Un cuore intelligente, appunti su critica e scrittura.

by

di Demetrio Paolin

[Altri articoli sullo stesso argomento]

Scriptor, non doctor. Questa breve glossa di Benvenuto da Imola al verso 27 del canto X del Paradiso mi è venuta in mente leggendo i diversi contributi che, qui su vibrisse ma anche su altri siti e social network, sono apparsi dopo la pubblicazione dell’articolo di Gilda Policastro sull’eutanasia della critica e delle due recensioni della Marzano e di Trevi all’ultima fatica di Siti.

Quando nascono queste polemiche e discussioni, io ho un problema ovvero devo capire da dove parlo

La cosa più comoda in questo caso è definirmi: in che veste prendo la parola? (Lo so che è un problema tutto mio, ma secondo me è sempre necessario capire chi è che parla) Parlo da scrittore? Parlo da critico che collabora con alcune testate e giornali nazionali?  Scrittore/Critico. Una delle tensioni sottotraccia che mi è parso di ravvisare nelle diatribe di questi giorni è appunto l’eterna distinzione tra critico e scrittore.

Io mi sono guardato dentro, ho provato a osservare le cose che faccio ogni giorno, quando apro il pc e mi metto davanti a una pagina di word o davanti a un libro che leggo. Io faccio dei discorsi, dei ragionamenti in cui provo a dire come è il mondo, quale è la mia idea di bellezza, di giustizia di amore o di letteratura. In questo senso la divisione tra critico e scrittore è fuorviante: il critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui.

Mi pare invece che l’idea di critico tratteggiata in questa polemica sia quella di un arbitro che stabilisce ciò che piace e ciò che no; e proprio questa concezione ha fatto, secondo me, travisare l’intervento della Marzano sul romanzo di Siti. Si è imputato alla filosofa di fare un ragionamento troppo moralistico, usando categorie non letterarie per recensire Bruciare tutto. Anzi Trevi sembra suggerire, senza mai nominarla, che la Marzano abbia commesso un errore  ancora più grave, confondendo l’autore, con l’io narrante, mettendo sullo stesso piano le idee dell’autore e quello del suo personaggio.

Eppure a leggere bene quella riflessione, mi pare che lei sposti il discorso su di un piano diverso, mi verrebbe da dire etico. In quell’intervento viene chiesto a Siti, in quanto autore, ragione  delle sue immaginazioni. Cioè a me pare che la Marzano sappia benissimo che i pensieri del protagonista non sono i pensieri di Siti, ma sappia altrettanto bene che quei pensieri sono stati scritti da Siti e gli viene chiesto di prendersi la responsabilità di ciò che ha immaginato.

La parola responsabilità non mi pare abbia fatto capolino in questo dibattito, forse perché è una parola che suggerisce una tensione verso una forma etica della scrittura. So che ragionare di etica della scrittura, in un frangente in cui si dibatte se esistano temi sui cui sia lecito o no scrivere, possa suonare quanto meno arretrato o, perché no, conservatore. Provo a chiarire: io non credo che esistano tabù, o cose che non possono essere raccontate.  Io credo che si possa dire tutto, che ogni cosa possa diventare racconto, e che molte volte la categoria dell’ineffabile sia una scusa per nobilitare i nostri difetti creativi. Ogni cosa può essere detta, ma a patto che l’autore si assuma la responsabilità di ciò che dice. Certamente la richiesta della Marzano dissona rispetto a una concezione del romanzo come semplice “testo”, come brusio di parole ben fatto; ecco perché molti hanno visto nell’intervento di Trevi qualcosa di consolante, perché ci giustifica da qualsiasi responsabilità: un testo ha come unica necessità di esistenza quella di essere bello.

