Complessità/semplificazione: tre specie di opere

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Due eroi della narrativa d’intrattenimento

di Alberto Cristofori

[Ricevo e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm]

La discussione innescata da Gilda Policastro e poi sviluppata da Giulio Mozzi e altri [Alessio Cuffaro, Valentina Durante, Edoardo Zambelli, Alessandro Canzian, gm] sullo spazio gestito da quest’ultimo [e altrove, gm] ha suscitato in me qualche riflessione che spero possa risultare utile. Provo a dire sinteticamente.

Gilda Policastro muove dagli elogi, giudicati eccessivi, tributati da alcuni critici al romanzo di Teresa Ciabatti La più amata. Eccessivi perché (se interpreto bene il pensiero di Policastro) l’opera non avrebbe tratti di originalità e complessità tali da suscitare entusiasmi così strillati. Ma il romanzo di Ciabatti è solo un esempio: il nocciolo della questione non è l’eventuale errore di giudizio su una singola opera, ma il ruolo della critica, il suo rapporto con l’industria editoriale, la sua sostanziale abdicazione al compito che tradizionalmente (e forse anche idealmente) le viene attribuito.

Ora: in base alla mia esperienza, ormai lunga, direi che la produzione narrativa italiana (forse non solo: ma limitiamoci a questa) dal secondo dopoguerra a oggi si può complessivamente dividere come la Gallia di Cesare in partes tres:
— ci sono le opere di carattere più sperimentale, non necessariamente d’avanguardia, ma che esibiscono una ricerca di originalità, spesso molto radicale e oltranzistica, giocando con l’orizzonte di attesa del lettore per rompere le regole (linguistiche, strutturali, di genere ecc.); per fare qualche esempio che spero non offenda nessuno, essendo ormai lontano nel tempo, Ragazzi di vita di Pasolini rientra in questa categoria, come Capriccio italiano di Sanguineti o Libera nos a Malo di Meneghello;
— ci sono poi opere che chiamerei “istituzionali”, quelle cioè che si presentano con tutti i crismi della letterarietà, rispettando le regole e le attese dei lettori, senza rinunciare peraltro a una ricerca originale, magari più sotterranea – per dirla in modo un po’ impetitto: mediando fra tradizione e innovazione; Tomasi e Bassani (restiamo negli anni Cinquanta) mi sembrano esempi di questo tipo di letteratura;
– ci sono infine le opere che si propongono di intrattenere il loro lettore, di divertirlo, magari di consolarlo, privilegiando il piacere della rassicurazione (e spesso della ripetitività, o addirittura della serialità) rispetto al piacere della sorpresa e dello spaesamento; pensiamo a Guareschi, per fare un nome, o a Scerbanenco.

Vorrei sottolineare che queste partes tres, oltre ad avere confini sfumatissimi e in continuo movimento, non configurano categorie di valore. Naturalmente è possibile militare, come faceva Vittorini, a favore di opere che mi facciano esclamare “non avevo mai pensato che potesse essere così” e non di quelle che mi spingono a riconoscere “è proprio così come ho sempre pensato”. Ma un minimo di obiettività dovrebbe costringere anche il più adorniano dei critici ad ammettere che la sperimentazione, per sua natura, può approdare a risultati discutibili (a rischio di attirarmi qualche strale, mi permetto di sconsigliare a chi non sia uno studioso dell’autore o del periodo la lettura di Capriccio italiano, che a mio avviso ha oggi un interesse puramente archeologico, mentre raccomando Pasolini e Meneghello); e che invece quella che un tempo si chiamava con disprezzo paraletteratura può talora produrre opere dotate di una notevole forza immaginifica e perfino linguistica (è difficile negare che Peppone e don Camillo dovrebbero far parte del bagaglio di un italiano mediamente colto: ignorarne l’esistenza si può considerare una lacuna abbastanza grave).

Vorrei anche sottolineare che a queste tipologie di opere non corrispondono necessariamente categorie diverse di lettori. Ogni opera ha un lettore ideale iscritto nel proprio Dna, cioè nelle scelte stilistiche, linguistiche, formali e strutturali che la caratterizzano; ma i lettori reali sono altra cosa, e rivendico il mio diritto di tenere sul comodino, uno accanto all’altro, il volume dei Meridiani con le poesie di Celan e l’ultimo “Texone” della Bonelli, e di passare dall’uno all’altro anche nella stessa sera, se mi va. Del resto, è appunto dagli anni Cinquanta che le interrelazioni e gli scambi fra cultura “alta” e “bassa” (scusate le virgolette) si sono fatti sempre più intensi e fecondi. (Il problema, semmai, è che io, che svolgo da decenni una professione intellettuale, posso permettermi questi passaggi vertiginosi, mio cugino che ha il diploma professionale e sta al tornio otto ore al giorno, no: ma questo è un altro discorso.)

