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Una premessa d’obbligo. Non sono un grande videogiocatore e le mie considerazioni qui sono solo approssimazioni, ragionamenti su quel poco che so, e non intendono essere in alcun modo esaustive, solo dare uno spunto in più alla discussione. I videogiochi mi piacciono, ci sono cresciuto, ci gioco ancora ogni tanto, ma sono sicuro che c’è gente molto più preparata di me sull’argomento e che saprebbe argomentare meglio e arricchire ancora di più la discussione.
Detto questo, parto di nuovo dalla domanda, così come formulata da Giulio Mozzi: perché alla letteratura si chiede semplificazione e, invece, a film, serie tv e videogiochi si chiede sempre più complicazione?
Dato che, come ho detto, la mia conoscenza del mondo dei videogiochi è parziale, dico già da ora che la mia riflessione riguarderà un ambito (o, se si vuole, un genere) in particolare, quello delle avventure grafiche, e i suoi derivati (tra l’altro, le stesse avventure grafiche sono un derivato di quelle che una volta erano le avventure testuali), che comunque sono i videogiochi “narrativi” per eccellenza.
Verso la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta erano tra i videogiochi più venduti al mondo. Addirittura, George Lucas (il papà di Star Wars e Indiana Jones) fondò, da una costola della LucasFilm, uno studio (che all’inizio mantenne il nome della casa madre e poi cambiò nome in LucasArts) dedicato completamente alla produzione di videogiochi. C’era qualche sparatutto ispirato a Star Wars, ma soprattutto c’erano le avventure grafiche.
The Secret Of Monkey Island e il suo seguito furono un successo di vendite enorme, parliamo di milioni di copie. Non c’erano comunque solo i giochi della LucasArts, ce n’erano tanti altri, tutti i giochi della Sierra (la prima avventura grafica della storia, Mystery House, è stata creata da Roberta Williams, che poi ha fondato la Sierra On-line assieme al marito), ad esempio, o Broken Sword e altri ancora.
Verso la metà degli anni Novanta il genere andò sempre più in calando fino quasi a scomparire. Per diversi motivi, ovviamente. Erano giochi molto lunghi (preciso che la longevità in ore di un titolo è, solitamente, uno dei criteri che le riviste specializzate adottano per il giudizio complessivo di un gioco), con una grafica che ormai aveva dato tutto e che non è stata capace di reggere all’avvento dei giochi nuovi, delle nuove e potenti piattaforme (Playstation e Xbox), della grafica in 3D che apriva nuovi scenari e nuove possibilità, e in generale da un pubblico cambiato, non più disposto a passare quindici o venti ore davanti a un gioco di quel tipo, e da un’industria che chiedeva altro e non era più disposta ad investire in un genere che non tirava più, per dir così.
Cosa è successo dopo:
Negli ultimi anni, soprattutto grazie al lavoro di sviluppatori indipendenti (e questo proposito rimando alla voce Videogioco indipendente di Wikipedia e mi permetto di consigliare il documentario Indie Game: The Movie, una delle cose più belle sulla creatività che abbia mai visto); dicevo, grazie al lavoro degli sviluppatori indie il genere è tornato a nuova vita, da una parte evolvendosi, dall’altra trovando nuove vie di produzione.
Evoluzione:
Ho citato all’inizio i derivati delle avventure grafiche. Senza andare a citarli proprio tutti, prenderei come esempi i walking simulator (videogiochi in prima persona nei quali, in sostanza, si cammina e si fa poco altro; la storia, detto brutalmente, viene subita dal giocatore, in maniera più o meno evidente a seconda dei singoli casi) e le avventure Telltale (i Telltale sono uno studio di sviluppo, ma ormai il loro tipo di gioco è diventato così peculiare da essere diventati anche una definizione).
Prenderò d’esempio proprio i Telltale e quello che hanno fatto all’interno dell’ambito avventure grafiche/produzione. Hanno, sostanzialmente, sdoganato una versione molto semplificata e più appetibile delle avventure grafiche di una volta. Lo hanno fatto lentamente, passando prima per derivati che assomigliavano più al genere di partenza (tanto che hanno anche comprato le licenze per produrre i seguiti di Sam and Max e di Monkey Island, tra i titoli di punta della ormai defunta LucasArts) per arrivare poi a una sorta di ibrido.