Il tentativo Marzano è, invece, di sostenere qualcosa di diverso, ovvero che la responsabilità dello scrittore non sia solo narrare una storia nel migliore dei modi possibili, ma sia anche e soprattutto rispondere a quello che la storia trasmette; in fin dei conti – che noi lo vogliamo o meno – la scrittura di finzioni è per definizione un eterno contrasto tra il bello e il vero. In maniera brutale e forse un po’ naif la filosofa ci ha riportato davanti agli occhi il problema della verità, di quella cosa ultima e finale che chiediamo alla letteratura. Nella introduzione a un suo saggio Alain Finkielkraut scrive un pensiero che reputo centrale a questa discussione: “Se vogliamo ricevere riposta, non è a Dio direttamente, né alla Storia, moderno avatar della teodicea, che dobbiamo rivolgere la nostra domanda, bensì alla letteratura, forma di mediazione che non offre garanzie, ma senza la quale ci sarebbe per sempre preclusa la grazia di un cuore intelligente”. Sulla immagine del cuore intelligente ci tornerò alla fine di questo intervento, per ora mi piace rilevare come la letteratura abbia a che fare e molto con la verità.

Le reazioni al pezzo della Marzano, la levata di scudi verso di lei, verso un modo di leggere i testi più esperienziale che letterario, mi hanno ricordato su piani diversi le critiche aspre che ha ricevuto l’intervento della Policastro. Io ho l’impressione che neppure in questo caso si sia letto accuratamente l’articolo, confondendo il particolare (il testo di Teresa Ciabatti) con il discorso in generale.

Se posso permettermi di riassumere, la Policastro lamenta come  la critica stia scomparendo e al suo posto si faccia sempre più spazio una sorta di chiacchiericcio che non possiede nessuna idea di mondo, di letteratura, e che basa il proprio appoggio a un testo o a un altro sul passaparola e sul gossip da social network. Paradossalmente penso che la stroncatura della Marzano appartenga a quel tipo di critica, di cui la Policastro lamenta l’assenza. Per chiarezza non credo che l’idea di letteratura di queste due studiose sia sovrapponibile, anzi credo che in molti casi sia antitetica, ma in entrambe io riconosco lo sforzo di mettere sulla pagina un’idea di mondo, di una visione della verità, che si riflette nel loro modo di leggere le opere altrui.

Questa riflessione sposta il discorso su di un altro tema contenuto nel testo della Policastro e che Mozzi e gli interventi successivi qui su vibrisse hanno provato a delineare ovvero il contrasto tra semplicità e complessità. Mi verrebbe da dire che, in realtà, questa tensione è sotterranea all’intera storia della lingua italiana e alla nostra letteratura. Infatti, cosa si prefiggono le Prose della volgar lingua di Bembo, o il Discorso sopra il romanzo storico di Manzoni? La risposta è ovvia: normalizzare, una lingua nel primo caso e un genere letterario nel secondo, ma ogni azione di semplificazione porta con sé una sorta di evento parossistico uguale e contrario (penso ai Capitoli della Peste del Berni o al Verismo) Quindi niente di nuovo sotto il sole?

Una novità c’è ovvero che la semplificazione descritta dalla Policastro non ha trovato nessuna forma di opposizione;  e non credo che sia un caso che gli esempi di complessità riportati, siano presi dal cinema (Nolan) e della musica (i Radiohead). La letteratura pare non pervenuta.

Ho notato che spesso la tensione tra semplicità vs complessità si è ridotta, nell’ambito del discorso, alla contrapposizione  tra  romanzi di lingua e romanzi di trama. Ecco a me pare questo un errore di valutazione.

Il romanzo è sempre un qualcosa di scritto, un qualcosa che ha a che fare con la lingua. Nella lingua si muove, nella lingua nasce e in essa trova le sue giustificazioni. Non esiste una diatriba tra lingua e trama, tra stile e storia, perché esse vanno insieme. La lingua deve essere funzionale alla storia che l’autore ha deciso di raccontare, all’immaginazione che ha deciso di mettere su carta. L’idea che esistano dei testi facili a cui si contrappongono testi difficili è un’ottima giustificazione. Noi come fruitori di programmi televisivi siamo abituati a una narrazione che è molto più complessa di quella che immaginiamo; si pensi al montaggio di serie come 24, ai dialoghi di Breaking Bad, o alla trama psicologica delle prime 3 stagioni di Homeland. Sono narrazioni, opere di finzioni complesse, che vengono viste con piacere dal pubblico. Quando però si prova a mettere su carta una idea di racconto di tal fatta di solito si viene rimproverati: “Ecco vuoi fare una narrazione difficile”.