A me pare che l’editoria, nel suo complesso, debba e voglia soddisfare tutte le articolazioni del mercato, il main stream come le nicchie, i lettori forti come quelli occasionali, le persone con una formazione tecnico-letteraria più scaltrita e quelle almeno teoricamente più ingenue. Non mi scandalizzo quindi se un grande editore pubblica nello stesso tempo una elitaria collana di narrativa sperimentale e una di gialli da edicola. Mi scandalizzo se pubblica Camilleri nella stessa collana di classici commentati in cui troviamo Dante o Pirandello, perché questa è una menzogna critica: equivale all’ipotetico, ammiccante strillo sulla copertina della Genealogia deorum gentilium: “dello stesso autore del Decameron”; o al pessimo consiglio di un libraio che mettesse il Pasticciaccio di Gadda nel settore gialli.
Naturalmente, un piccolo o piccolissimo editore può permettersi di scegliere un settore molto ben delimitato (la narrativa croata di ispirazione lacaniana, per dire) e coltivarlo fino a diventarne il monopolista – monopolista di un fazzoletto? sissignori: “meglio il primo in un villaggio gallico” ecc. ecc.; ma un grande editore, ripeto, deve tener conto di tutti i bisogni del pubblico, dall’erudizione più snobistica all’evasione più consolatoria.

È qui, dunque, che entra in gioco la critica, e in particolare la critica militante – quella delle recensioni, dei blog ecc. La prima cosa che mi aspetterei da questa critica è la capacità di collocare un’opera nuova all’interno del panorama che ho così sommariamente tratteggiato – farmi capire cioè, a me lettore, a quali bisogni risponde, darmi gli strumenti per scegliere se investirci tempo e fatica, e in che modo.
È evidente che non basta raccontare per sommi capi la trama: che si tratti dell’autobiografia di una ricca ragazza toscana o della vendetta tardiva di un anziano partigiano ormai impazzito o degli amori difficili di una donna in sedia a rotelle, siamo pur sempre alle informazioni preliminari al lavoro critico.
È evidente anche che espressioni oggi ecolalicamente ripetute su fascette e quarte di copertina di tutto il mondo, quali “straordinario”, “intenso”, “piacevolissimo”, “un capolavoro”, “indimenticabile” e simili, non sono di alcuna utilità. Straordinario rispetto a cosa? Piacevolissimo per chi?
L’abuso di giudizi generici da parte dei critici-recensori, che nasce da questa incapacità (o non volontà) di collocare l’opera in un quadro di riferimento, ha una conseguenza distruttiva, ed è che il lettore della recensione è costretto, in teoria, a fidarsi del recensore (o della testata): si ripropone cioè indirettamente un “principio di autorità” che è, per definizione, la negazione della critica.
Il giudizio generico, non articolato in un’analisi, si presenta inoltre come infondato, umorale: il critico, insomma, evita di dichiarare i criteri (estetici, filosofici, ideologici anche) in base a cui opera le sue valutazioni – e in questo modo non innesca alcun dialogo, né con l’autore del testo recensito, né con il lettore della recensione. Non a caso, la critica è di fatto esautorata, nella sua funzione, dalle classifiche dei più venduti, che dichiarano apertamente e onestamente il criterio di valore unico a cui si attengono, quello del successo commerciale.

La questione sollevata da Policastro è quindi davvero decisiva. Bisogna tornare a ragionare di estetica e di che cos’è la letteratura, tornare a riflettere sul bello e sul sublime, sul piacevole e sul conturbante – da quanti anni (decenni, a occhio) non esce in Italia un libro davvero importante su questi temi?
Per amore di completezza, però, devo dire che anche le dichiarazioni a favore di una non meglio precisata complessità mi insospettiscono. Personalmente, in quello che scrivo, cerco di trasmettere l’idea che il mondo sia sfaccettato, ricco, in una certa misura anche misterioso (e forse proprio per ciò affascinante e inquietante ecc. ecc.). Ma so benissimo che questa visione del mondo si può trasmettere anche attraverso strutture linguistiche e narrative molto semplici, molto lineari, e che accanto ai grandi scrittori che “mimano” nelle loro opere il caos dell’esperienza, ve ne sono altri, ugualmente grandi, che distillano forme limpidissime e apparentemente facili.
Naturalmente ogni scrittore, ogni poeta, ogni critico, è libero di sviluppare la sua estetica, e di esporla e di argomentarla. Ma mi dispiacerebbe molto se il sistema editoriale nel suo complesso tornasse a sancire o a irrigidire una separazione fra cultura “alta” e cultura “bassa”, qual era praticata e spesso teorizzata fino agli anni Cinquanta. Da allora abbiamo visto moltiplicarsi i casi di testi “complessi” (e a volte complicati, e non sempre poeticamente riusciti, certo) che hanno conquistato il consenso di un vasto pubblico, da Calvino a Morante, da Eco a Vassalli e altri. Almeno fino a ieri, il sistema letterario è stato capace di espandersi e di conservare una sua rilevanza, al mutare delle condizioni storiche. Oggi, in un contesto che vede la sempre maggiore divaricazione (economica, ma anche culturale) tra ricchi e poveri e il concomitante assottigliamento delle classi medie, credo che una scelta di chiusura elitaria condannerebbe la letteratura (e la critica insieme) a una definitiva condizione di marginalità. È già successo più volte, nella storia europea, e non sono stati periodi proprio felicissimi.