Per trovare più pubblico, sono andati incontro a una doppia formula di semplificazione: da una parte la serializzazione del prodotto (i videogiochi sono divisi in stagioni, proprio come le serie tv), dall’altra l’estrema semplificazione, appunto, delle meccaniche di gioco. Il personaggio viene controllato attraverso il mouse (o il joypad, a seconda dei gusti), in un modo simile a quello dei vecchi giochi, ma l’interazione con l’ambiente non è altrettanto “libera”, non ci sono azioni particolari da eseguire (se non andare da A a B), non c’è inventario, insomma, non c’è tutto quello che faceva dell’avventura grafica una sfida. Per dirla in altro modo, tutto scorre su un binario così tanto evidente che la sfida, in breve, non esiste.
Non solo, si sono appoggiati a brand già sperimentati e collaudati in altri media (The Walking Dead, Batman, Game of Thrones, I guardiani della galassia, il fumetto Fables ecc.). Ogni episodio non porta via più di due o tre ore, la sfida videoludica è praticamente assente (tu non devi far nulla, solo seguire la trama), ma anche qui, mi pare giusto precisarlo, si è introdotto uno stratagemma per non rendere del tutto piatta l’esperienza di gioco: la possibilità, cioè, di influenzare la trama stessa attraverso le scelte. Uno stratagemma, questo, che di per sé non aggiunge difficoltà, ma permette la rigiocabilità del titolo (uno dei parametri attraverso cui si valuta un videogioco) di modo da scoprire così i diversi finali.
Ecco, questa è l’evoluzione di un genere, o una delle sue evoluzioni. Le avventure Telltale hanno avuto successo, almeno quanto basta allo studio per continuare a sopravvivere e produrre nuovi giochi (belli o brutti che siano non importa, qui non sto facendo un discorso di valore). Certo, non vendono quanto Assassin’s Creed, Fallout o altri (senza citare i giochi sportivi), ma sopravvivono. E per farlo, e rimanere comunque una fetta marginale del mercato, hanno dovuto trovare una formula di molto semplificata, un’evoluzione, certo, ma pur sempre, anche, una semplificazione.
Nuove vie:
Ho detto prima che molto della rinascita del genere è dovuto anche al lavoro degli sviluppatori indipendenti. Questo è successo, sostanzialmente, perché l’avvento di portali di vendita digitale (come Steam) e l’accesso più facile agli strumenti per creare un videogioco (ad esempio A.G.S., che sta per adventure game studio, è un software libero e gratuito) ha permesso a piccoli team (addirittura alle volte da persone singole) di sviluppare un’idea in proprio senza essere legato alle costrizioni di un editore e, allo stesso tempo, di vendere il prodotto da sé.
A questo si aggiunga anche che molte, moltissime produzioni hanno beneficiato del crowdfunding (esempio, Broken Age di Tim Schafer, ex LucasArts, o il bellissimo The Last Door). Per dire, è proprio del 30 marzo scorso l’uscita di un gioco, Thimbleweed Park, che ha segnato il ritorno alle avventure grafiche di Ron Gilbert, il papà del Monkey Island citato prima, e per quel che mi riguarda uno degli uomini che con le sue opere hanno più influenzato il mio immaginario. E questo è stato possibile proprio grazie al crowdfunding, permettendo a Gilbert di lavorare come indipendente.
Ecco, quindi, tutto questo ha permesso di ritornare a fare avventure grafiche “di una volta”, per così dire. Ne è stata recuperata la difficoltà (non in tutti i casi, ovviamente, ma come linea generale sì), sono ritornate le vecchie meccaniche di gioco, anche la grafica è tornata quella dei classici (la pixel art ha, nel frattempo, raggiunto vette incredibili). Insomma, sono tornate le vecchie avventure grafiche. Anche aggiornate, certo, sviluppando anzi una maturità nella narrazione che a quelle d’altri tempi mancava.
Quindi, sì, un genere complesso, difficile per gli standard di oggi, è ritornato. Pur rimanendo un prodotto (sempre bene precisarlo) marginale a livello di vendite, è tornato. Ma non lo ha fatto perché un’industria ha chiesto il ritorno di questo genere, lo ha fatto perché è stato creato, diciamo così, un canale alternativo che lo ha reso possibile.
Ho parlato solo di avventure grafiche perché, l’ho già detto, è la cosa che conosco un po’ meglio. Ma questo dicorso, e qui vado per approssimazione, mi pare valga per molte altre tipologie di videogiochi e per il mercato del videogioco in generale. Facendo un giro su Steam ci si rende conto che le produzioni indipendenti sono tantissime, delle più varie, e che si riesca sempre di più a produrre opere complesse senza necessariamente scendere a compromessi con gli editori, ma, ed è bene dirlo ancora e ancora, sono produzioni che non hanno l’impatto economico, multipiattaforma, che possono avere super-produzioni come, che so, Fallout o Assassin’s Creed.
