
Un errore classico.
di giuliomozzi
[Questa decina doveva essere un’altra cosa, ma ha voluto venir così].
1. Chiunque, scrivendo, fa errori banali:
– errori di digitazioen (taluni dovuti alla velocità – e ci sono errori tipici di chi scrive assai velocemente, come quello che avete appena visto, ed errori tipici di chi scrive lentamene, come questo -; altri dovui a perfidi aggeggi come i correttori automatici che trasformano le silfidi in sifilidi e le melanzane – giuro! – in fidanzate);
– errori in quelle cose infide come le “i” che compaiono e scompaiono dalle valigie, dalle provincie e da certi verbi dalla coniugazione impertinente (lascieremo o lasceremo?);
– errori per certi raddoppiamenti e scempiamenti molto regionali,ai quali il nostro orecchio a volte è più assuefatto di quello che crediamo;
– errori per più o meno passeggere mode, come l’orribilissimo affianco per a fianco;
– errori nella scrittura di parole importate da lingue molto esotiche come l’inglese (in vita mia ho letto la parola suspense scritta in diciotto modi diversi: tanto che, per sicurezza, scrivo sempre tensione o attesa, secondo i casi);
– ed errori d’altro genere.
L’unica terapia consigliabile è: rileggere, consultare il dizionario (in rete ce n’è di affidabilissimi). L’unica profilassi consigliabile è: abituare a rileggere, abituare a consultare il dizionario.
2. Attenzione: ci sono errori che non sono errori. Per esempio: obiettivo e obbiettivo coesistono: la prima forma è d’origine colta, la seconda d’origine popolare. Ho l’impressione che, esistendo due forme, ciascuna tenda a specializzarsi (è un fatto normale in qualunque lingua: vedi a es. vezzo e vizio, caso classico): mi pare che quello della macchina fotografica, o quello da raggiungere, sia più spesso un obiettivo; mentre la virtù del buon giornalista sia pur sempre, anche in era di postverità, il saper essere obbiettivo. Ma sono oscillazioni.
Quasi tutti scrivono “di fronte” (a qualcosa), Aldo Palazzeschi per tutta la vita ha scritto “difronte”. Non sbagliava. Quasi tutti scrivono “ha a che vedere” (con qualcosa), Alessandro Manzoni nei Promessi sposi ha sempre scritto, con l’intenzione di ammorbidire il francesismo, “ha che vedere”: aveva tutt’altro che torto, ma l’uso è re (però se volete manzonizzare o manzoneggiare – cosa è meglio? -, nessuno potrà darvi torto).
Trattandosi di non-errori, nessuna terapia. Ma una profilassi sì: quando trovate in uno scrittore di quelli buoni una forma che vi perplime, controllate sul dizionario: potreste decidere di inserirla nel vostro repertorio.
3. Vi ha fatto venire un colpo al cuore, quel perplime? Suvvia: non poche parole inventate per gioco (o per fare effetto lì per lì) sono diventate d’uso comune. Pensate alla testa, che in latino significa “pentola di coccio”: a forza di chiamare testa, per gioco, il caput, abbiamo finito per scordarci il gioco di parole (abbiamo fatto una bella catacrési, sapevàtelo): tra qualche generazione, forse quella cosa lì che abbiamo in cima al corpo si chiamerà serissimamente zucca, e morta là.
Più triste è il caso delle parole che vengono inventate malamente, in tutta serietà e senza intenzione giocosa: come il sermpreverde (ma di un verde vomito) redarre, inesistente infinito di quel verbo il cui infinito è in realtà redigere; e poi tutti quegli ampliamenti a forza di suffissi: da vedere si fa visione, da visione si fa visionare, e si finisce col visionare qualcosa che si potrebbe più semplicemente vedere (e, spesso, più propriamente, leggere); vedi anche rivedere, revisione, revisionare.
Terapia: ancora, consultare il dizionario più che si può. Profilassi: cercate di avere ben chiaro il tono del vostro discorso, o più esattamente il suo registro linguistico; certi abusi si possono ben fare per gioco, o per voluttà espressiva, o per rendere indimenticabile (memorabile, dicono anglofilmente i pubblicitari) ciò che dite o scrivete; ma dovete essere sicuri di non rendervi invece ridicoli.
4. Il museo degli orrori si arricchisce se si comincia a badare agli adattamenti inutili di parole non italiane: se si può qualche modo (ma, ahimè, in quale modo, di preciso?) sopportare l’implementare nel significato di “collegare, far funzionare insieme, integrare”, eccetera, perché è parola in fondo latina, e nell’uso ha effettivamente delle sfumature tutte sue, e in certi casi è oggettivamente più spiccia di altre formule, non si può però in nessun modo salvare il brifare, lo suicciare, lo sciftare, e compagnia cantante (quel “si può”, badate bene, è impersonale); né si capisce perché da qualche anno i cari vecchi titoli siano diventati bond, né perché il differenziale sia diventato spread.
