Che cosa intendiamo per “complessità”?

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di Marco Terracciano

[Ricevo da Marco Terracciano, laureando in lettere moderne, e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm].

«Come mai, era la domanda, si ritiene che il pubblico di massa sia in grado di decodificare film complessi quali di fatto sono i film di Nolan (Inception ma si potrebbe dire Interstellar o The prestige, allo stesso modo) etc. e invece in letteratura finanche ai libri che partono come non commerciali (come, per dire, i miei) si richiedono degli accorgimenti editoriali volti a facilitare la comprensione dei lettori?» [Gilda Policastro, in Facebook, in risposta alla riflessione di Edoardo Zambelli in vibrisse]

Credo ci si debba accordare sul concetto di complessità. Non è certamente inopportuno mettere a confronto opere che appartengono a due canali mediatici differenti, dal momento che pur sempre di narrazioni si parla: è, secondo me, fuorviante ritenere un film come Inception un’opera complessa. Non è tanto la forma del contenuto – prendo il prestito la terminologia del linguista Hjelmslev adottata da Francesco Orlando nella sua teoria freudiana della letteratura – a determinare la difficoltà della decodificazione; è piuttosto la forma dell’espressione ad alzare un muro, a sfidare la pazienza del fruitore dell’opera narrativa.

Un film come Inception ha sì una trama complessa, organizzata su una struttura che mette in gioco diversi piani di realtà, che crea disordini nella percezione spazio-temporale dei protagonisti e dello spettatore, ma la narrazione scorre senza intoppi interpretativi attraverso un linguaggio (quello cinematografico) che procede per situazioni ampiamente codificabili e intelligibili. I dialoghi sono semplici, il montaggio permette di comprendere immediatamente quali sono gli elementi importanti e quali quelli meno importanti per la comprensione del messaggio, gli atteggiamenti e le caratteristiche dei personaggi sono semplici, ordinari, regolari. Lo stupore di Arianna – interpretata da Ellen Page – di fronte alla città che ripiega su se stessa è uno stupore ordinario nel senso che allo spettatore non è richiesto alcuno sforzo per decodificarlo, così come la città stessa che si chiude come una scatola di biscotti nella famosa scena in cui Dom – Di Caprio – mostra le possibilità dei sogni ad Arianna è una situazione sì incredibile, complessa, cervellotica ecc., ma è paradossalmente semplice nella sua realizzazione visiva (è più difficile decodificare la metafora “la città che si chiude su se stessa come una scatola di biscotti” piuttosto che vederla effettivamente realizzata come se fosse la cosa più normale del mondo, senza complicazioni di forma, attraverso una simultaneità di luci, suoni, colori, montaggio, regia che accompagnano e regolarizzano l’evento).

Una scatola per biscotti?

Le difficoltà dei fruitori delle opere di narrazione non sono mai difficoltà nel seguire le vicende di una trama complessa, né accettare situazioni narrative ai limiti delle nostre percezioni spazio-temporali, né difficoltà a tenere a mente una grande moltitudine di personaggi che agiscono in diversi momenti della storia, o in simultaneità, ognuno con la propria psicologia, storia personale, sensibilità. Se fossero queste le difficoltà, serie televisive come Game of thrones non potrebbero riscuotere il minimo successo commerciale, non potrebbero entrare a far parte della cultura pop, i ragazzini non farebbero le tre di notte per guardare cinque, sei, sette stagioni piene di intrighi pazzeschi e relazioni contraddittorie tra i personaggi.

Io mi sentirei di paragonare un film come Inception, o una serie tv come Game of thrones, a romanzi come Il codice da vinci di Dan Brown, La luna fredda di Jeffery Deaver, I pilastri della terra di Ken Follett o addirittura le saghe di Harry Potter e Il signore degli anelli. Si tratta, in tutti questi casi, di trame complesse, di una gran quantità di personaggi gestiti simultaneamente, di storie argute, impossibili, “complicate” da tutta una serie di rapporti spaziali, temporali, relazionali difficili da gestire; si tratta tuttavia, in tutti questi casi, di narrazioni costruite attraverso microstrutture semplici e governabili, espresse in un linguaggio che si sforza di creare immagini immediatamente decodificabili.

Ciò che disturba spesso il lettore di narrativa (scritta) è la dichiarata tendenza degli autori a complicare le forme d’espressione, a distorcere la consueta percezione della realtà, a rendere faticose anche le strutture di senso più semplici e quotidiane:

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta la termine. Neanche un bambino nei giardini. Ombre e luce sulle zoysie ingiallite. Querce rosse e querce di palude e querce bicolori riversavano una pioggia di ghiande sulle case senza ipoteca. Le controfinestre rabbrividivano nelle stanze da letto vuote. E poi il ronzio monotono e singhiozzante di un’asciugabiancheria, la contesa nasale di un soffiatore da giardino, il maturare di mele nostrane in un sacchetto di carta, l’odore della benzina con cui Alfred Lambert aveva ripulito il pennello dopo la verniciatura mattutina del divanetto di vimini. [Incipit del romanzo Le correzioni di Jonathan Franzen, 2001].

Un simile livello di complessità formale non è possibile in un’opera cinematografica, le immagini descritte dall’autore sono una sfida alla nostra capacità di decodifica. Questa, secondo me, è un’opera complessa, non Inception, non Game of thrones, Matrix, Interstellar, Westworld ecc.

Ho citato Francesco Orlando non a caso: in Per una teoria freudiana della letteratura parla di “tasso di figuralità”, ossia della capacità della letteratura di dire qualcosa attraverso un linguaggio che moltiplica le associazioni tra significanti e significanti, significanti e significati, significati e significati, un linguaggio che appunto “altera la trasparenza nel rapporto tra significante e significato che dovrebbe essere normale […] nell’uso conscio-adulto del linguaggio” (p.54).