Io ho due sospetti che provo a dire.

Il primo è autoriale: noi scrittori siamo così immersi in questo discorso di semplificazione, siamo così schiavi di questo immaginario, in cui bisogna essere semplici, diretti e parlare al cuore della gente, che ci siamo disabituati al potere della lingua, e al fatto che la scrittura possa essere un veicolo per dire la verità; molto spesso vediamo nella scrittura una forma di intrattenimento (cosa di per sé non condannabile, ma non essenziale e non unica); e credo che in questo senso la critica della Policastro sia centrata e debba essere presa seriamente in considerazione.

Il secondo sospetto è legato alla percezione che hanno molti addetti ai lavori del pubblico, è vero in Italia il numero dei lettori è basso, ma spesso e volentieri oltre essere “basso” numericamente viene considerato “basso” dal punto di vista delle competenze e della comprensione del testo. Il problema è che questa idea ha prodotto una serie di disastri come ad esempio la progressiva sparizione della critica letteraria dalle pagine dei giornali e la conseguente deriva social del fenomeno libro (non è un caso che Fazi abbia deciso di fare a meno dell’ufficio stampa, delegando la gestione della comunicazione a chi si occupa di marketing).

Questo fenomeno di impoverimento ha prodotto quella domanda che è implicita nell’intervento di Mozzi e che mi pare rimanga inevasa. Cosa è infine la letteratura? Quale è il suo compito? In che modo chi fa letteratura, ovvero scrive e pubblica libri, può rispondere a questa domanda?

Qui ovviamente entriamo nel merito della soggettività di chi scrive e quindi prendete questa parte come una possibile dichiarazione di poetica, posto che abbia ancora senso questa parola, o al massimo vedete queste righe conclusive con un ragionamento ad alta voce sul mestiere che per un motivo o per un altro faccio.

Io scrivo i miei libri spinto dall’idea di comprendere l’uomo (io non voglio parlare al suo cuore, io voglio mostrargli quel cuore), la mia unica forma di ossessione è capire l’uomo, capirlo con gli strumenti che ho, che sono appunto un insieme di ossessioni e immaginazioni (il male, il bene, la fede, la morte, il peccato e la colpa) e un’idea di scrittura (essere comprensibili e chiari, raccontare una storia il più possibile in ogni singola porzione, non aver paura di osare su alcuni temi, non credere che esista un genere prestabilito, ma lavorare per ibridazioni e mescolamenti).

Questa idea mi ha portato ad esempio a scrivere in un determinato modo Conforme alla gloria, che quando venne letto da un editore particolarmente grande e importante fu rifiutato non perché brutto, o mal scritto, ma perché privo di qualsiasi forma di consolazione per il lettore. Quando ricevetti questo no, dentro di me fui certo di aver fatto il mio lavoro al meglio: avevo guardato il cuore dell’uomo e non avevo risparmiato nulla né a me che lo scrivevo né all’ipotetico lettore che l’avrebbe letto.

Io non credo che la scrittura sia una forma di consolazione o una forma di salvezza, la scrittura rappresenta un ordine del discorso attraverso il quale posso fornire una mia idea di mondo. Sembrerà strano, ma il mondo non è né semplice né complesso; il mondo è questa cosa che abbiamo davanti ai nostri occhi, noi dobbiamo comprenderlo e raccontarlo per come è, e non per come vorremmo che fosse. Scrivere è una operazione di chiarezza (diversa sia dalla semplicità a tutti i costi che dalla complessità fine a se stessa), è in un certo senso una operazione di logica, di intelletto. Ecco la scrittura e la letteratura, per come la vedo io, si avvicinano molto al “cuore intelligente”, che il Re Salomone pregava di ricevere da Dio.

Avere un cuore intelligente significa appunto costruire una storia che non obbedisce a nessun dettame di mercato, né di moda, ma che abbia come ragione d’essere la logica dell’immaginazione che sostiene il racconto, che contenga in sé la bellezza delle parole, e la potenza della verità. Perché la verità è a volte orribile e tremenda, ma mai noiosa ed è per questo che la raccontiamo.

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17 Risposte to “Un cuore intelligente, appunti su critica e scrittura.”

