di giuliomozzi
1. La sindrome di Segrate. “O Mondadori, o niente!”. E così, il nostro scrittore in cerca di editore rifiuta le proposte delle Edizioni Nuovi Autori, delle edizioni Scrittura Creativa, di Aldino Truff Editore, di Rumenta Editore, e così via; ma, nel mucchio, rifiuta anche le proposte di case editrici serie, serissime, non segratiane, ma comunque riconosciute dai lettori e dalla critica e ben distribuite. “O Mondadori, o niente!”, e non si riesce a fargli capire che se è vero che essere pubblicati da un piccolissimo editore può significare non arrivare nemmeno nelle librerie (se poi sono editori come quelli della nostra lista: auguri), è anche vero che pubblicare con un grande editore senza essere l’investimento principale di quell’editore può significare essere buttati là, nel mucchio, e ciao.
Terapia: portare lo scrittore in una libreria di libri usati. Fargli vedere quanta roba c’è, pubblicata da Mondadori, anche solo pochi anni fa, della quale si è completamente persa la memoria.
2. La sindrome di Lish, dal nome del celebre editor, Gordon Lish, che fu artefice del successo di Raymond Carver ma ne fu anche, come recentemente è venuto alla luce, un po’ il carnefice. Gli scrittori in cerca di editore affetti da questa sindrome tendono a demonizzare la figura dell’editor (o dell’incaricato dell’editing, che come noto non necessariamente coincide con l’editor): temono che il testo della loro opera venga cambiato senza avviso (di solito per scopi commerciali), temono di essere costretti (sempre per scopi commerciali) a trasformare la loro sublime opera in una cagata, temono che sarà loro imposto (per scopi commerciali, è ovvio) il passaggio sotto le forche caudine del viaggio dell’eroe e della struttura in tre atti. E’ probabile che, subito dopo la pubblicazione dell’opera, ne chiedano il ritiro dal commercio a causa della fraudolenta sostituzione di una virgola con un punto e virgola.
Terapia: non è ancora stata trovata.
3. Sindrome della Siae. Gli affetti da questa sindrome tendono a depositare in Siae qualunque cosa. Non solo (cosa peraltro perfettamente inutile) le loro opere inedite, ma anche: la lettera di autopresentazione, il curriculum vitae, la corrispondenza con gli editori, la dichiarazione dei redditi, la lista della spesa, lo scontrino del caffè. Tale pratica sarebbe di per sé innocua (non per il portafoglio dell’autore, peraltro), ma se non ben contrastata la sindrome tende a complicarsi includendo pratiche aggiuntive: evitamento di qualunque trasmissione di testi per via telematica, richieste ripetute di giuramenti di riservatezza (eventualmente con: posizioni specifiche da assumere durante il giuramento, formule di giuramento in lingue sconosciute, scambio di sangue ec.), perquisizione dei luoghi d’appuntamento onde scongiurare la presenza di “cimici”, e così via. La pura e semplice idea che la loro opera possa venire pubblicata è in genere, per costoro, terrificante.
Terapia: se non bastano i normali ansiolitici, si può provare con la cannabis, in dosi massicce.
4. La sindrome di Works. Una delle più curiose. Il portatore di tale sindrome ha installato nel proprio computer, probabilmente un Olidata dei primi anni Novanta, una suite Microsoft Works 1.05; e da un paio di decenni inonda il mondo editoriale con i suoi temibili floppy disk da cinque pollici e un quarto contenenti documenti in formato .wps. Ovviamente nessuno, e da mo’, è in grado di leggerli. A ogni invito a dotarsi di macchine e programmi più recenti, il sindromizzato risponde: “Non capisco perché. Quelli che ho funzionano benissimo”.
Terapia: cercare nella deep o nella dark net un collezionista; organizzare un furto su commissione; col ricavato comperargli un Commodore 64 e uno scatolone di nastrocassette. Non è sempre efficace.