Inception & co. – nonostante gli intrecci contorti – presentano un tasso di figuralità molto basso rispetto ad alcune opere letterarie; appurato ciò, la categoria di “complesso” andrebbe ricalibrata alla luce del concetto di “tasso di figuralità”. Se non si comprende questa differenza, credo, un confronto serio tra narrazione cinematografica e narrazione letteraria non ha motivo di esistere.

P.S. Esempi di opere cinematografiche “complesse” potrebbero essere alcuni film di Gus Van Sant come Gerry o Elephant.

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31 Risposte to “Che cosa intendiamo per “complessità”?”

  1. C. P. Says:

    Si può apprezzare un film o un libro senza necessariamente decodificarlo totalmente, è sufficiente che quello che riusciamo a cogliere ci interessi, ci soddisfi e ci piaccia. Il fruitore che decifri tutti i livelli di un’opera è un lettore \ spettatore ideale, e alle case editrici interessano quelli reali.
    Pensando solo all’aspetto formale, la scrittura ad alto tasso di figuralità e con lessico ricercato ha molte più probabilità di risultare brutta (a meno che tu non sia Gadda) rispetto a una con meno pretese. Anche questo credo che gli editori lo sappiano.
    Penso che la chiarezza e la pulizia di forme abbiano un loro perché sia dal punto di vista estetico che etico, quindi non mi sento di difendere la difficoltà in quanto tale. Se c’è qualcosa che può “educare il pubblico”, penso dovrebbe essere la bellezza.

  2. Ma.Ma. Says:

    Che bello leggere un testo che riesce a spiegare bene quello che a volte chi non sa, magari, percepisce.
    Continuo a notare però che gli esempi di “film complessi” sono quasi sempre di produzione estera, il che dovrebbe metterli a confronto con l’editoria del paese corrispondente, no? O al contrario dell’editoria in italiano si dovrebbe considerare anche la letteratura in traduzione, per fare un giusto paragone.

    Già che ci sono copio e incollo qui il mio commentino (che ho già quasi perso su fb) generato da un’altra sezione del testo di Policastro riportato qui sopra, perché al di là del confronto, penso che alla fine sarebbe bello cercare di trovare un modo per “migliorare” la situazione, cioè per rendere più “appetibile” la letteratura “complessa”.
    Ecco il commentino: “Ho letto una frase che a me pare davvero quella che sfiora una possibile soluzione: “Dovremmo, dunque, sforzarci di tener conto di lettori impreparati a certi codici che di sicuro i libri manco li aprono? O attirarli alla lettura spacciandogli per godimento facile quel che resta comunque un’esperienza intellettuale, ove lo sia davvero, e quindi necessita di un qualche spazio di riflessione, approfondimento e magari, perché no, di un dizionario?”
    E se invece di puntare su un pubblico più ampio partendo da un pregiudizio (aggiungo: per quanto in parte legittimo), lo si considerasse con un pizzico più di “rispetto” anche fingendo di non sapere che davvero c’è chi non aprirà mai un libro, ecc…, ma pensando che forse invece là in mezzo qualcuno c’è che se avvicinato nel modo giusto (non attirandolo con l’inganno che sarebbe di nuovo poco rispettoso, ma nemmeno “tirandosela” troppo, con rispetto parlando), ma parlando da pari?
    Se io non ho mai letto poco o niente di letterariamente valido (diciamo così per capirci) fino all’anno scorso, e poi grazie alla bottega e a un approccio “semplice”, onesto, propositivo del maestro – cioè Giulio – che non mi ha spaventata proponendomi certe letture, ma anzi semmai preparata), sono riuscita a leggerne e pure ad apprezzarle, forse c’è speranza… o no?”
    Questo il compito che – come dicevo in un precedente commento – io mi aspetterei da un recensore (da un critico che si rivolga al pubblico, tutto): una guida che non crei distanza tra il lettore comune e l’opera inarrivabile, o che proponga solo quello che crede che un lettore comune possa arrivare a capire.

  3. Gianpietro Miolato Says:

    A mio avviso, e sempre restando nell’universo cinematografico di Nolan visto che si è parlato di “Inception”, un film del regista inglese che avrebbe più senso considerare per discutere di una presunta/possibile complessità è “Memento” (2000).
    Il motivo è il seguente: nelle singole sequenze della pellicola con Guy Pearce si ritrovano tutti gli elementi che, stando a quanto scritto sopra, non dovrebbero conferire un senso di complessità ad un’opera (dialoghi semplici; montaggio che permette di comprendere immediatamente quali sono gli elementi importanti e quali quelli meno importanti per la comprensione del messaggio; atteggiamenti e caratteristiche dei personaggi sono semplici, ordinari, regolari); il problema, però, sorge prendendo le sequenze singole ed unendole per formare il film nel suo complesso. Perché?
    Perché quello che abbiamo visto alla fine della proiezione è il resoconto mnemonico di un uomo privo della capacità di ricordare. Dunque, quanto è attendibile quello che abbiamo visto, se mai è attendibile?
    Scrivo ciò non basandomi sul montaggio a ritroso adottato da Nolan (che comunque ha una su indubbia importanza semantica nel rilanciare verso l’inattendibilità di cui ho scritto, inutile negarlo), ma dando rilievo alla base della visione, cioè, ripeto, il punto di vista del protagonista.
    Porto questo esempio perché, benché abbia un “tasso di figuralità molto basso” (cit.) rispetto a certi sperimentalismi visivi di Gus Van Sant (ogni sequenza di “Memento” in sé e per sé è facilmente com-prensibile dallo spettatore), mantiene un tasso di complessità di decodificazione a mio avviso assai alto (qual è il rapporto di significato delle singole sequenze se poi nel loro insieme potrebbero essere nulla più che le visioni di un folle? Nolan non dipana il dubbio).