  1. sergiogarufi Says:

    “Questa idea mi ha portato ad esempio a scrivere in un determinato modo Conforme alla gloria, che quando venne letto da un editore particolarmente grande e importante fu rifiutato non perché brutto, o mal scritto, ma perché privo di qualsiasi forma di consolazione per il lettore. Quando ricevetti questo no, dentro di me fui certo di aver fatto il mio lavoro al meglio: avevo guardato il cuore dell’uomo e non avevo risparmiato nulla né a me che lo scrivevo né all’ipotetico lettore che l’avrebbe letto.”

    Non esagerare con l’autocritica

  2. demetrio Says:

    Sergio, io stavo solo ragionando rispetto al mio lavoro. Ho provato a scrivere il romanzo che avevo in mente di scrivere e quel commento negativo, mi ha confermato che pur nel limite delle mie capacità, che sono poche, avevo precisamente fatto quello che mi ero riproposto di fare. Era solo una constatazione.

    d.

  3. Ma.Ma. Says:

    Ora ho capito. Ho capito che casa non mi tornava. E l’ho capito leggendo questo testo e il passaggio che riguarda il tuo libro. Vorrei dirti una cosa sfacciatamente. Quando lessi Conforme alla gloria pensai esattamente la stessa cosa dell’editore che citi, ovvero che il libro non fosse riuscito, che fosse zoppo, perché mancava una possibilità di salvezza, che sì, è pure consolatoria, ma non era questo il punto. Non mi “mancava” perché a me sarebbe piaciuto storpiare una verità, così da chiudere in bellezza un libro crudo e convincermi che la vita potrebbe lasciare qualche speranza. Ma perché a me pareva chiaramente che la verità in questo libro fosse stata forzata per veicolare una convinzione, chiamala pure ossessione, appartenente solo all’autore e non alla verità. Come se l’autore avesse deciso che esistesse solo la notte, mentre la verità è più complessa e considerarla così limitata quando ci sono prove esistenziali che confermano il contrario, mi pareva come già detto una forzatura.
    Perché un conto è desiderare leggere solo libri Happy Ending, un conto è riconoscere o addirittura scoprire una verità come tale, cosa che a me non è arrivata. Anzi: nel tuo Conforme alla gloria a me pare accada il contrario, a me pare che la verità (anche se non ti piace) in Conforme alla gloria venga tradita e con ostinata convinzione. Poi il libro ha comunque una sua forza, una grande forza, ma io resto d’accordo con l’editore.

  4. demetrio Says:

    senza voler portare il discorso sul mio testo. Se avessi potuto rispondere all’editore, gli avrei detto che la speranza non è nel testo, ma è il testo. Cioè l’unica salvezza possibile è l’esercizio della scrittura stessa

  5. Ma.Ma. Says:

    Il “non dimenticare”…? Se è questo mi pareva implicito. Ma il mio era un contributo non un avvio di polemica, eh. Alla fine sono contenta che sia stato pubblicato, almeno ho potuto leggerlo. Resto per ora dell’opinione espressa sopra. Il resto del discorso… me lo voglio rileggere un paio di volte.

  6. enrico ernst Says:

    … sto cercando di mettermi “in pari” sulla discussione… cerco di dire qualcosa di generale sulla critica: a differenza della scrittura letteraria – di un romanzo, racconto, poesia, drammaturgia – la critica, mi pare, abbia il compito di collegare, dare ragione, chiedersi, come un bambino: perché – e poi dire ancora: ho capito questo, non ho capito quest’altro – è una forma della ricezione e della lettura – è una forma dell’ascolto del “brusio” del testo – cuore, mente, cultura (il tema del “saper mettere in relazione”) sono tutti in gioco. L’aspetto della critica come “arbitrato estetico” (messaq in luce criticamente da Demetrio) mi pare meno densa, meno interessante e più – mi si passi il termine – “soggettiva”. Per esempio, criticamente – dopo le letture così diverse di Trevisan, Paolin, Siti, Peano, Dadati – mi sono chiesto della illacrimata malinconia (o disperazione se si vuole) della scrittura letteraria italiana, oggi – e ne è sorta un’esigenza, una domanda: che aria del nostro tempo e del nostro paese nutre l’illacrimata (per me questo aggettivo è fondamentale) malinconia o disperazione di tanta letteratura italiana contemporanea (posso parlare solo di quella che ho “incontrata”, ovviamente)? E dunque, che la critica dal testo si chieda del mondo – e non dell’ingenuo “mondo là fuori”. Ma del mondo come coesistenza di mondo e rappresentazioni di mondo. Non faccio che avvalorare – a modo mio – l’invito alla “responsabilità” così bene espressa da Demetrio. Se la critica non “aggancia” il mondo attraverso la lettura, forse, dico forse, è manchevole.