5. Sindrome di Moresco per procura. Come spesso avviene, tale sindrome si può sviluppare solo in un ambiente sociale favorevole. Il portatore potenziale è uno scrittore completamente privo di stima di sé che scambia per grandi o grandissimi scrittori qualunque scrittore inedito gli venga a tiro. Il contatto tra il portatore della sindrome e le sue “vittime” avviene nei luoghi usuali: corsi di scrittura creativa, presentazioni di romanzi o saggi storici scritti da scrittori d’interesse locale, convention di collaboratori di siti letterari a pubblicazione automatica, conferenze letterarie di ex dirigenti scolastici. Normalmente gli scrittori inediti, soprattutto se di infimo valore, tendono ad accettare le dichiarazioni di stima, gli omaggi, i pubblici elogi, talvolta anche gli approcci sessuali dello scrittore completamente privo di stima di sé. Si produce dunque un circolo viziosissimo.
Terapia. Pubblicare con un certo fasullo fasto lo scrittore inedito idolatrato dal poveretto: che, essendo il suo idolo diventato ormai uno scrittore edito, ovvero essendo il suo idolo ormai entrato nella “cricca”, nel “magna magna” della Repubblica delle Lettere, lo abiurerà.
6. Sindrome dell’ultima versione. Gli affetti da tale sindrome hanno l’abitudine di inviare ogni quindici giorni circa (ma, nei casi più gravi, ogni sette ore circa) una “nuova versione” del loro romanzo. L’invio di ciascuna versione è accompagnato in genere da una lettera che spiega dettagliatamente le differenze tra la versione presente e la precedente (“Ho eliminato tutte le virgole”, “Ho cercato di dare al romanzo un’andatura un po’ alla Céline, inserendo qualche centinaio di puntini di sospensione”, “Ho pensato che Elvira non poteva fare quella brutta fine, così le ho combinato un’unione civile con la Regina Ragno”, “Mi sono accorto che nel 1628 non esistevano le unioni civili, così ho trasportato l’azione del romanzo nel 2016”, “Ha ragione lei, il lieto fine è intollerabile: in questa nuova versione Giuditta e Melampo si uccidono tuffandosi dal bastione di Stampace a Cagliari (le allego una proposta di copertina)”, e così via).
Terapia. Per il lettore editoriale, dopo la terza versione Tranquillin in gocce (10 al dì); aumentare la dose di due gocce per ogni successivo invio. Per lo speditore folle, hackeraggio del suo disco rigido.
7. Sindrome del “te-la-do-non-te-la-do”. Il portatore di tale sindrome è strutturalmente incapace di sottoporre a un editore la propria opera completa. Invia riassunti (lui li chiama, misteriosamente, “sinossi”), primi capitoli, soli capitoli dispari, scalette, progetti di marketing per la miglior vendita dell’opera, giudizi positivissimi sull’opera attribuiti ai più importanti editor delle maggiori case editrici (“Ma non ha potuto pubblicarmelo, sa, a quei livelli, hanno tutti le mani legate): ma mai, mai, mai si rassegna a inviare l’opera completa. “Non voglio farle perdere troppo tempo”, scrive pressappoco, “tanto le basterà dare un’occhiata a questa lista delle parole contenute nel mio romanzo che cominciano per ‘m’ per rendersi conto che si tratta di un capolavoro”; oppure: “Poiché è noto che voi tagliatori di teste editoriali compite le vostre scelte basandovi sulla lettura delle sole pagine 3, 17 e 51, le invio in allegato le pagine 3, 17 e 51 del mio romanzo”: cose così, insomma.
Terapia. Introdursi di notte nell’abitazione del sindromizzato. Rubare (dal cassetto, dal pc, dal frigorifero: ciascuno ha i propri metodi di conservazione) una copia integrale dell’opera. Distruggerla immediatamente.