  4. emiliacapasso Says:

    Io penso che tra circa tre decenni, noi che scriviamo qui su questo blog saremo tutti sotto due metri di terra. Questo per dire che la vera complessità è la nostra vita, il suo segreto, il suo mistero, la sua abbondanza straripante, soffocante di significato o la sua totale assenza di senso. Per me i libri complessi, così come i film, sono quelli che indagano l’assurdità del nostro nascere involontariamente, del nostro catapultarci nel quotidiano tra sprazzi di gioia ed euforia e nauseabondi tunnel di merda costituiti dal lavoro obbligato e l’invidia per chi ha tanto e gode senza merito, per finire poi, appunto, sotto due metri, forse anche meno, di terra, pagando per giunta, facce di marmo in vestito blu, che campano sulle nostre morti.
    La vita è un teatrino dell’assurdo. Per questo amo Shakespeare. Nessuno come lui ha descritto la follia umana come vera essenza, altro che sanità mentale. Inception è un furbo prodotto made in America, ormai ci siamo infettati tutti con questo virus a stelle e strisce che fa sembrare oro bianco la carta. E poi basta con il: “Non ci capisco niente = capolavoro”.
    Personalmente per me la complessità è indagare sulla nostra esistenza. Se la forma è ricercata ottimo, ma se devo usare il dizionario solo perché l’autore voleva fare il figo non ha senso. Voglio dire la forma complessa da sola non mi interessa. Ci sino scrittori che scrivono in maniera complessa senza che ce ne sia bisogno, solo per vantarsi. Forse la vera complessità è un dono di natura e essa può far grande uno scrittore. Altrimenti restiamo nella vana camera della presunzione.

  5. Lorenzo Manara Says:

    Se la complessità di forma impedisce al lettore di immergersi nella storia allora non vedo il motivo di continuare il dibattito. Tutti gli elementi di distrazione sono dannosi per un romanzo, e non servono neppure a selezionare il pubblico in una sorta di test culturale dal sapore darwiniano. Un uomo di cultura potrebbe mostrare, almeno in apparenza, un coinvolgimento nei riguardi di un testo dalla costruzione stilistica complessa; invece sta solo mentendo a sé stesso per conformarsi a un bias comportamentale.

  6. marcocandida Says:

    Sì, comunque, quando Gilda Policastro, nel suo commento su Facebook riportato in apertura, distingue tra lettori e spettatori occorre fare un discorso. Ormai, i film non sono più destinati a un pubblico che va al cinema e mastica pop-corn ovvero a un pubblico distratto. Ora, i film si possono acquistare in Dvd o addirittura si possono vedere tutte le volte che lo si desidera sul tablet o sullo Smartphone. Una volta un produttoire faceva un filmetto, andavi al Drive-in con la morosa, abbassavi i sedili reclinabili e sì e no lo vedevi. Oggi il filmetto non lo si può fare più. Sulla rete ci sono schiere e schiere di siti dove si fa il conto di “errori” delle storie del grande schermo. Solo in Rocky IV, per esempio, 53 errori. E nei vecchi film western i pali della luce alle spalle di indiani e cowboy non si contano. E’ ovvio che i film si perfezionino, perché i film sono diventati “oggetti” come lo erano un tempo i libri o gli albi a fumetti o le musicassette. Sono lì, più facilmente consultabili. E nessuno ci tiene a fare brutte figure e a essere fucilato dai nerd. Quanto al tema del “post”, la complessità è un concetto che si può definire in molti modi e ognuno può scegliere la definizione che preferisce o rigettarle tutte e continuare a cercare.

  7. acabarra59 Says:

    “ 25 gennaio 1989 – Si può dire che ho cominciato a capire la letteratura attraverso il cinema? A contrario. “ [*]
    [*] Lsds / 73…

  8. Edoardo Zambelli Says:

    Buongiorno, cerco qui di chiarire un po’ meglio quello che intendevo dire.

    La mia riserva su Inception:
    Inception è, come abbiamo già detto, un film commerciale. Si presuppone che esista, quindi, una categoria (ampia, magari dai difficili contorni ecc.) che si chiama “commerciale”, dove si intende, credo, un prodotto concepito, prodotto e spinto per essere un successo anche commerciale. Dico “anche” perché i film di Nolan sono anche, il più delle volte, successi di critica. E, ripeto, effettivamente Inception un film commerciale lo è.
    La mia riserva, però, viene proprio dal fatto che invece Cella (ripeto, molto bello) non è un prodotto commerciale. Ha una complessità strutturale e linguistica che non lo rende commerciale.
    Ora, se a Cella qualcuno mi avesse accostato un prodotto cinematografico come, che so, Mulholland Drive di David Lynch, o Onirica di Majewsky, Barton Fink dei fratelli Coen, Il pasto nudo di Cronenberg (sono i primi che mi vengono in mente e non li accomuno a Cella sul piano del contenuto, ma su quello della complessità) allora avrei trovato il tipo di paragone un poco più calzante.
    Perché se invece mi si parla solo di trame complesse e in relazione a un prodotto come Inception mi verrebbe da rispondere che ci sono autori come Glenn Cooper o David Mitchell (sempre i primi che mi vengono in mente) che utilizzano strutture e trame molto complicate, ma sono dei prodotti commerciali e come tali vendono tanto. CI tengo a sottolineare che non sto facendo qui un discorso di valore (a me i libri di Mitchell piacciono un sacco, di Glenn Cooper alcune cose sì altre no).
    E da qui veniva uno dei punti del mio discorso: non mi sembra (e dico mi sembra) che al cinema si chieda qualcosa di diverso dalla letteratura. I film di Lynch, di Cronenberg e degli altri non hanno il valore commerciale, la richiesta, il successo che ha un film come Inception (ah, a me Nolan piace molto, eh, Inception compreso) perché, nonostante le apparenze, hanno una complessità di forma e linguaggio che è diversa da quella del film di Nolan.
    Per concludere: faccio un esempio su uno dei miei registi preferiti e su quello che è stato (ed è tutt’ora) uno dei film più celebrati degli anni 2000: Mulholland Drive di David Lynch.
    Cito da Wikipedia (per comodità, ma la stessa cosa la trovate anche in Lynch on Lynch, pubblicato in Italia da Il Saggiatore col titolo Io vedo me stesso): Mulholland Drive è stato concepito inizialmente come un episodio pilota di una serie televisiva commissionato dall’emittente ABC con l’intento di ripetere il successo ottenuto da Lynch con I segreti di Twin Peaks. Il progetto venne accantonato perché la ABC non era soddisfatta delle scene girate, preoccupata per il finale aperto e la trama complicata: l’episodio non venne mai trasmesso.
    Alla fine, Lynch ha trovato dei finanziatori esterni (se non ricordo male in Francia) che gli hanno permesso di girare scene aggiuntive e dare una forma compiuta a quello che poi sarebbe diventato il film. Che è uscito, ha vinto il premio per la miglior regia a Cannes, è riconosciuto come un capolavoro, ma non credo abbia avuto il successo commerciale di uno qualsiasi dei film di Nolan.

