatto un libro con Mondadori, cioè con Berlusconi? Io dico: no, anche perché so bene a che cosa mi sono serviti i soldi della Mondadori – e non ve lo dico, perché sono fatti miei –, e solitamente aggiungo: non mi vergogno a pubblicare libri con Einaudi, cioè con Silvio Berlusconi. Naturalmente so che c’è una certa distanza – una distanza fisica, intendo, come tra il cervello e l’ultima falange del dito piccolo del mio piede sinistro – tra Silvio Berlusconi, colui che dichiarò di essere l’unto del signore, e che sorprendentemente non fu scomunicato, e le persone intelligenti e stimabili che in Mondadori e in Einaudi producono libri. Naturalmente so che Mondadori ha pubblicato il Libro nero del comunismo perché faceva gioco a Silvio Berlusconi, immagino che l’abbia commissionato lui, se addirittura non l’ha scritto lui di persona (scherzo, so che è la traduzione di un libro francese) ma i libri della Mondadori che fanno gioco a Silvio Berlusconi sono così palesi, così svelati, così ingenui, che non fanno male a nessuno: non per niente Mondadori pubblica anche i libri di D’Alema, e Sperling & Kupfer (che è sempre Mondadori) pubblica indifferentemente Bossi o Bertinotti. Nessuno è diventato anticomunista per aver letto il Libro nero del comunismo, perché solo chi è già anticomunista legge il Libro nero del comunismo. Il guaio è che questa indifferenza esiste, non importa che cosa sei, oggidì nessuno ti domanda da che parte stai, tutti sono molto pragmatici, fanno il possibile, fiutano il vento, non cambiano casacca ma semplicemente dimenticano di avere mai indossata una casacca, oppure tengono la casacca in casa e la ripongono nel guardaroba quando vanno fuori, oppure seppelliscono la casacca in attesa di tempi migliori, oppure adornano la casacca con decorazioni di nuovo genere e tipo, oppure portano ancora la casacca ma con nonchalance, la portano come se non volesse dire niente, o come se volesse dire qualcosa ma qualcosa di strettamente personale: come dicessero sì, io sono questo, o almeno sono stato questo, o almeno mi sento ancora vagamente legato a questo, o almeno sono partito da questo per arrivare lì dove oggi effettivamente sono e non è più questo, ma comunque tutto questo non ha importanza, porto la casacca più che altro per tradizione, l’ho indossata perché era lì, mi ci sono abituato, ma se significa qualcosa significa qualcosa per me, non ha un preciso senso politico, anzi io la politica la odio, oppure la politica è una faccenda nella quale gli ideali non c’entrano, la politica è fare le cose, ecco, a me interessa fare le cose, volta per volta mi scelgo gli interlocutori, naturalmente me li scelgo tra quelli che ci sono, oggi il mercato della politica offre questo, magari mi sembrano dei tristi figuri, ma ci devo convivere, è con loro che posso fare cose, non voglio restare al palo, non vale la pena che rinunci a fare cose solo perché mi tocca farle con loro, se io mi ritiro si fanno avanti gli altri, che sono dei mostri.
[Qui il testo si interrompe].
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