8. Sindrome dell’avviso di ricevimento mancato. Particolarmente diffusa tra gli ex appartenenti alle Forze dell’Ordine, tale sindrome consiste nell’inviare a numerose case editrici altrettante copie dell’opera, in plichi sigillati, raccomandati e con avviso di ricevimetno (vulgo: ricevuta di ritorno). Nel compilare il cartoncino dell’avviso di ricevimento, però, il malcapitato costantemente scrive sul lato dove dovrebbe scrivere l’indirizzo del destinatario il proprio indirizzo, e l’indirizzo del destinatario sul lato dove dovrebbe scrivere il proprio indirizzo. Conseguentemente il destinatario riceve il plico e, pochi giorni dopo, l’avviso di ricevimento. Turbato dalla mancata consegna di tutti gli avvisi di ricevimento, lo speditore può sviluppare un’ulteriore sindrome deprssivo-persecutoria.
Terapia. Non nota. Gli editori di buon cuore possono mettere l’avviso di ricevimento in una busta, e spedirlo al mittente del plico.
9. Sindrome calviniana. Le eredità indivisibili, Il moscone ronzante, Il cestello dei pulcini intralciati, Se una mattina di giugno un finanziere, L’editore inconsistente, Il bisonte inviperito, Tycoon Ø, La nottata di un acciecatore, Valdemar, La penetrazione di Clizia, eccetera: non è colpa del povero Italo Calvino, e se una sua colpa c’è, è solo quella – lievissima – di essere vissuto e aver operato in una stagione nella quale la cosiddetta “letteratura combinatoria” andava per la maggiore; ed è inevitabile che, sulla scorta di una tanto lodata e scolasticizzata opera, altri si siano provati e si provino a combinarne e ricombinarne i contenuti e le forme. La sindrome calviniana si può però considerare conclamata solo qualora il paziente (perché ci vuol pazienza, a stare sempre lì a combinare e ricombinare sempre le quattro medesime cose) riduca a calchi e ricombinazioni calviniana l’intera propria opera. Altrimenti si potrà parlare di divertissement, di innocente mania, di momenti particolari nel percorso di formazione dello scrittore.
Terapia. Rivolgersi a Paolo Albani.
10. Sindromi complesse. Gli scrittori in cerca di editore sono in grado di sviluppare sindromi complesse, ovvero sindromi che presentano per esempio tratti tipici tanto della sindrome del “te-la-do-non-te-la-do” quanto della sindrome dell’avviso di ricevimento mancato, o (più frequentemente) della sindrome di Lish e della sindrome della Siae, eccetera. In questi casi è difficile formulare un percorso terapeutico preciso: al di là delle solite docce ghiacciate, delle scosse elettriche, delle somministrazioni di percosse testicolari, delle deprivazioni di sonno luce e carta igienica, la scienza altro non può suggerire.
Tag: Alessandro Baricco, Christopher Vogler, Gordon Lish, Italo Calvino, Paolo Albani, Raymond Carver
5 giugno 2017 alle 10:11
Da curare, in tutti i casi. Peccato che abbiano delle ricadute.
Proporrei il ricovero forzato.
5 giugno 2017 alle 10:37
Le altre non le conosco, ma sono molto divertenti. Mentre credo di essere stata colpita dalla sindrome di Segrate in modo tardivo. E spero che ciò possa risultare un po’ meno grave.
(Poi, a dirla tutta, non è che Mondadori, ecco… e non direi di no a una “vera” piccola casa editrice ben distribuita, ecc…).
Però è pur vero che – anche se le case editrici non fanno niente in entrambi i casi – all’esterno, nel mondo reale (diciamo pure regionale) i lettori “comuni” ti riconoscono più facilmente lo statuto di “scrittore” se pubblichi con un editore noto (almeno qui in Ticino), per cui si rischia di far scattare (se l’editore ha un nome “importante”) tutta una serie di meccanismi per cui inizi a venir invitato a serate, in radio, a tenere incontri scolastici. Ma soprattutto. Sai che a quel punto i tuoi sforzi saranno un pochino più ricambiati: perché se ti sbatti per farti notare come “galoppino” della scuderia di un mini-editore, quello che raccoglierai sarà molto meno che non sbattendoti per uno grande. E fin qui parlo da una che c’ha provato a pubblicare con tre piccoli editori (non EAP) e alla fine ha visto che ci guadagnava molto di più pubblicandoseli da sé: cosa che in ogni caso non dà prestigio, anzi.