    Questa la lunghissima precisazione sulla mia riserva per quel che riguarda l’esempio Inception.
    Detto questo, però, ci tengo a sottolineare come la questione sollevata dalla Policastro (l’ho già detto ma lo ripeto) era un’altra. E, detto in breve: perché si ritiene che il pubblico cinematografico sia in grado di decodificare una trama complessa mentre invece si ritiene che il pubblico letterario sia incapace (o al limite non interessato) a farlo?
    E la mia risposta rimane invariata: non ne ho idea. Una buona risposta mi pare, però, quella data da Massimo Cassani nel corso della discussione. E in questo discorso io entro, tra l’altro, da chiamato in causa. I miei libri sono stati ripetutamente rifiutati proprio con motivazioni di quel tipo (trama troppo complessa, atmosfera troppo fantastica, finale troppo aperto, troppo poco chiaro, a chi vuoi che interessi una trama così e via dicendo).
    A questo punto, che è la cosa che mi incuriosisce di più, mi pare che forse sarebbe il caso di domandarsi: perché le forme complesse (di linguaggio, di struttura, di quel che volete) tanto nella letteratura come nel cinema hanno bisogno di tutto un processo di commercializzazione (inteso come: un processo che le renda commerciali) per poter essere considerate interessanti, appetibili, decodificabili ecc.?
    Di nuovo, una risposta non ce l’ho. In sostanza, sto dando voce alla mia confusione. Se sono stato poco chiaro, chiedo scusa.

  9. Ambra Says:

    Io credo che Marco Terracciano abbia centrato il problema che si era creato nelle precedenti puntate, e soprattutto abbia centrato il paragone, che nella lettere di Zambelli risultava fuorviante. I film di Nolan non sono complessi se non per chi al cinema va raramente perché la trama e il metodo con cui essa è portata in scena è sempre molto semplificata. Allo spettatore non è mai chiesto uno sforzo interpretativo per capire ciò che il regista vuole dire o vuole far intendere, lo spettatore è anzi accompagnato per mano in ogni passaggio dai dialoghi fra i personaggi e le scene che gli vengono mostrate (azzeccato l’esempio di Inception e la città che si piega su se stessa). In quanto a “capacità di decodificare” e complessità paragonabili agli autori letterari complessi dovremmo prendere film come Melancholia di Lara Von Trier o, anche senza uscire dalla comfort zone del realismo e delle dinamiche familiari e senza avventurarci in immagini di difficile decodificazione, un film come “È solo la fine del mondo” di Xavier Dolan, dove le immagini e gli schemi seguiti sono tutti facilmente comprensibili anche da chi di cinema non se ne intende, ma a dare complessità e richiedere interpretazione sono i personaggi, il rapporto che intercorre tra loro, i dialoghi, le distanze percepite e così via.
    E come succede nella letteratura così nel cinema, i film cosiddetti “autoriali” non hanno successo se non per pochi intenditori. Non vendono o vendono raramente e comunque con cifre contenute rispetto a Fast&Furious e simili.
    Per intenderci Fast&Furious è paragonabile a Twilight o 50 sfumature di grigio. Film e libri con storie conosciute e riconosciute da tutti per chi cerca intrattenimento semplice senza inciampare in difficoltà.
    Inception è paragonabile alle Cronache del ghiaccio e del fuoco. Macrostoria ben gestita, microstoria avvincente e ricca di cliffhanger che suscita il desiderio di sapere come finirà, personaggi con cui si sviluppa empatia, anche una certa profondità magari nel messaggio che lascia il film o il libro, ma comunque non è richiesto nè al lettore nè allo spettatore niente di più di “seguire la storia”, al massimo ci si può divertire a tentare di anticiparne il finale, ci può essere una riflessione sulla crudeltà e il potere (Cronache) o sulla creatività e la possibilità di manipolare gli altri (Inception), ma nulla di più.
    Invece film come “Le onde del destino” o, appunto, “È solo la fine del mondo” richiedono un certo grado di intraprendenza e un ruolo attivo dello spettatore che deve capire ciò che viene solo suggerito, decodificare certi rapporti, certi dialoghi e inserirli di sua spontanea volontà nel contesto sociale del protagonista. Insomma gli vengono dati dei riferimenti senza però guidarlo passo passo in una storia confortevole, preparata e cucinata per essere facilmente digeribile, come potrebbe essere nella letteratura un “Pastorale americana” di Philiph Roth.
    Per non parlare di film rivolti proprio ai cinefili e che difficilmente potranno lasciare altro che sgomento in uno spettatore da blockbuster, come “Holy motors”, paragonabile letterariamente a VanderMeer con la sua Trilogia dell’area X . Bisognerebbe chiedere a uno spettatore affascinato da Nolan di vedere Holy motors e si capirebbe subito la differenza tra chi riesce a fare un passo avanti e decodificare linguaggio e rappresentazione cinematografica e chi comunque è ancorato a una visione tradizionale e di intrattenimento (per quanto ottimamente esposto) di cinema. Esattamente come la nostra differenza tra chi legge la saga di Harry Potter – che io amo, tra l’altro – e chi comprende la bellezza di Moby Dick.