Mi pare quindi che, in conclusione, si parli di un mercato a parte, con delle particolarità che non possono essere tradotte così come sono in quello editoriale (del quale, per altro, so ancora meno di quello videoludico).
Quello che ho cercato di fare, è stato solo mostrare che anche in questo caso non è che si sia chiesta complicazione a un medium narrativo, semplicemente si è riusciti a trovare una strada (fatta di semplificazione da una parte e da nuove forme di produzione dall’altra) che permette la sopravvivenza, la distribuzione e quindi la fruizione di opere complesse al di fuori di un circuito da grandi produzioni.
Rimane, comunque, un appunto aperto e parziale perché si riferisce solo a un genere e una tipologia di videogioco specifica.
Tag: Edoardo Zambelli, George Lucas, Roberta Williams, Ron Gilbert, Tim Schafer
20 aprile 2017 alle 09:22
Senti Edoardo io sono un fortissimo gamer, molto appassionato e non capisco cosa intendi per gioco difficile o complesso in merito alle avventure grafiche. Sono la semplicità fatta videogame. Intendiamoci, semplice NON vuol dire banale. To the moon è un capolavoro ma non è diffcile. Tanto è più vero che tra le etichette di Steam per le avventure grafiche non vedrai mai la difficoltà Oltretutto sono un genere anche assai particolare visto che hanno una rigiocabilità pari a zero e quindi la durata dell’avventura assume un significato particolare. Un gioco come Dominions, per capirci, avrà una durata di un paio di ora, ma una rigiocabilità quasi infinita. Qui la durata non è importante, ma la difficoltà si!
Parlare di facile o difficile con le avventure grafiche mi sembra improprio. E’ come dire che voglio un bicchiere d’acqua lungo.
L’unica difficoltà è quella degli enigmi, quando presenti, ma fanno il paio con i libri gialli: non è la difficoltà dell’enigma che da conto del valora dell’opera.
Ora, io capisco che chi proviene dal mondo delle lettere quando si avvicina ai videogame si interessi alle avventure grafiche, ma io in vibrisse ho visto parlare SOLO di queste.
Ma è come giudicare TUTTO il cinema dopo aver visto SOLO i film disney. Positiva o negativa che sia l’impressione è comunque parziale.
Comunque, grazie. Non sono d’accordo con quanto hai scritto ma è stato un piacere leggerti:)
20 aprile 2017 alle 09:54
“ Martedì 3 luglio 2001 – « Invece, Walt Disney detestava i gatti. Soltanto nel 1970 si decise a creare un personaggio che, naturalmente, non gli portò successo né denaro. Disney era una di quelle persone che non si fanno mai voler bene dai gatti. Credo che sia stato Chandler a dirlo. Non so se nella biografia del detective Marlowe o nella propria. » (Osvaldo Soriano, Metti un gatto nel romanzo, in «La Repubblica», oggi) “. [*]
[*] Lsds / 73…
20 aprile 2017 alle 10:13
Ciao Andrea, intanto grazie per aver letto e aver detto la tua. Parto dicendoti che credo tu abbia ragione quando dici che esistono generi molto più difficili delle avventure grafiche. E credo di aver generato io un po’ di confusione quando ho parlato di “genere difficile”.
Provo a rimediare.
Intanto una precisazione. Non provengo dal mondo delle lettere e ai videogiochi (quel tipo di videogiochi) mi ci sono avvicinato che avevo, credo, dieci o undici anni.
Ora, ci ho tenuto a precisare la parzialità delle mie considerazioni proprio perché sono consapevole che esistono persone molto più competenti di me in materia, e quindi di qui il parlare solo delle avventure grafiche.
Credo che tu, con il tuo intervento, abbia anche confermato (almeno in parte) ciò che dicevo. Hai parlato di To the moon (d’accordo con te, è bellissimo). Ma To the moon è appunto il prodotto di ciò di cui ho parlato io.
Ovvero, e qui riprendo la mia classificazione:
Evoluzione/semplificazione: infatti è sì una variante delle avventure grafiche di una volta, ma con una veste tutta semplificata. Meccaniche di gioco semplicissime, enigmi assenti, durata di poche ore.
Nuove vie: è stato realizzato da indipendenti, grazie anche alle possibilità offerte da nuovi software (non sono sicuro, ma credo sia fatto con RPG maker o qualcosa di simile), e venduto poi grazie al mercato digitale.