La sindrome si è però manifestata chiaramente – mi sa – quando ho rifiutato le ultime proposte (di tre medi editori non a pagamento – a suo tempo -, ma abbastanza sconosciuti) che ricevetti un paio di anni fa.
Di certo c’è che, forse: piuttosto che non esordire, non sarebbe male esordire con un piccolo editore ben distribuito e ritenuto buono dall’interno, immagino, perché poi il passo successivo potrebbe essere quello di farsi notare da un grande editore; sempre che a quel punto possa valere ancora la pena di cambiare.
5 giugno 2017 alle 11:48
propongo un TSO immediato per la “sindrome da cinismo” dell’editor. :-;
5 giugno 2017 alle 12:25
La sindrome della Siae e la sindrome dell’avviso di ricevimento mancato possono essere efficacemente curate mediante dotazione di PEC da parte di entrambi i soggetti (toccherebbe anche a lei, Mozzi, ma credo che siano 30€ all’anno ben investiti).
Potrebbero manifestarsi occasionali recrudescenze (tipo malaria) in caso di malfunzionamenti temporanei del sistema, ma possono essere trattate con Lexotan nel breve periodo antecedente al completo ripristino delle funzionalità.
5 giugno 2017 alle 12:28
Quanto è difficile capire di quale sindrome si soffre… Forse c’è anche questa: “Decido di non scrivere più, tanto nessun Editore mi considera”; e poi continuare a scrivere.
5 giugno 2017 alle 12:30
Però io “mo” lo scriverei senza apostrofo…
http://www.treccani.it/vocabolario/mo/
5 giugno 2017 alle 12:42
Gentile Mozzi, confesso senza vergogna di soffrire e di avere sofferto della sindrome “te-la-do-non-te-la-do”. E però devo dire: non è che non volessi inviare tutta la storia, è che proprio non c’era tutta la storia: c’era l’idea e una decina di pagine. Ora, e questo sia detto non per merito mio, ma di tre delle idee che avevo con le poche righe e tutto il resto, due sono piaciute. Sarà stata la voce, forse lo stile, ma le hanno prese, proprio a Milano.
5 giugno 2017 alle 12:45
La Crusca, a quanto pare, Michele, preferisce il mo ma non nega il mo’ (altri dizionari considerano solo il mo’).
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/tre-avverbi-per-solo-concetto-questo-momento
5 giugno 2017 alle 13:19
Temo di avere la 6
5 giugno 2017 alle 13:19
Dunque auguri, Massimiliano.
5 giugno 2017 alle 13:28
Grazie Giulio.
5 giugno 2017 alle 14:12
…”è anche vero che pubblicare con un grande editore senza essere l’investimento principale di quell’editore può significare essere buttati là, nel mucchio, e ciao”
Questo, per averlo provato, posso dire che è vero!
5 giugno 2017 alle 15:17
Molto molto divertente! Ma la deprivazione di carta igienica no! Apre nella mia mente vasti orizzonti di metodi o strumenti alternativi che non oso qui raccontare…
5 giugno 2017 alle 18:29
Invece molti editori soffrono della sindrome del Buco Nero, un organismo vivente capace di fare sparire tutto quello che gli ronza intorno. Perché perdere tempo per inviare una mail a un povero Cristo? Del tipo: ho letto mezza pagina e proprio non ci siamo, mi spiace ma non posso dare una risposta prima di due anni, purtroppo il nostro catalogo è chiuso… Insomma una risposta che ti fa pensare di avere inviato un’opera a una persona educata.
5 giugno 2017 alle 20:11
Io sono molto chiaro, Alberto: se non mi faccio vivo entro due mesi, vuol dire che la cosa non mi interessa. E non sono in grado di avviare centinaia di conversazioni su opere che non mi interessano. La mia resistenza alla fatica ha dei limiti.