Terapia: per una settimana, usate solo parole delle quali conoscete il senso. Profilassi: quando in televisione, in un qualche spettacolo di chiacchiera (in italiano: talk-show), appare un economista, andate a farvi un giro. Magari scendete in gelateria, visto che è arrivato il caldo.
5. Il bimbo che dice: “Quel film lì mi ha fatto paurissima”, vi fa sorridere ma non vi fa venire voglia di correggerlo. Ebbene: a volte la lingua ha le sue stranezze, spesso però solo apparenti. Il sostantivo generalissimo sembra un mostro morfologico, poiché i sostantivi non hanno superlativo; ma si tratta della sostantivazione di una formula del tipo capitano generalissimo, così come generale viene da capitano generale; ed esiste in italiano da un bel pezzo (l’ho trovata in scrittori del Settecento come Pietro Giannone, è accreditata in dizionari dell’Ottocento, fu rispolverata durante la Grande Guerra per Cadorna, ec.). Probabilmente viene dallo spagnolo, ma in italiano sta benissimo (ed esiste anche in francese). Ed è del tutto naturale che, per dire, un generalissimo faccia paurissima. (In realtà, paurissima si trova in almeno tredicimila pagine del web italiano: e non è poco, benché non possa reggere il confronto con epicondilite, che si trova in più di duecentomila).
Terapie: non scandalizzatevi a forza, quando invece vi vien da sorridere. Profilassi: parlate più che potete con bambini piccoli, il loro uso ingenuo (ingenuo, per carità: non “creativo”) della morfologia può svelarvi possibilità della lingua alla quale non pensavate da cin… quaran… tren… da qualche anno.
6. Molti errori nascono da troppa volontà di parlar fino. Nel mio dialetto (una delle forme del dialetto veneto) la doppia “l” spesso salta: si dice bèo per bello, osèo per uccello, e così via. E si narra di quell’esponente del Partito Comunista Italiano, cittadino clodiense (o chioggiotto: di Chioggia, insomma) che, per invitare i concittadini a formare un corteo, li invitò a formare un cortello.
Scherzi a parte, le espressioni nobilitanti sbagliate o impropriamente usate sono sempre ritenute un segnale di scarsa istruzione (e la scarsa istruzione vien spesso classisticamente confusa con la scarsa intelligenza): prestate dunque attenzione. “Passami il sale” va benissimo, non serve dire “Porgimi il sale”. Se non siete toscani, la luce dovete sempre spegnerla: mai spengerla (perfino Manzoni, anche dopo la risciacquatura in Arno, la spegneva). Se poi le parole usate per abbellimento sono in realtà non parole belle, ma parole usate come abbellimeno da conduttori televisivi o simili (vedi l’aggettivo variegato, che è la parola preferita di Paolo Bonolis), il pericolo di apparire grezzi quando si vuole apparire fini è forte.
Terapia: ripetetevi ogni giorno, la mattina davanti allo specchio: “La chiarezza e la precisione sono importanti, l’ornamento non è importante”. Profilassi: leggete, di tanto in tanto, qualche pagina d’un manuale di geometria. Quello della scuola va benissimo.
7. L’errore più grave è: non dire nulla. Ecco un esempio, tratto da una lettera di un editore a un autore: “Fermo restando che i Suoi interessi poetici si dirigono verso scelte di valore universale e verso la creazione di un orizzonte d’ascolto, verso un pubblico da orientare e persuadere, la validità dell’opera consiste nel riuscito tentativo di scrivere anche per un pubblico non dotto e non addestrato alla poesia senza cadere nella trappola della volgarizzazione, senza tradire né l’imperativo della Musa né la natura universale ma anche politica e sociale dei problemi affrontati”. Potete spremerla o frullarla, ma questa frase alla fin fine non dice nulla.
Terapia: sembra che non ce ne siano, purtroppo. Profilassi: abituatevi a dire qualunque cosa vogliate dire nel minor numero possibile di parole; dopo che l’avrete fatto, riassumete.
8. La, punteggiatura non può: essere messa a – caso. E ho detto, tutto;
9. L’errore più grande è: fare pubblicamente ciò che non ci si è abbastanza esercitati a fare privatamente. Chiunque faccia sport lo sa. A entrare in campo senza riscaldamento, ci si rompe (la virgola dopo “riscaldamento” ha funzione espressiva).
10. Leggo molti testi pieni di errori. Ma non ha molta importanza. Un testo può essere pieno di errori, e tali errori possono essere dovuti alle più svariate ragioni: ma ci sono testi sugli errori dei quali vale la pena spendere del tempo, e testi sugli errori dei quali non vale la pena spendere del tempo. Il punto non è la presenza o assenza di errori ma la forza e la coerenza dell’immaginario che il testo contiene. Un testo che ha un immaginario forte e coerente già non è più un mero testo: è un’opera. Magari un’opera scarsotta, magari un’opera debole, magari un’opera che non ci si arrischia a pubblicare, ma: un’opera. E se c’è un’opera, vale la pena di provare a ragionarci su.