  10. stefano Says:

    Io aggiungerei che il punto non sta nella complessità, ma nell’autorialità. Perché possiamo più o meno accordarci su cosa sia la complessità, ma non c’è dubbio che i film di Nolan (che tra parentesi, avrebbero bisogno di un buon sceneggiatore, visto il tasso di stucchevolezza di molte scene di Interstellar) per quanto ingarbugliati siano confezionati come altri blockbuster, mentre proprio come detto da Terraciano alla fine ci sono tanti film d’autore, anche meno complessi di quelli di Nolan, che però sono talmente autoriali che pur essendo comprensibilissimi respingono la massa. Annoiano a morte, per essere chiari. Più il linguaggio si frappone più sale la noia.

  11. sergiogarufi Says:

    Giulio ha detto che il pezzo di Gilda Policastro in realtà non era incentrato sul libro di Teresa Ciabatti, nonostante il titolo. In realtà non era incentrato neppure sulla critica e sulla sua supposta eutanasia. O sulla complessità dei linguaggi delle narrazioni. Il vero centro dei suoi interessi lo ha appena rivelato col suo intervento su fb, ed è una domanda angosciosa che ripete da anni. Com’è che i miei libri non vendono? Una volta la colpa è dell’editore, che per pavidità lo ha stampato con una tiratura troppo modesta (come affermò tempo fa proprio qui), ora è del pubblico, che si spaventa davanti alle narrazioni “complesse”. E se fossa colpa della stessa autrice? No, eh?

  12. SimoneGhelli Says:

    Mi sembra che il pezzo di Terracciano faccia un po’ di chiarezza sull’argomento, che non è cosa di poco conto quando si arriva dopo una discussione che ha generato un commentario piuttosto esteso (con relative biforcazioni che spesso portano lontano dal centro del problema). Per il resto, io rimanderei alle questioni semiologiche già sollevate in passato da Pasolini, Christian Metz (ad esempio il saggio “Cinema e letteratura. Il problema dell’espressività filmica”) etc etc riguardo alle differenze tra i due linguaggi (cinematografico e letterario), che non sono di poco peso relativamente alla comprensione di un’opera filmata e di un’opera scritta. Come scritto poco più sopra da @Stefano “più il linguaggio si frappone più sale la noia”.

  13. Giulio Mozzi Says:

    Sergio, anch’io mi domando perché certi libri che mi sembrano assai belli vendono molto poco.

  14. Impoverimento della poesia? Sul dibattito recente | Alessandro Canzian Says:

    […] In questi giorni in rete sono apparsi alcuni articoli/discussioni sulla narrativa italiana a partire da un’affermazione di Gilda Policastro su le paroleelecose.it (La più amata dagli italiani. Teresa Ciabatti e l’eutanasia della critica). Nello specifico una frase della Policastro (Già un decennio fa un saggio capitale come La lettera che muore di Gabriele Frasca si interrogava sulla ragione per cui ai videogiochi, ad esempio, o alle serie televisive, si chiedano strutture e linguaggi ben più complessi di quelli che pare possano soddisfare le aspettative dei lettori: “Perché quest’ansia di semplificazione”, si domandava Frasca, “riguarda solo la narrativa letteraria?”) ha prodotto tutta una serie di risposte tra cui quella di Giulio Mozzi (Perché alla letteratura si chiede di impoverirsi, mentre altri media narrativi – il cinema, le serie tv, i videogiochi – continuano ad arricchirsi? – appunto aperto), di Alessio Cuffaro (Mozzi, i Radiohead, la Policastro e il nostro bisogno di consolazione), di Mozzi nuovamente in risposta a Cuffaro (Ancora su letteratura e semplificazione – risposta ad Alessio Cuffaro) e altre su Vibrisse tra cui quelle di Roberta Durante (Chi ha investito nella formazione/crescita di un pubblico?), Edoardo Zambelli (Di cosa stiamo parlando esattamente? Di forme complicate o del perché le forme complicate non vendono, non sono comprese?), Marco Terraciano (Che cosa intendiamo per “complessità”?). […]

  15. acabarra59 Says:

    Chiedo a Giulio, ma anche a tutti i gentili partecipanti al ddibbattito: potreste fornirmi una lista di dieci libri assai belli usciti negli ultimi dieci anni? Io, una tantum, sarei disposto a comprarli e, soprattutto, a leggerli. Sono un povero vecchio, è vero, ma ” de bonne foy “, come direbbe il vecchio Montaigne.

  16. Ma.Ma. Says:

    A furia di sentirne parlare oggi mi sono guardata Inception, così finalmente so di che cosa si parla: mi è piaciuto molto. Certo: è un film d’azione (fin troppo per i miei gusti) e tanto basta per renderlo attraente o, come dire: non noioso. Ma la domanda che mi sono posta era un’altra: è difficile? No. Non lo è. A me non ha richiesto nessunissimo sforzo di comprensione (ho solo dovuto giocare con il telecomando per alzare il volume quando parlava il giapponese che stentavo a capirlo, e abbassare quando i rumori di fondo mi uccidevano i timpani). Ho trovato tutto molto chiarissimo. La storia è lineare? In un certo senso sì, decisamente, anzi. I salti spazio-temporali hanno reso interessante lo svolgersi del film, e non hanno generato confusione, quasi nemmeno disorientamento. Sono riusciti a ricreare esattamente la sensazione che si ha quando si sogna e da un sogno si salta a un altro. Ci hanno messo una sottotrama evidente a tutti i livelli della storia. E i messaggi sono stati ben rappresentati, come i livelli dell’inconscio.
    Di complesso è di certo la pensata, la trama, ma non lo sviluppo: le sequenze delle immagini permettono una perfetta comprensione (sembra quasi un videogame!).
    E se l’ho capito io – senza alcuno sforzo, tranne per l’audio come ho già detto – che dal 2005 ho visto solo due film al cinema, uno nel 2009 e uno nel 2011; e in genere guardo solo telefilm o sitcom, e che pertanto non ho nessuna abitudine ad alcun codice decodificabile dall’esperienza, be’, significa davvero che non è complicato; complesso, ma realizzato in modo facile… se riesco a farmi capire. E – per intenderci – a me non piace Di Caprio e nemmeno il tipo coi capelli leccati sulla testa.
    Quindi resto davvero un po’ stranita da questo paragone.
    E aggiungo: mi è parso molto più “difficile” (bello, ma non proprio lineare) il romanzo “Chiedi alla Luce” di Tullio Avoledo, pubblicato l’anno scorso, dove si capisce solo dopo una buona metà del libro, il probabile motivo per cui ci sono tutti quegli sbalzi spazio-temporali, mentre del film Inception è chiaro sin da subito, circa. E in ogni caso “Chiedi alla luce” è stato per l’appunto pubblicato… (poi magari non ha venduto, ma questo non posso saperlo).