5 giugno 2017 alle 21:29
Bene. Una risposta automatica “se non rispondiamo entro due mesi significa che la tua opera non rientra nei nostri interessi” sarebbe apprezzata. Apprezzatissima. Vuol dire che hai di fronte qualcuno a cui hai dato la mano e lui te l’ha stretta. Invece la regola applicata dagli editori è un’altra: quella del “non rispondere mai”. Tu gli dai la mano e lui tiene la sua in tasca, perchè lui è Dio e non può scendere al tuo livello.
5 giugno 2017 alle 23:14
No, l’editore non è un dio. Neanche gli autori sono dei.
6 giugno 2017 alle 00:01
Giusto. Ma tanti autori lo sanno. E tanti editori non lo sanno.
6 giugno 2017 alle 00:33
No. La mia esperienza non è questa. Non ho conosciuto editori che si ritenessero “dei” (forse uno, ma non conosco abbastanza); ho conosciuto una quantità di scrittori, editi e no, dall’ego smisurato.
6 giugno 2017 alle 07:41
Scusandomi per l’intromissione, vorrei “spezzare una freccia” a favore degli editori, anche grandi. Perché anch’io continuo a sentire questa osservazione secondo la quale nessuno risponderebbe e – aggiungo – molti dicono ancora che, di conseguenza, nemmeno ti leggono.
Secondo quanto è accaduto a me, non è assolutamente vero. O meglio: è vero nella misura in cui un testo non interessa sin dalle prime battute, per cui dopo (3 mesi per i piccoli, 6 mesi per i medi-grandi e anche 1 anno per i grandi) se non si riceve risposta significa che è negativa: e c’è scritto praticamente in tutte le pagine di contatto dei siti dei vari editori, dove si trovano gli indirizzi e i consigli di spedizione dei manoscritti. Quindi è già un’indicazione automatica.
Detto questo, su una dozzina di manoscritti inviati (in quattordici anni), mi è capitato sia di non ricevere risposte, o solo dalle piccole, sia di ricevere dei no argomentati, e in un caso anche molto argomentato, pure da quelle grosse (Mondadori ragazzi, Piemme, Rizzoli, Sellerio, Guanda, Garzanti… per citarne alcune).
Quindi sono la prova concreta che le voci che girano non sono vere. E per evitare i soliti sospetti: ho sempre inviato manoscritti da aspirante super sconosciuta, senza contatti o raccomandazioni e “a casaccio” (nel senso che cercavo il nome dell’editor in rete, ma siccome cambiano spesso, mi sa pure di aver sbagliato più di una volta) e senza mai intervenire con alcun tipo di sollecitazione o richiesta di risposte (tranne in un caso, quando Mursia manifestò interesse per un manoscritto e dopo un anno non avevo ancora saputo nulla) o altre sciocchezze. Sono persino una che non frequenta manifestazioni letterarie (e di certo non presentandomi) e non ho mai telefonato in una redazione per cercare di farmi notare in qualche modo.
Ecco ci tenevo a sfatare questa errata convinzione. Perché fin quando lo dicono gli addetti ai lavori, sembra sempre che chi sta dall’altra parte stenti a crederlo.
6 giugno 2017 alle 21:57
A proposito di “mo’/mo”: è chiaro che la forma non apostrofata è invalsa nell’uso, anche perché più “comoda”; ma quella – filologicamente e storicamente – giusta sarebbe l’altra: l’apostrofo, infatti, sta al posto della sillaba finale dell’avverbio latino “modo” (“poco fa”), caduta a causa dell’accento ritratto sulla sillaba iniziale.
Dopo di che, faccia ciascuno un po’ come crede…
10 giugno 2017 alle 19:39
Ho letto con attenzione i vari punti e pure tutti i commenti, che trovo MOLTO interessanti. E divertenti, come al solito. E belli. Tutti.
Io confesso che ho sofferto, mi pare lievemente, di varie sfumature patologiche, quindi rientro pienamente nel caso 10.