Esistono comunque (mi permetto di far notare) avventure grafiche molto più complesse (anche solo in termini di difficoltà, e comunque non necessariamente più belli o riusciti) rispetto, appunto a To the moon. Faccio esempi a caso Shardlight, Gemini Rue, Dead Synchronicity per citare i “nuovi”, e andando indietro Zak McKracken, Maniac Mansion, Monkey Island, Broken Sword ecc.
Il mio intento, spero di chiarirlo ora, non era eleggere le avventure grafiche a prodotto difficile, complesso e elitario per eccellenza (perché hai ragione tu, lo ripeto, ci sono generi molto più difficili). Ma mostrare, anche in riferimento a un solo genere, che certe dinamiche di semplificazione e complicazione, riguardano anche i videogiochi (così come il cinema e la letteratura, secondo me).
E la speranza dichiarata (ma forse non abbastanza) era appunto che arrivassero persone che arricchissero la discussione, mostrando altri lati della faccenda. Insomma, proprio quello che hai fatto tu. E di questo, ancora, grazie. Il piacere di leggerti è stato mio. 🙂
20 aprile 2017 alle 10:22
Grazie per il contributo, Andrea. Edoardo – Lo dice in premessa – non pretende di saperla lunga (e io meno ancora). Questo articoli sono anche dei tentativi di incrociare qualcuno che ci permetta di approfondire.
20 aprile 2017 alle 12:53
Ciao Edoardo. E’ un piacere ragionare con qualcuno di videogame.
In realtà sei stato chiarissimo, solo che ho le mie idee in tema di semplificazione/difficoltà e temo che potrebbero urtare la suscettibilità di qualcuno, per questo ho limitato e limito la mia risposta al mondo dei videogame.
Non riesco a considerare valida la categoria del semplice/difficile o basso/alto. Non voglio sembrare offensivo, non mi riferisco a te, ma credo che spesso questa categorizzazione sia solo un modo per nascondere idee confuse e faziosità.
Ti faccio due esempi per capirci. Mordheim city of the damned e World of Warcraft (wow da ora) della blizzard.
Per quello che ne so, la categoria dei bimbiminkia è nata del mondo dei videogame ed in particolare io l’ho letta per prima appioppata al “tipico” giocatore di wow.
Quando nacque – ed ebbe il successo che ebbe – wow fu accusato di aver semplificato e banalizzato un genere – glorioso e dalle storiche regole! – trasformandolo in una banalità da bimbiminkia brucellosi e decerebrati. Il genere era quello dei mmporg, ovvero i giochi di ruolo online.
In realtà, non è mai stato questo gran vero. Io a quei tempi ero su everquest e una MONTAGNA di difficoltà erano, per così dire, indotte. Ti davano una quest, zero indizi e fatti tuoi capire che fare. Su cento 99 fallivano uno ci riusciva e di li partiva il passa parola. Ed era tutto così. Per trainare la skill *armi singole* dovevi infilzare cento oche con lo spiedo di pollo fatto dall’artigiano goblin in una notte di luna piena sulle pendici del monte Ciofeca ma nessuno te lo diceva. Si andava a culo e poi via di passa parola.
Tutto questo finì con wow. Alla blizzard la quest aveva una pagina di diario dedicata, sulla mappa era segnato dove eri e dove saresti dovuto andare e l’artigiano goblin aveva un ditone sulla testa che diventava verde al momento opportuno. Preso il tuo infilza polli andavi sul punto della mappa dove erano le oche e giù a punzecchiarle: un conto alla rovescia ti diceva quanto mancava al livello successivo. Tutto molto semplice, easy e a prova di ebete (cioè l’utente tipo di wow secondo gli altri gamers). Zero fatica, zero sudore e polemiche al calor bianco per questo giochillo da idioti. Wow non è un mmporg perché i mmporg sono sangue, sudore e lacrime. Ah, i bei tempi andati quando per giocare ad *nome di un mmporg antecedente a wow a caso* occorreva dedizione, impegno e intuito. E così via.
Bene. Ricordi leeroy jenkins? Tanto era semplice wow che alcuni dungeon – luoghi chiusi pieni di mostri badass e con regali favolosi – non si riuscivano a fare. Per farli occorreva:
1- Uno studio accurato del dungeon;
2- Elaborazione di una corretta procedura;
3- Il numero giusto di partecipanti, con un livello – allenamento – adeguato con il corretto equipaggiamento;
4- La perfetta applicazione della procedura del punto due;
5- Minimo 5 o 6 ore di lavoro!