  17. Cristian miotto Says:

    ACABARRA 59: leggi Filippo Tuena (Stranieri alla terra, Ultimo parallelo, Variazioni Reinach) non ha pari.

  18. Cristian miotto Says:

    comunque non dimentichiamo una cosa semplice: il film viene a te, mentre per la pagina sei tu che devi andare a lei. Insomma vedere un film non richiede sforzo e la limite neanche volontà. per leggere c’è un po’ di sforzo da fare.

  19. sergiogarufi Says:

    Un buon libro non è una finestra su Gardaland e neppure la dimostrazione della congettura di Poincarè. Ricorda piuttosto la pelle di zigrino, che più esaudisce i desideri del lettore e più gli accorcia la vita (interiore).

  20. Fabio Carpina Says:

    Solo una nota a margine: mi pare curioso che tra i film complessi, nei vari sensi attribuiti al termine nel corso della discussione, si citino solo film stranieri. Mi pare che la cinematografia di Fellini, di Pasolini, o ai giorni nostri di Sorrentino, risponda al requisito di “alto tasso di figuralità”; quello che attira alcuni, e a tutti gli altri fa dire “sì, vabbè, però che palle!”.

  21. Valentina Durante Says:

    “Ciò che disturba spesso il lettore di narrativa (scritta) è la dichiarata tendenza degli autori a complicare le forme d’espressione, a distorcere la consueta percezione della realtà, a rendere faticose anche le strutture di senso più semplici e quotidiane.”
    Parto da questa interessante (e condivisibile) considerazione di Marco Terracciano – che identifica la complessità del testo in una determinata struttura formale – per fare alcune considerazioni.
    Io, per lavoro, scrivo testi semplici: che devono essere rivolti a un pubblico sufficientemente ampio da generare profitto o giustificare l’investimento in comunicazione. Per scrivere un testo semplice, mi attengo a una serie di linee guida: alcune codificate da altri, altre apprese grazie all’esperienza. In sintesi, un testo semplice:
    – utilizza parole semplici e riduce (o elimina del tutto) parole ricercate, desuete o molto formali (un riferimento indicativo può essere il “vocabolario di base” teorizzato da Tullio De Mauro);
    – limita i tecnicismi specifici (o, quando, necessari, li chiarisce alla prima ricorrenza) ed elimina gli pseudotecnicismi;
    – utilizza parole concrete e limita le parole astratte (“Che brutta cosa… è il nome astratto! Avvolge i pensieri di un uomo come ovatta.” – scriveva Arthur Quiller-Couch all’inizio del Novecento, in epoca ben pre-Internet);
    – utilizza frasi brevi (in media attorno alle 20 parole, mai superiori alle 40 parole);
    – preferisce la paratassi all’ipotassi;
    – limita gli incisi;
    – limita l’uso del gerundio;
    – preferisce la forma attiva alla forma passiva;
    – limita l’uso della nominalizzazione;
    – limita le parole lunghe e le circonlocuzioni;
    – si attiene a un uso canonico della punteggiatura (che io non saprei definire, a onor del vero; ma che per i miei clienti è invece limpidissimo).
    Detto questo, si potrebbe concludere che sì: esistono delle caratteristiche che rendono un testo intrinsecamente semplice (o chiaro, facilmente leggibile, fruibile, non complesso, eccetera). Ovviamente questa conclusione è errata, giacché sappiamo bene che “semplice”, “chiaro”, “leggibile”, tutti questi aggettivi non si riferiscono a qualcosa che sta *nel* testo, ma descrivono indirettamente la *nostra” reazione a esso, il modo in cui ci fa sentire. La semplicità è una qualità non intrinseca, ma relazionale, in quanto dipende dalla relazione che si instaura fra testo e lettore. Dunque, secondo me, la domanda “Che cosa intendiamo per complessità”? andrebbe capovolta in “Come si definisce la complessità in relazione a un determinato pubblico?” e, soprattutto, “Quanti pubblici possiamo identificare in relazione alla complessità?”
    Ecco, una cosa che a me disorienta in tutta questa discussione è proprio la presenza (o meglio: la percezione) di una dicotomia: o è facile o è difficile, o è semplice o è complesso. Sarebbe come se, nel settore dell’abbigliamento, ci fossero due sole categorie di prodotto, per due tipi di pubblico: i vestiti per le persone grasse e i vestiti per le persone magre (con la difficoltà, poi, di stabilire chi è “grasso” e chi è “magro” dal punto di vista di un capo di vestiario). Ora, è vero che io tendo a creare parallelismi forse artificiosi con settori molto diversi e che questo allontana dal nocciolo della questione, ma quando Gilda Policastro dice “i miei testi devono essere adattati per compiacere il pubblico” e quando Edoardo Zambelli dice “i miei testi sono stati respinti per enne motivi”, sia Policastro che Zambelli stanno in realtà dicendo: uno (o più editori) ha ritenuto che il mio testo, così com’era, non fosse in grado di rivolgersi (o essere apprezzato) da una quantità di persone tali da generare un profitto e giustificare un investimento. Questo non significa, secondo me, che questi testi sono intrinsecamente difficili o complessi ma che sono stati ritenuti complessi in relazione a un determinato tipo di pubblico. E chi è questo pubblico? È un pubblico che costituzionalmente respinge come “difficili” o “complessi” certi tipi di narrazione? È un pubblico monolitico, al quale bisogna rivolgersi attenendosi alle linee guida che ho descritte sopra? Oppure è un pubblico che potenzialmente potrebbe apprezzare testi via via più complessi, se solo fosse accompagnato a farlo? E poi, dentro questo pubblico, quanti tipi di pubblici (di target) esistono? E quanti tipi di complessità esistono?
    Marco Terracciano ha citato, nel suo intervento, un estratto da “Le correzioni” di Jonathan Franzen, definendolo (e lo condivido) un testo dalla forma non semplice. Il testo di Franzen potrebbe, dunque (e questo avviene), scoraggiare un lettore poco avvezzo a *quel* tipo di complessità formale. Ma allo stesso tempo, quello stesso lettore potrebbe accostarsi senza problemi (e, per esperienza mia, lo fa) a un testo come questo: “Tecnologie scalabili, servizi di consulenza strategica e gestione specialistica al servizio della protezione degli interessi delle organizzazioni: XYZ utilizza esperienza, professionalità e le migliori competenze per realizzare efficienti sistemi di sicurezza, mediante una visibilità completa degli endpoint, la successiva analisi degli stessi nel rispetto delle direttive forensi e la correlazione dei vari eventi. Analisi degli hash, ricerca costante di malware e attacchi ATP (Advanced Persistent Threat) mediante il computo dell’entropia, sono solo alcune delle tecniche utilizzate dalle soluzioni XYZ. La capacità di pianificare e sviluppare soluzioni ad hoc, tarate e dimensionate sulle esigenze del committente, è uno dei punti di forza del team XYZ, che offre l’unione di soluzioni reattive e proattive in modo da limitare l’esposizione al dolo del know-how aziendale.”
    È un testo formalmente meno complesso? Non credo. Si tratta, è vero, di una complessità diversa e certo non pregevole dal punto di vista artistico, ma l’investimento intellettivo per decodificare l’astrazione, i tecnicismi, il periodare lungo eccetera non mi sembra inferiore a quello necessario per il testo di Franzen. Come scrivevo in un mio precedente intervento (collegandomi, peraltro, a un’osservazione fatta da C.P., ripresa poi da Massimo Cassani), non credo esista un’ostilità innata alla complessità (così come non esiste una complessità tout court), ma solo una scarsa dimestichezza con l’uso di un determinato codice. E su questa scarsa dimestichezza si può, secondo me, lavorare. E si può farlo, secondo me, proficuamente, cominciando a non ragionare non più per bipartizioni (facile / difficile, semplice / complesso), ma per pluralità di pubblici (target) suscettibili a una formazione / crescita nel medio e lungo periodo.