Ma voglio specificare testardamente che, da alcune, non guarirò mai e poi mai senza la chirurgia della pubblicazione.
Da quella dell’ /ultima versione/, MAI (ne soffriva Virgilio, ed è andata bene così): mi sembra onorevole. Altro è tormentare una casa editrice o lei, Mozzi, al telefono. A proposito…
Da quella di Segrate sono fermamente colpita: dovendo/volendo pubblicare Saggi, non esiste se non l’editore ad hoc. E poi, perché soffrire tanto per non vendere con una buona distribuzione? Piuttosto tengo tutto nel cassettone e prenderò ispirazione da Pessoa inventando un nome per l’Autore del saggio scritto da me, che, per non impazzire di dolore, soffrirà al posto mio. Chiamerò questa, forse a sproposito: sindrome del Machiavelli, sperando che il mio saggio sia così innovativo che, dopo morta, si diffonderà diventando un classico del pensiero occidentale.
Quella che mi centra un pelino di più è “Te la do/ non te la do”, perché si va ad incrociare con quella de l’Ultima Versione (come una Metastasi). Ma ora mi curo: mi chiedono un 80% del testo. Come dire di no? Andrà male, di sicuro. E’ la solita prassi per dimenticarsi di te (Quest’ultime due frasi a che sindrome sono da ascrivere?).
Sua.
11 giugno 2017 alle 13:01
Molto divertente l’elenco delle sindromi, ma bisogna anche capire che per noi aspiranti esordienti, pure un po’ attempati, l’ansia non è poca soprattutto quando si consideri che siamo fuori dai giri, ben lontani dai salotti cultural-chic, lupi omega che ululano dentro. Perdonate se sembro l’olandesina della Mira Lanza che cala dalle nuvole, lo so, forse è una domanda del piffero, e tuttavia la butto lì, come un sassetto nello stagno: ma ‘sta sinossi è gradita oppure no..?! (lo chiedo proprio perché sto tentando di scriverne una!)
12 giugno 2017 alle 05:36
Paola, io non parlo da dentro un salotto radical-chic. Mi dà un po’ noia vedermi attribuiti posizionamenti politico-sociali a caso.
Gli editori pubblicano forse sinossi? No, pubblicano libri.
12 giugno 2017 alle 06:33
Ma io mi ben mi guardavo dal riferirmi a lei. Grazie per la risposta. Un caro saluto
12 giugno 2017 alle 08:59
Quasi tutti, comunque, quando entrano nei “giri”, prima ne erano fuori. C’è chi ci nasce dentro, senz’ altro, ma è minoranza.
12 giugno 2017 alle 09:20
Caro Giulio Mozzi, grazie dell’attenzione. Ma che diamine, mi vien da dire: si potrà pure aspirare a esordire, tenendosi alla larga dai suddetti giri o gironi..!
12 giugno 2017 alle 18:58
Certo, Paola.
Molto dipende anche dalla definizione di “giro”.
25 giugno 2017 alle 10:06
Buondì Giulio! Al punto 7 scrivi: Invia riassunti (lui li chiama, misteriosamente, “sinossi”).
Ecco, ancora non mi è chiaro cosa si intende per “sinossi”. Quando una casa editrice la richiede, cosa si aspetta di ricevere, come deve essere strutturata e, soprattutto, cos’ha di diverso da un riassunto?
Grazie e a presto!
25 giugno 2017 alle 10:32
Domenica: una trentina di righe nelle quali si riassume la storia raccontata nel romanzo. L’uso di chiamare questa cosa “sinossi” è recente, e mi pare sbagliato.
12 giugno 2018 alle 22:10
[…] [Vai all’articolo] […]
15 giugno 2018 alle 08:48
manca la sindrome della conformità conformistica a tutti i costi, sì che l’aspirante si trasforma in una specie di camaleonte mulinante di lingua e pronto a trasformarsi in qualsiasi cosa conosciuta e sconosciuta