Ti sembra semplice? A me no, manco un poco. Eppure questa gente è stata accusata di amare le cose facili! E wow ha la fama di aver banalizzato il mondo dei videogame. Manco Totò è stato accusato di tanta nefandezza!
Ora, io non so come funziona la cosa nel mondo della letteratura, ma per quello che mi riguarda nel mondo dei videogame la categoria del facile e/o difficile è insensata. Comprendo bene il fondo di verità del tuo ragionamento, in parte lo penso anche io, ma credo non sia il segno di una tendenza alla semplificazione, quanto il segno di una tendenza alla articolazione e segmentazione del mercato dei videogame (che è cresciuto in modo esponenziale).
Non è vero che i videogame si stanno semplificando, è vero che ci sono molti più videogame semplici. L’offerta si è ampliata.
Anni fa Giulio scrisse una cosa del tipo: “Non mi interessano le risposte perché penso che non abbiamo le giuste domande”: credo sia una delle cose più intelligenti è giuste che abbia letto negli ultimi 50 anni. (Giulio vado a memoria, correggimi se sbaglio ma non i chiedere di citare il post!).
Credo che Giulio abbia ragione ancora oggi: le risposte sono sbagliate perché ci facciamo domande sbagliate.
E’ più complesso Zork grande inquisitore o Gemini Rue? Forse Gemini, ma anche no. Insomma, non lo so. Non mi sono mai impigliato in nessuno dei due.
Mah, ho scritto una montagna e non ho ancora finito. Magari continuo dopo
20 aprile 2017 alle 13:38
Grim Fandango è l’Ulisse dei Punta e Clicca.
20 aprile 2017 alle 14:49
Ciao Andrea, ti ringrazio anche per questo intervento. Tanto più che mi sembri un videogiocatore “totale”, nel senso di non vincolato a un solo genere (come lo sono io, ad esempio, almeno in buona parte), e anche molto più preparato di me sull’argomento.
D’accordissimo sulla questione alto/basso, la penso come te. Ci tengo anche a precisare (non perché tu lo abbia messo in dubbio o altro, eh, ma solo perché a me va di dirlo) che considero i videogiochi opere che meritano tranquillamente di essere considerate arte.
Su complessità/semplicità non lo so. Diciamo che sospetto l’esistenza di una possibile distinzione di questo tipo, ma conversazioni come questa mi fanno capire di volta in volta che le cose non stanno proprio come le immaginavo io.
E infatti, tu mi hai appena mostrato che il ragionamento da me fatto sulle avventure grafiche può non valere (o almeno non del tutto) per altri generi e quindi, a maggior ragione, per l’intero mondo videoludico.
Ora eviterò di inoltrarmi oltre in generi, nomi di giochi e via così, ma solo perché potrebbe essere un pochino respingente per altri lettori che, magari, non avendo dimestichezza col medium videogioco finirebbero per annoiarsi.
Mi pare che da questo breve scambio di vedute emergano però delle cose che, nel mettere un po’ di ordine, mi pare utile rilevare:
1. Il mercato dei videogiochi è un mercato a parte, necessariamente diverso da quello editoriale e con meccaniche, diciamo così, tutte sue.
Mi sono anche dimenticato di dire che esiste spesso un rapporto sviluppatore-giocatore molto più “personale” che non in altri ambiti (dovuto anche, appunto, alla diffusione digitale del prodotto). Capita infatti che attraverso le pagine di Steam i giocatori facciano presente agli sviluppatori eventuali errori, bug, difetti ecc. Che sembra niente, ma a ben guardare è un modo per far sì che il giocatore possa aiutare lo sviluppatore a migliorare il prodotto sotto ogni aspetto.
2. A videogiochi diversi (quanto a generi) corrispondono mercati, sviluppi, tipologie di semplificazione (o complicazione, a seconda dei casi) diversi. E questo, magari, potrebbe valere anche per la letteratura.
3. Nel fare un discorso che comprenda tutto (letteratura, cinema, serie, film) si va incontro a generalizzazioni che lasciano il tempo che trovano, tanto nel particolare (come la mia sulle avventure grafiche) quanto nel generale (la discussione “a tutti i medium narrativi si chiede questo, alla letteratura quest’altro”).
Ultimo punto, questo, che poi era il succo del mio discorso fin dall’intervento precedente. E cioè: una generalizzazione di questo tipo mi sembra non vera.
Più di questo non dico, né mi azzardo a trarre conclusioni perché non ho la preparazione e la competenza per farlo, in nessuno degli ambiti citati.
Andrea, grazie ancora.