  22. marco terracciano Says:

    Il paragone tra il testo di Franzen e quello su “Analisi degli hash, ricerca costante di malware e attacchi ATP (Advanced Persistent Threat) mediante il computo dell’entropia” è molto interessante ed estende certamente il concetto di “complessità” di un testo scritto, modellandolo a partire dal contatto con un certo tipo di pubblico, dunque tenendo presente prima di tutto il destinatario del messaggio letterario e la bega della condivisione di codice.
    È evidente che non è possibile ignorare lo sconfinato universo dei fruitori di un’opera narrativa quando si ragiona, appunto, sulla più o meno complessa fruibilità della stessa. È altrettanto evidente, però, che i lettori di Franzen sono – semplifico – i lettori della forma romanzo, fruitori di un’opera artistica da cui ci si aspetta sempre e comunque godimento estetico. La complessità del testo su ” Analisi degli hash, ricerca costante di malware e attacchi ATP (Advanced Persistent Threat) mediante il computo dell’entropia” (mi si perdonerà il secondo copia/incolla dal momento che non saprei sintetizzare l’argomento in due parole) è una complessità funzionale, necessaria e per questo accettata – seppur con qualche riserva – dal lettore (in ogni caso specializzato).

    Alla domanda “è un testo formalmente meno complesso?” rispondo: credo di sì.
    Riprendo il concetto di “tasso di figuralità” elaborato nella teoria freudiana della letteratura di Francesco Orlando: un testo come l’incipit de “Le correzioni” altera il normale rapporto tra significante e significato, il testo su “su “Analisi degli hash, ricerca costante di malware e attacchi ATP (Advanced Persistent Threat) mediante il computo dell’entropia” (giuro che questo è l’ultimo copia/incolla) segue il principio opposto: si sforza di non alterare il rapporto tra significante e significato perché ha bisogno che il lettore – avvezzo ad un linguaggio settoriale che, ripeto, è in questo caso necessario – capisca senza fraintendimenti il messaggio che intende comunicare.

  23. Pensieri Oziosi Says:

    L’entropia nell’incipit di Franzen è un’invenzione di Silvia Pareschi, la traduttrice. L’originale recita: “Gust after gust of disorder”.

    Poco dopo, “the nasal contention of a leaf blower” viene reso con “la contesa nasale di un soffiatore da giardino”. Contention ha due accezioni: quello di contesa e quello di asserzione: a mio avviso la traduttrice ha pescato quella errata. Io avrei tradotto “le affermazioni nasali di un soffia foglie”.

    La zoysia è un tipo di erba, diffusa nei prati dei giardini d’oltreoceano, e in inglese è un nome comune che si ritrova nei vocabolari generalisti. In italiano zoysia non si usa se non nella nomenclatura scientifica.