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13 Risposte to “Complessità/semplificazione: tre specie di opere”

  1. Ma.Ma. Says:

    Proprio quello che avrei voluto leggere, sin dall’inizio. Grazie.

  2. acabarra59 Says:

    “ Dicembre [1978] – a stare in galera dai turchi / matura una morbosa diffidenza / astigmatismo critico in vista / di ogni matura lepanto. “ [*]
    [*] Lsds / 73…

  3. sergiogarufi Says:

    Ma dei famosi “livelli di lettura” non parla nessuno? Del fatto cioè che un’opera importante può essere letta con gusto sia dal professorone che ne vede le strutture profonde, i rimandi, ecc, che dal lettore meno esperto che si gode il puro intreccio? Eppure siamo ospiti di un fan di Manzoni, che lo cita ogni due per tre.

  4. L'esageratore Says:

    Ecco.

  5. acabarra59 Says:

    “ Bisogna tornare a ragionare di estetica e di che cos’è la letteratura, tornare a riflettere sul bello e sul sublime, sul piacevole e sul conturbante – da quanti anni (decenni, a occhio) non esce in Italia un libro davvero importante su questi temi? “ D’accordo, entusiasticamente, su tutto. Una sola, modesta proposta: sostituire “ che cos’è la letteratura “ con “ che cosa era la letteratura “. Saperlo, retrospettivamente, non, ahimè, retroattivamente, sarebbe, a mio cauto parere, già molto.

  6. Valentina Durante Says:

    Un intervento bello e interessante. Risponde, peraltro, ad alcuni dubbi sollevati nel mio commento al post precedente (commento che ho scritto, purtroppo, prima di leggere questo). Grazie.

  7. C. P. Says:

    Triste notare che nell’interessante sintesi della produzione narrativa italiana dal dopoguerra a oggi ci sia tanto dopoguerra e niente oggi (l’autore più giovane fra quelli citati è Sanguineti).

  8. rossana v. Says:

    grazie.

  9. Gianluigi Simonetti Says:

    Ma che strana coincidenza.

    “Esistono oggi almeno tre tipi diversi di racconto letterario (diversi in partenza per peso e ambizione, indipendentemente dalla riuscita dei singoli esemplari in cui si spicciolano). C’è una narrativa che ha lo scopo esclusivo di distrarre il lettore; un’altra che mentre lo intrattiene gli fornisce informazioni, identità e valori, confermando le opinioni socialmente più autorevoli e più glamour; una terza che mentre diverte sfida le certezze del lettore, cercando di portarlo dove lui non vuole andare (mentre la prima e la seconda lo lasciano dov’è)”

    Così cominciava un mio pezzo apparso l’ALTROIERI sulla domenica del Sole24 ore.

    http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-04-14/walter-siti-domande-che-non-lasciano-intatti-e-conversione-estrema-202049.shtml?uuid=AEQ0cg2

    (Per non tediare nessuno non starò a citare altri miei pezzi usciti nel corso degli ultimi anni in cui mi sforzo di mettere a punto questa tripartizione).
    Cito solo quest’ultimo come contributo – diciamo così – alla discussione. Senza soffermarmi sulle coincidenze…

  10. Giulio Mozzi Says:

    Ne parlano tutti, Sergio. Non parlano d’altro.

  11. sergiogarufi Says:

    Sarà, io ho visto solo dicotomie, commerciali non commerciali, semplici e complessi.

  12. S.G.F. Says:

    Segnalo un refuso nell’elenco tag:
    Sebastiani Vassalli = Sebastiano Vassalli

  13. Giulio Mozzi Says:

    Grazie, SGF. Ho corretto.

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