@gian marco griffi: Grim Fandango è bellissimo. Ma il mio cuore resta a Monkey Island (1 e 2). Proprio ieri è uscita anche la versione remastered di Full Throttle, altro gioco fanstastico.
20 aprile 2017 alle 14:54
Adesso scrivo di qualcosa che non so (come mi scrisse una volta un amico).
Io non gioco ai videogiochi. Ci ho giocato da giovane giovane, quando del PC che avevo comperato al posto del motorino, avevo 14 anni (quindi oltre trent’anni or sono) non sapevo che cosa farmene. Alle medie, al posto di cucina o dattilografia (materie riservate alle “femmine”) avevo scelto informatica che era appena stata introdotta ed era strettamente riservata ai “maschi”: due anni divertenti a imparare e “giocare” con il linguaggio Dos. Così con il mio bel Commodore 128 (che ho ancora in soffitta) mi sono sbizzarrita a giocare ai primissimi giochi esistenti. Ricordo un Clouseau che attraverso una mappa e delle carte e non so cosa dovevi scoprire l’arma dell’omicidio e l’assassino e la stanza in cui l’omicidio era avvenuto. Poi c’era il tennis composto da una riga, due lineette e un puntino spesso, il tutto giallo-verde fluorescente su sfondo nero.
Poi mi sono ritrovata vent’anni dopo a fare dei giochi sulla prima PS per tenere compagnia a due bambini in preadolescenza. Da allora più niente. Mio fratello invece da quando giocava con me non ha praticamente mai smesso. In compenso lui non legge quasi niente
Allora l’ho chiamato, gli ho spiegato che c’è un confronto in atto con la letteratura e gli ho chiesto: senti, dai tempi, negli anni, secondo te sono diventanti più difficili i giochi? Così, zero cento.
La prima cosa che mi ha risposto è stata una cosa del tipo: “sotto il profilo della creazione ci sono giochi dove sono coinvolte anche 100/200 persone per 2 o 3 anni per realizzarli: quindi sì, evidentemente a confronto di un solo autore che ci lavora anche per anni, per fare un gioco serve molto di più: è più difficile farlo.”
Allora gli ho spiegato che mi sarebbe piaciuto capire se è difficile non realizzare un gioco o un libro, ma fruirne, giocarci – rispettivamente leggerlo.
Mi ha risposto circa così: “Potrei dirti che se metti un bambino o ragazzo di 13/14 anni (ma persino tu) davanti a un qualsiasi videogioco lo saprà gestire in brevissimo tempo, se lo metti davanti a un libro più strutturato con parole a lui incomprensibili sarà più probabilmente buio totale. Se da una parte per i videogiochi sono disponibili comunque sempre delle istruzioni comprensibilissime, dall’altra un dizionario non ti potrebbe spiegare concetti elaborati”.
Ma rispetto al passato? “Dipende che cosa intendi per difficile: una volta riuscivi a fare poco, graficamente potevi ad esempio camminare solo sulla via che ti veniva indicata e semmai scegliere a una biforcazione. Ora puoi muoverti ovunque, salire su una collina per guardare la situazione, ma anche perderti. Più facile muoversi e agire = più possibilità di sbagliare e renderti da solo il gioco difficile. Però se il gioco è un labirinto, il minimo che mi aspetto è di sbagliare strada e incontrare mille difficoltà per raggiungere il centro: questa “difficoltà” non è di comprensione, ma del gioco in sé, per cui difficile = bello = divertente = lo voglio. È l’intrigo di un giallo, insomma. Ma un conto è leggere/giocare una storia intrigante, un conto è leggere/giocare una storia di difficile comprensione”.
Alla fine mi è venuto un sospetto: forse non viene richiesto un lavoro più “difficile” ai creatori di giochi per richiedere “giochi difficili”, ma perché più è complicata la realizzazione del prodotto stesso, più viene facilitata la comprensione di un gioco sempre più complesso (perché sta in questo il bello del gioco) ma “facile” da giocare. Circa eh. Traslando questa ipotesi – o finta conclusione – alla letteratura, potrei pensare che un editore potrebbe ritenersi soddisfatto se una bella narrazione articolata interessante ecc, ecc… riuscisse ad avere “anche” la forza di rendersi comprensibile e leggibile: mettendoci cioè più sforzo, non di meno. Cioè: libro bello ma facile da capire = più sforzo dello scrittore
20 aprile 2017 alle 15:08
Ma quando Andrea scrive: “Senti Edoardo io sono un fortissimo gamer, molto appassionato e non capisco cosa intendi per gioco difficile o complesso in merito alle avventure grafiche”
ecco qui c’è la prova di quello che sostengo io nel mio intervento in questa discussione. Se si dà una indicazione precisa di complesso/semplice si accende la miccia di una discussione potenzialmente infinita dove nessuno ha ragione e tutti potrebbero avere ragione.