    Non è che per caso la complessità di questo incipit è un artefatto della traduzione?

    @emiliacapasso:

    Io penso che tra circa tre decenni, noi che scriviamo qui su questo blog saremo tutti sotto due metri di terra.

    Parla per te.

  24. Spunti Cardinali Says:

    Non avendo letto tutti i commenti potrei ripetere quanto già detto. Me ne scuso.

    Leggendo stralci qua e là mi pare che sia stata fatta, dalla Sig.na Policastro per prima, una gran confusione tra forma e trama.
    È innegabile che il film sia più fruibile e consenta maggiore complessità perché ciò che mi permette di decodificare la storia l’ho Visto novanta minuti e non Letto la settimana scorsa, ma il problema è, a mio parere, un altro: un film commerciale risponde a rigorose regole che ne dettano il ritmo e il linguaggio. La più importante è quella che prescrive di eliminare ogni dettaglio, scena o dialogo che non porti avanti la Storia. Questo in letteratura non succede.
    Ciò che quindi non si perdona, non se ne abbia la Policastro, è l’assenza o il rallentamento della Storia, indipendentemente dalla complessità della forma. In Cella la Storia scorre nel primo capitolo, che infatti si legge con piacere, per poi arenarsi irrimediabilmente. Per i seguenti tre o quattro capitoli la Policastro tenta faticosamente e senza successo di rimorchiare avanti la barchetta; infine, per fortuna, si arrende.
    Il punto, a mio parere, è quindi questo. Con buona pace della Policastro, il problema di Cella non è la complessità, ma la scarsa consistenza della storia.

  25. Cristina Venneri Says:

    È dall’inizio della querelle che non riesco a interpretare il dubbio di Policastro. Cioè, quando accosta due elementi di paragone che stanno su piani diversi: i complessi film di Nolan (quindi pompati da operazioni di marketing per noi inimmaginabili) e i suoi bei libri non commerciali. Io eviterei anche di chiamare a paragone la letteratura e – non solo qualsiasi mezzo espressivo visivo, come giustamente appunta Terracciano – qualsiasi mezzo espressivo moderno/contemporaneo. Vorrei sottolineare, senza continuare a fingere che fuori da questi bellissimi blog in cui a tutti noi piace scrivere e leggere aleggi lo stesso piacere per la lettura, che pur sempre di lett(erat)ura stiamo parlando. Sarebbe interessante conoscere i numeri dei lettori dei best-seller e quelli degli spettatori dei relativi colossal.

    In ogni caso, mi piace sempre ricordare che la letteratura nasce come oralità (poi diventa rappresentazione, infine libro) giusto per mettere carne al fuoco.

    Proporrei, invece, di venire finalmente al punto che credo interessi Policastro quanto noi: cosa intendiamo, parlando di letteratura contemporanea, per libri complessi ovvero non commerciali? I due aspetti coincidono sempre e comunque? Nello specifico, la semplificazione (quando è richiesta) avviene a favore del lettore medio? E quindi: a chi ci rivolgiamo quando scriviamo (immagino che la letteratura per ragazzi non si ponga simili questioni) e quando vendiamo?

  26. marco terracciano Says:

    @Pensieri Oziosi
    “Non è che per caso la complessità di questo incipit è un artefatto della traduzione?”.
    Possibilissimo. Mi rendo conto che una riflessione sulla forma che prenda come esempio un testo non nella sua lingua originale ma in traduzione possa suscitare qualche perplessità. Eppure, secondo me, il succo non cambia: la mia non è una riflessione sullo stile di Franzen, ma una riflessione sul grado di complessità (rilancio con “tasso di figuralità”) che può raggiungere la letteratura (che si faccia l’esempio di un testo in traduzione non ha molta importanza).
    Il tutto paragonato alla forma d’espressione delle opere cinematografiche.

    Per completezza invito a sostituire l’incipit de “Le correzioni” con questo:

    “Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un’Andromeda cui la tonaca di padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì per un bel po’ di rivedere l’argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.” [Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958]

  27. donatella Says:

    trovo condivisibili buona parte delle affermazioni precedenti ma, per rifarmi al titolo del post, il concetto di complessità è proteiforme; mi spiego meglio con un esempio: il testo di Federica Pittaluga(che ho trovato molto bello) è un testo complesso, che suppone vari, e non facili, piani di lettura, eppure la forma è molto scorrevole e facilmente comprensibile, senza alcun uso di Garzanti. E fatica a trovare un editore. Forse, ha ragione Policastro quando collega il concetto di complessità a una difficile commerciabilità.

  28. Pensieri Oziosi Says:

    Eppure, secondo me, il succo non cambia: la mia non è una riflessione sullo stile di Franzen, ma una riflessione sul grado di complessità (rilancio con “tasso di figuralità”) che può raggiungere la letteratura (che si faccia l’esempio di un testo in traduzione non ha molta importanza).

    E però se il grado di complessità di un testo può venire così facilmente alterato dalla traduzione, non è forse un accidente del testo invece che il risultato di una precisa scelta autoriale?

  29. davide Says:

    “anchio mi chiedo perchè libri che mi sembrano assai belli vendano molto poco”

    delle due l’una, Giulio:

    -o quei libri NON son belli tout court

    -o, piu probabile afferisci a un concetto di bellezza quantitativamente minoritario (ho detto quantitativamente)rispetto alla % del mondo che fruisce della stessa …opera

  30. Giulio Mozzi Says:

    Appunto, Davide: il fatto che un “concetto di bellezza” sia “quantitativamente minoritario” non significa né che sia vero né che sia sbagliato.

  31. codici e decodifiche | la vie en beige Says:

    […] questo post di Gilda Policastro perché l’ha già pubblicato Giulio Mozzi su Vibrisse, il bollettino letterario che cura da anni, e lo faccio perché mi hanno colpito alcuni suoi […]

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