  7. enrico ernst Says:

    Vorrei aggiungere anche un appunto su “Conforme alla Gloria”, perché il finale non mi pare tanto il riflesso di una “verità là fuori” (quale sarebbe d’altronde?). Il finale disperato e terribile (o diciamo: tragico) discende a mio avviso dalla “creazione di mondo” che è il “mondo di Demetrio Paolin”. “Il mondo di Demetrio Paolin” è più vasto di “Conforme”, si è espresso in: articoli, saggi, altri romanzi. Per me è stato importante leggere ad esempio “Una tragedia negata” per fare un passetto più in là nella comprensione di aspetti di “Conforme”. Per me l’esperienza di Demetrio – voglio dire: la sua generosità come autore – risiede nelle domande che suscita. La tragedia di (inscenata da) Demetrio mi pare sia una tragedia senza l’antica massima tragica del “pathei mathou”: si cresce (l’individuo ma anche la comunità) attraverso l’attraversata del terrore e del dolore (“cresce” nella cecità Edipo; e nell’Orestea si interrompe la catena degli omicidi, delle ripulse, dell’odio, della vendetta).
    E ancora: l’ossessione del corpo (l’orrore pornografico, lo chiamerei) rivela una scissione corpo mente che non può fare emergere più nessuna “parola che guarisce”; men che meno, gesto (amorevole) che guarisce. Questo mi pare sia l’inferno
    di Demetrio Paolin: l’inferno che egli raffigura come propria visione storico metafisica, se si vuole (e il suo lungo lavoro sullo Sterminio ha una parte nel cuore di questa visione). Perché l’immaginazione di Demetrio “immette” sulla idea di una contemporanea, agghiacciata, pornografica “mummificazione” (il corpo sotto formaldeide)? questo mi sembra un tema “denso”, porto da “Confome”).

    (Non vorrei tuttavia proporre una considerazione iper soggettiva del lavoro letterario: perché Demetrio da scrittore “filtra” il dramma dei suoi tempi – e tuttavia dalla sua “specula” ovviamente, cioè dalla luce del suo percorso spirituale e intellettuale)

  8. SimoneGhelli Says:

    Bravo Demetrio. Secondo me concetti come “etica” e “responsabilità” non sono né arretrati né reazionari. Reazionario mi sembra piuttosto l’atteggiamento contrario, per cui si può dire tutto da qualsiasi punto di vista, senza denunciare il luogo da cui si sta parlando, trasformando così il tutto in un unico brusio indifferenziato.