20 aprile 2017 alle 15:25
@Ma.Ma. http://store.steampowered.com/app/370540/
Questo gioco è recente (2010) ed è presente un manuale, a mezza pagina sulla dx, (occhio alla connessione che sono 382 pagine).
Non è il più difficile del genere wargame, perchè Steam è tutto sommato una piattaforma popolare. In più è presente un manuale, una buona vecchia abitudine che si sta perdendo.
Se leggi il manuale, e fai il tutorial, in un paio di mesi puoi sfidare qualcuno. Perdendo malamente, certo, ma puoi affrontarlo.
Il manuale utente, o almeno il tutorial, di Oltre il giardino io non l’ho trovato. Però una settimana dopo averlo letto ne ho discusso su giliomozzi.com (perdendo piò o meno malamente, certo. Ma è colpa di Giulio che non ha messo il tutorial o almeno il manuale utenta)
In altro modo. Quel gioco che ti ho linkato senza un manuale utente o tutorial non riuscia mai a giocarlo. Giulio Mozzi è stato letto, ed apprezzato, senza l’obbligo di star li a spiegare come funzionava la cosa.
Detto questo, la frase di tuo fratello ben contestualizzata ha senso ed ha un fondo di verità, anche se sospetto ci sia stato qualche frainteso (comprensibile quando si discute di cose nuove).
20 aprile 2017 alle 15:33
“Quanto al tema del “post”, la complessità è un concetto che si può definire in molti modi e ognuno può scegliere la definizione che preferisce o rigettarle tutte e continuare a cercare.”
@marcocandida. Se ti riferisci a questo mi sembra assolutamente condivisibile. Ma non ti è scappato un “non”?
20 aprile 2017 alle 15:50
Andrea forse mio fratello sottovaluta anche la sua bravura e familiarità con i giochi 😉
Credo comunque si riferisse alla maggioranza dei giochi, non alle eccezioni (ha risposto in modo molto generico anche perché aveva bene idea che andare nel dettaglio con me non avrebbe avuto senso). E a me andava bene, perché penso che di eccezioni ce ne siano anche nella letteratura, mi sa.
Però: dici bene, io non ho idea, ero curiosa di sentire l’opinione a freddo di un giocatore accanito che non c’entrasse niente con il discorso e non avesse bisogno di dare ragione né a uno né ad altri e forse ho pure frainteso qualcosa.
20 aprile 2017 alle 19:15
“ Giovedì 20 aprile 2017 – « “ Baffi del gatto “ “ Vibrisse “ » (L’Eredità, Raiuno, ore 19.11) “. [*]
[*] Lsds / 73…
21 aprile 2017 alle 18:09
L’articolo è un ottimo spunto per una discussione interessante, perciò principalmente vi ringrazio per l’occasione.
Detto ciò, credo sia necessario operare delle distinzioni. Per quanto la componente narrativa sia molto importante nei videogiochi, non bisogna dimenticare qual è il suo fulcro principale, ciò che lo distingue da altri media (o altre forme d’arte, se vogliamo), e cioè il gameplay. Sono il primo a valutare un videogioco anche per la sua narrazione, per la sua grafica e per il design e compagnia cantante, ma il punto principale deve restare sempre – a mio avviso – la sua meccanica di gioco.
Partendo da questo presupposto, non credo si possa dire che i giochi si stanno semplificando. Anzi, l’esempio dei giochi indie è esemplificativo: titoli sviluppati da un team ristretto – o anche da una persona sola – non possono contare quasi mai su grafiche molto curate, e perciò fanno affidamento su storia e gameplay. Questo si può tradurre anche in un’inclinazione eccessiva verso uno dei due poli, come anche in una buona sintesi; resta però che se so scrivere buone storie ma non le so programmare bene, viene fuori un titolo che è poco più che una narrazione interattiva; se invece so programmare ma non so raccontare bene, allora punto tutto su un modo di gioco innovativo. Dal punto di vista della complessità del media, secondo me, si dovrà valutare con più attenzione il secondo caso – vale a dire che potenzialmente, in quanto videogioco, il secondo caso potrebbe introdurre più novità o cambiamenti, innovare o mantenere intatti certi tipi di gameplay, essere più “letterario” nel senso di “più immerso nell’evoluzione/conservazione delle forme di gameplay”.