Ma, se l’opera non c’è, non vale la pena.
16 Maggio 2017 alle 17:55
Che bello l’amore per la lingua scritta, troppo spesso sottovalutato.
16 Maggio 2017 alle 18:43
Leggendo le riviste che con un modico aggravio sul prezzo Repubblica mi elargisce ogni settimana rimango spesso colpita dal lessico di alcune illustri rubrichiste. Natalia Aspesi usa volentieri la parola “sperdimento” per indicare lo stato di grazia e di totale irrazionalità in cui si trova chi è innamorato. Claudia De Lillo alias Elasti ha una predilezione per l’aggettivo “malmostoso” che usa molto spesso per indicare l’umore torvo del suo figlio primogenito o suo proprio, ai tempi dell’adolescenza. Sono due parole che io, in 62 anni di vita, in circa 56 anni di pratica della scrittura, credo di non aver usato una sola volta, a parte ora, in questo post. E che molto raramente ho incontrato nelle mie letture, salvo che negli scritti di queste due signore. (A proposito del punto 6 della parola “variegato” prediletta da Paolo Bonolis)
Mi scuso per l’uso delle virgolette, ma non so come fare il corsivo…
16 Maggio 2017 alle 20:43
Brifare, suicciare e sciftare non li avevo ancora sentiti, eppure lavoro nel campo dell’informatica da un po’. Di solito invece mi scontro con un utilizzo spropositato di acronimi o brevi frasi inglesi, per darsi un tono, tipo: “questo è un must have!” oppure “mi serve asap!” (as soon as possible), ancora “te lo giro fyi” (for your information). Che se posso capirlo nello scritto quale mancanza di tempo, non riesco a capirlo nel parlato. E di solito reagisco con un “parla potabile!” (per trattenermi dal dire “parla come magni!”…che magari c’è pure da avere paura del loro galateo a tavola)
17 Maggio 2017 alle 10:54
questo articolo mi piaceressi moltissimissimo. Virgola, punto e punto e virgola. 🙂
17 Maggio 2017 alle 13:58
Ultimamente mi piace tutto quello che scrivi, sono preoccupato.
17 Maggio 2017 alle 14:13
“Ti briffo”, espressione resa celebre alcuni anni fa da Nicole Minetti, regista delle famose “cene eleganti” berlusconiane.
17 Maggio 2017 alle 14:23
Presto scriverò qualcosa di disgustoso, Sergio.
18 Maggio 2017 alle 07:18
rossana v. quantoèbellissimissimoesserd’accordissimocontepuntoesclamativissimoeaggiungereipuntinipuntinidesiderarel’errorecomesegnodinonallineamentovirgolaGiuliopuntooduepuntisevuoiGiulio
18 Maggio 2017 alle 07:20
A tutti: ma perché non va a capo anche se è un’unica parola, ‘sto riquardo, eh?
18 Maggio 2017 alle 21:57
Eh, le cose non sono così semplici. “Bond” e “titolo” hanno sì lo stesso significato originario, ma nell’uso odierno bond corrisponde all’italiano obbligazione. Titolo ha un campo semantico più ampio: oltre alle obbligazioni sono titoli di credito, ad esempio, anche azioni ed assegni.
“Differenziale” nel senso di “spread” soffre da tempo dell’omonimia coi differenziali dell’analisi matematica, e personalmente preferisco un anglicismo all’abuso di normenclatura.
19 Maggio 2017 alle 10:02
Mi piace “normenclatura”.
19 Maggio 2017 alle 13:43
Avrei tanto desiderato poter dire che era voluto…
19 Maggio 2017 alle 19:06
Nell’immagine un classico errore fatto apposta da chi avrebbe voluto lavorare alle potse.
21 Maggio 2017 alle 05:50
Giusto, P.O. Avrei dovuto contrapporre “bond” e “obbligazione”.
(Mi ricordo ancora di quando mio padre andava in banca, tirava fuori dei gran fogli della cassetta di sicurezza, e con la forbiciona ritagliava le cedole delle obbligazioni dell’Enel).
25 Maggio 2017 alle 23:50
Attenzionare, sentito anche oggi in tv, non lo sopporto. Non mi soffermo nemmeno a pensare se sia corretto o no, tanta è la sua bruttezza.
4 giugno 2017 alle 18:40
Come sempre, molto interessante e lieve!
9 giugno 2017 alle 15:25
A proposito, sono venuta a conoscenza l’altro giorno della legge di Muphry [sic]. Da Wikipedia (purtroppo non c’è la voce in italiano):
10 giugno 2017 alle 06:17
Chi la fa l’aspetti, si diceva una volta, cara P.O.