  9. Teresa Capello Says:

    Torno ad approfondire il discorso, perché risulta una naturale prosecuzione d’insieme. Come nei due precedenti miei interventi (temo sia ormai “qui” …chiaro) mi interessa partire e parlare “dal” mio orizzonte di docente” e – so di ripetermi ancora – sottolineare quanto sia essenziale che il mondo della scuola e la realtà culturale trovino punti di incontro, di apertura, poiché giudico che solo così essi potranno trovare un senso “nuovo”: un senso indispensabile nell’urgenza sociale – nella deriva delle Istituzioni e dei comportamenti, sulla quale non desidero fare sottolineature moralistiche né tanto meno moraleggianti. Devo però scriverlo: in accadimenti di cronaca, nera e nerissima, emergono situazioni per le quali, attualmente, mi calza il termine “ferocia”. A questo punto, e con questa linea di tensione, viene la critica letteraria. Dove sta? e qual è il suo senso? (sempre – ma ho bisogno di dirlo – “pensando” da “prof”. Ne più né meno. E da prof (mi) chiedo: a cosa serve? Mi rispondo: dopo il faticoso – e bello – lavoro di trasmissione del patrimonio culturale e letterario che fa il docente (lo penso – magari, in un giorno più faticoso del solito, un po’ forzatamente – lo penso, dicevo, ogni volta che mi accingo a spiegare un autore che i ragazzi ancora non conoscono e che io insegnerò loro ad amare e ad odiare, se sarà loro necessario: se insomma non sarà “nelle loro corde”: e questo è un punto non trascurabile, quello della scelta, presente e futura, come lettori). Scrive Demetrio Paolin che il “critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui”. Mi risulta “vero”. Non verosimile, vero. Ed ecco perché. Quando, ad esempio, spiegando Ariosto, i ragazzi incontrano il sorriso di Calvino – posto che si sia recentemente detto anche di uscire da questo ‘labirinto’ – per loro risulta, questa, “un’emozione aggiunta”. Avvertono una sensibilità che è quella di Calvino, che alimenta le architetture del Poeta. Una cassa di risonanza. Un’esecuzione della partitura fatta da un Maestro d’orchestra piuttosto che dal (tuo) docente. Non è la stessa cosa. Il critico è uno scrittore. Da un testo – architettura composita – il critico ( e non il “recensore”, si noti qui) “crea” un mondo. Il suo. E’ il suo sguardo che guarda l’Opera d’arte. D’altra parte, declinare una visione di mondo scrivendo immaginazioni tramite riflessioni su testi altrui” mi pare – ma non del tutto, certamente – l’essenza stessa del processo scriptorio. Il cuore di fissione del processo infinito (ci dobbiamo credere) della Letteratura.
    Posti questi assunti, la “verità” del testo che scaturisce dal mondo interiore dell’artista/scrittore incontra si incontra con la verità umana – ovvero con il mondo interiore – del critico, qualsiasi sia la sua ispirazione o ‘assunto teorico’, se filosofica, sociologica o (molto) altro. Critico ri-scrive il testo, dandogli le parole, quelle parole, che sono taciute dallo scrittore ma evocate nella pagina. Lo alimenta con i suoi sogni e fantasmi. Come ogni lettore. Senza far sì che i propri démoni si sovrappongano sul testo cancellandone l’intrinseca bellezza. Ma non sono solo d’accordo. Sono anche in disaccordo. Perché ogni lettore crea un proprio libro. Se vogliamo, come è più attuale, ogni lettore “scrive” il proprio libro. Il lettore agisce decostruendo la struttura, e ricomponendola a modo suo, con strutturazione logico-argomentativa e non, “entrando nella fabula”, come si era pensato… Non è una macchina, il testo, ma un passaggio ‘metamorfico’,come da una forma ad un’altra. Passando nel testo, aggiungendoci il nostro, noi “non saremo più gli stessi, avremo questa esperienza interiore, che farà parte di noi. Una nuova “memoria”.Uno sguardo di Mnemosine alimentato e costruito da noi. Ancora più importanti, allora, gli aspetti sostanziali che Paolin sottolinea. Così come per la singola parola che viene decodificata, l’inferenza del parlante è ciò che dà vita e senso a quella parola. Rivestendo ogni parola con la propria personale emozione, tensione, ovvero inferenza narrativa. E’ anche il “non detto” infinito, naturalmente, il bello di una pagina scritta. C’è una tensione al completamento, all’appagamento, dentro una pagina…da riempire. Non si tratta del senso logico, si tratta della costruzione del senso, da infinite scritture e riscritture quanti sono e saranno i lettori. Anche ( e soprattutto) a scuola.