Andando quindi alle avventure grafiche, e prendendo proprio l’esempio dei titoli Telltale, non so quanto si possa dire che si tratta di una semplificazione del genere delle avventure grafiche. Dal punto di vista del gameplay c’è stato un cambiamento (che credo si possa individuare nel focus su scelte in tempo reale, da fare velocemente, e nella direzione che si può dare alla storia – elementi già individuati proprio da Edoardo) che nel bene o nel male riprende il vecchio modo di giocare le avventure grafiche e lo cambia. Se prima infatti il quid del gioco era trovare indizi, combinarli e trovare una soluzione (penso al già citato “Grim Fandango”, ma anche al meraviglioso “The Dig”), adesso il fulcro della questione è ANCHE quello, modificato o combinato con altri elementi. Prendiamo un gioco come “The Room”, per Android e IOS: fondamentalmente si tratta sempre di trovare oggetti e risolvere enigmi, ma la componente tridimensionale – che pure è già presente in altri titoli – è come potenziata; devo letteralmente girare gli oggetti che trovo, aprirli usando le dita sul touchscreen, ruotarli e a volte scuotere il telefono per utilizzarli correttamente. In tutto ciò la storia c’è (accennata, sfumata, e molto intrigante), e certo contribuisce alla riuscita del videogioco: ma se non si *giocasse* in quel modo, con quelle modalità, il risultato complessivo sarebbe meno efficace.
Il fatto che i giochi siano più brevi purtroppo rientra nel discorso della serializzazione delle opere culturali – sodi semplificare, ma secondo me è notevole che fino a vent’anni fa si tendesse a trarre film dai libri, mentre ora si traggono serie televisive intere (ma so anche che ci sono esempi simili più vecchi, tipo gli sceneggiati RAI 😀 ) – e comunque non mi pare un motivo sufficiente per dire che tutto il media videoludico si sia semplificato. E’ la sua gestione, non il suo fulcro (ancora una volta: il gameplay) a poter essere, in certi casi, più banalizzato.
Spero di essere stato chiaro. Ho apprezzato molto l’onestà di Edoardo nello specificare che la sua analisi è legata ad un genere specifico, e perciò ho cercato di rimanere in quello stesso ambito 🙂
24 aprile 2017 alle 11:34
@Edoardo Zambelli. Mi è sfuggita la tua risposta. Non capisco come sia stato possibile ma non l’ho vista. Mi sto rincitrullendo! Scusami
Ho riletto il tuo intervento, è più o meno quello che penso io. Ma il videogame hanno, secondo me, uno specifico che non molti rilevano.
Come medium in qualche modo riassume tutti gli altri. Nel senso che le tipiche possibile espressive dell’arte sono tutte presenti nei videogame, è anche qualcosa in più (la fruizione non è quasi mai solo passiva)
Secondo wikipedia sono possibili vare suddivisionì delle arti. Trovo interessante la macro categoria delle arti prodotte od eseguite.Secondo te il videogame è arte visiva o performativa? Possiamo considerarla una decima altre oppure è parte – somma – delle latre nove?
Ecco, secondo me non si riflette abbastanza su questo. Ritorniamo alle avventure. Una avventura grafica è un romanzo. E le avventure testuali cosa sono? Certo, sono un genere di nicchia. Ma richiedono tanta, tanta lettura, è scelte. Tante scelte. Le avventure testuali sono diverse da quelle grafiche e, nonostante siano le più vicine alla modalità lettura, sono anche le più distanti dalle sue forme. Il paradigma delle avventure grafiche è diverso da quello delle avventure testuali.
Ti do due esempi:
1 – Dear Esther. Un romanzo, con suoni e immagini http://store.steampowered.com/app/203810/
2- Acquista Legacy of Dorn: Herald of Oblivion. Un gamebook ambientato nell’universo di warhammer. http://store.steampowered.com/app/389850/
Ciao
24 aprile 2017 alle 16:36
Andrea, in questo momento il sistema antispam di WordPress è in crisi di identità: queste discussioni generano interventi molto lunghi, e lui li considera tutti spam. Per questo la pubblicazione dei commenti avviene a volte con ritardo (perché, come tutti, anch’io ho qualcos’altro da fare a parte sorvegliare l’antispam di WordPress).
26 aprile 2017 alle 09:08
“queste discussioni generano interventi molto lunghi, e lui li considera tutti spam”
Non essere ingenuo. E’ risaputo che la lobby degli editori cartacei passa mazzette sotto banco ai filtri antispam perché sabotino le discussioni sui videogame perché temono la concorrenza digitiale. Lo sanno tutti.