  10. Teresa Capello Says:

    Torno ad approfondire il discorso, perché risulta una naturale prosecuzione d’insieme. Come nei due precedenti miei interventi (temo sia ormai “qui” …chiaro) mi interessa partire e parlare “dal” mio orizzonte di docente” e – so di ripetermi ancora – sottolineare quanto sia essenziale che il mondo della scuola e la realtà culturale trovino punti di incontro, di apertura, poiché giudico che solo così essi potranno trovare un senso “nuovo”: un senso indispensabile nell’urgenza sociale – nella deriva delle Istituzioni e dei comportamenti, sulla quale non desidero fare sottolineature moralistiche né tanto meno moraleggianti. Devo però scriverlo: in accadimenti di cronaca, nera e nerissima, emergono situazioni per le quali, attualmente, si può usare il termine “ferocia”. A questo punto, e con questa linea di tensione, viene la critica letteraria. Dove sta? e qual è il suo senso? (sempre – ma ho bisogno di dirlo – “pensando” da “prof”. Ne più né meno. E da prof (mi) chiedo: a cosa serve? Mi rispondo: dopo il faticoso – e bello – lavoro di trasmissione del patrimonio culturale e letterario che fa il docente (lo penso – magari, in un giorno più faticoso del solito, un po’ forzatamente… lo penso, dicevo, ogni volta che mi accingo a spiegare un autore che i ragazzi ancora non conoscono e che io insegnerò loro -mi auguro momentaneamente – ad amare e ad odiare, se sarà necessario: se insomma non sarà “nelle loro corde”: e questo è un punto non trascurabile, quello della scelta, presente e futura, come lettori). Scrive Demetrio Paolin che il “critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui”. Mi risulta “vero”. Non verosimile, vero. Ed ecco perché. Quando, ad esempio, spiegando Ariosto, i ragazzi incontrano il sorriso di Calvino – posto che si sia recentemente detto anche di uscire da questo ‘labirinto’ – per loro risulta, questa, “un’emozione aggiunta”. Avvertono una sensibilità che è quella di Calvino, che alimenta le architetture del Poeta. Una cassa di risonanza. Un’esecuzione della partitura fatta da un Maestro d’orchestra piuttosto che dal (tuo) docente. Non è la stessa cosa. Il critico è effettivamente una sorta di scrittore. Da un testo – architettura composita – il critico ( e non il “recensore”, si noti bene) “crea” un mondo. Il suo. E’ il suo sguardo che guarda l’Opera d’arte. D’altra parte, declinare una visione di mondo, scrivendo immaginazioni tramite riflessioni su testi altrui” mi pare – ma non del tutto, certamente – l’essenza stessa del processo scriptorio. Il cuore di fissione del processo infinito (ci dobbiamo credere) della Letteratura.
    Posti questi assunti, la “verità” del testo che scaturisce dal mondo interiore dell’artista/scrittore incontra si incontra con la verità umana – ovvero con il mondo interiore – del critico, qualsiasi sia la sua ispirazione o ‘assunto teorico’, se filosofica, sociologica o (molto) altro. Critico ri-scrive il testo, dandogli le parole, quelle parole, che sono taciute dallo scrittore ma evocate nella pagina. Lo alimenta con i suoi sogni e fantasmi. Come ogni lettore. Senza far sì che i propri démoni si posano sovrapporre al testo, cancellandone magari l’intrinseca bellezza. Perché sarebbe una ‘cattiva critica’. Ma non sono solo d’accordo. Sono anche in disaccordo. Perché ogni lettore crea un proprio libro. Se vogliamo, come è più attuale, ogni lettore “scrive” il proprio libro. Il lettore agisce decostruendo la struttura, e ricomponendola a modo suo, con strutturazione logico-argomentativa e non, “entrando nella fabula”, come si era pensato… Non è una macchina, il testo, ma un passaggio ‘metamorfico’, come da una forma ad un’altra. Passando nel testo, aggiungendoci il nostro, noi “non saremo più gli stessi, avremo questa esperienza interiore, che farà parte di noi. Una nuova “memoria”. Uno sguardo di Mnemosine, alimentato e costruito da noi. Ancora più importanti, allora, gli aspetti sostanziali che Paolin sottolinea. Così come per la singola parola che viene decodificata, l’inferenza del parlante è ciò che dà vita e senso a quella parola. Rivestendo ogni parola con la propria personale emozione, tensione, ovvero inferenza narrativa. E’ anche il “non detto” infinito, naturalmente, il bello di una pagina scritta. C’è una tensione al completamento, dentro una pagina…da riempire. Non si tratta del senso logico, si tratta della costruzione del senso, da infinite scritture e riscritture quanti sono e saranno i lettori. Anche ( e soprattutto) a scuola.

  11. Pensieri Oziosi Says:

    A quanto mi risulta, le virgolette hanno due funzioni in italiano: citazionale (per delimitare citazioni letterali, discorso diretto, titoli) e metalinguistico. Ad esempio, per marcare un distanziamento: «Per contrassegnare l’uso particolare (allusivo, traslato, ironico) di una qualsiasi espressione» (Serianni, Italiani scritti, 2003).

    Teresa, quando scrivi,

    “pensando” da “prof”

    vuoi dire che non sei letteralmente una prof, o che i prof in realtà non pensano?

  12. Teresa Capello Says:

    Ciao, Pensieri Oziosi. Grazie del tuo commento – e mi sento di aggiungere – senza retorica o secondi e terzi fini – grazie alla bellissima riflessione di Demetrio, soprattutto. NB Devo aggiungere che ho inserito due volte il commento perché postando il primo – che poi ho rivisto – avevo inserito una vecchia mail @tin.it che non era quella @gmail con cui mi ero iscritta a Vibrisse. Speravo che il primo commento non venisse inserito. Rimarrà nel “web”… 1) Mi correggo: noi “non saremo più gli stessi, avremo questa esperienza interiore, che farà parte di noi” (ecco la chiusura della virgolettatura). L’uso delle virgolette qui è né allusivo, né traslato, né ironico. E’ un uso, diciamo così, “ad esergo” o “ad evidenziatore”, se preferisci- come in altri punti del mio testo – per estrapolare dal discorso la parola da mettere in evidenza, la frase particolarmente estrapolabile, da porre in esergo perché “cuore del discorso” (ecco). 2) “pensando” da “prof”. Mi spiego. hai colto entrambe le sfumature che volevo dare, virgolettando. Ovvero: a) il luogo comune diffuso che i prof siano incompetenti, che stiano sempre lì a lamentarsi, o a trovarsi limitati nella loro professione ecc. quando invece questo, semmai, è il risultato di uno STIGMA sociale che NOI subiamo, per una serie di motivi che sostanzialmente vanno ricondotti ad un decadimento della CIVILTA’ (antiquata parola) in Italia (duole scriverlo) b) ho inizialmente tanto odiato il troncamento “prof” (che la dice tutta, di per sé) che devo, come detto poco sopra, distanziarmi un poco dalla questione.

  13. Teresa Capello Says:

    ancora: sceglierei mille volte e poi mille di fare questo lavoro che amo

  14. Teresa Capello Says:

    Errata (oh, santo cielo): D’altra parte,”declinare una visione di mondo, scrivendo immaginazioni tramite riflessioni su testi altrui” …

  15. Pensieri Oziosi Says:

    E’ un uso, diciamo così, “ad esergo”

    Che cosa intendi qui con “esergo”?

    o “ad evidenziatore”,

    E questo è un uno attestato delle virgolette? Se sì in che tipo di testi si ritrova?

  16. Teresa Capello Says:

    To Pensieri Oziosi: Rispondo per correttezza – immagino sia una tua curiosità – ma non capisco perché stiamo andando in questa direzione, visto che il discorso era altro da questo.
    Intendo “mettere in evidenza” (sia per il concetto di esergo, in rilievo, sia per quello di evidenziatore: idem). Una buona grammatica (purtroppo non ho sotto mano il recente testo di Francesca Serafini) dice: “L’uso della punteggiatura è, almeno in parte, un fatto soggettivo, legato al gusto personale e alle scelte stilistiche dello scrivente: poiché attraverso i segni di interpunzione si scandisce e si articola lo sviluppo dei pensieri, essi possono essere usati per ottenere effetti espressivi particolari e finalizzati al testo che si deve produrre” (Daina-Savigliano, “Il buon uso delle parole”, Garzanti, 2009, pag.13.

  17. Pensieri Oziosi Says:

    Teresa, il gusto personale e le scelte stilistiche nello scrivere vengono recepiti all’interno di un contesto culturale e sulla base di un corpus letterario. Un uso consapevole della lingua non può prescindere da questi.

    Ora, secondo te, qual è il messaggio che sto tentando di mandarti quando ti chiedo se e dove è attestato l’uso che fai tu delle virgolette o quando ti chiedo che cosa intendi tu con “esergo”?

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