di giuliomozzi
Istigato da Edoardo Zambelli, che considera Alberto Ongaro un suo maestro, se non addirittura il suo maestro (e, innegabilmente, il romanzo d’esordio di Zambelli, L’antagonista, è tutto un omaggio a Ongaro – o, se si vuole, a un certo modo di far funzionare l’immaginario del quale Ongaro, ma anche il suo a lungo sodale Hugo Pratt, è un esponente assai rappresentativo), ho finalmente letto il romanzo appunto di Ongaro L’ombra abitata, pubblicato da Longanesi nel 1988 e ora disponibile in edizione digitale presso Piemme. E’ un romanzo ottimamente scritto, con quella scrittura apparentemente sbrigativa ma in realtà precisissima che è il marchio di fabbrica di Ongaro; ma di questo non parlerò. Vi parlerò della storia, e del modo in cui viene raccontata.
Il dispositivo d’avvio è semplice: un uomo maturo, con un’intensa vita alle spalle, italiano di Venezia, proprietario a Londra di un prestigioso negozio di arte africana e oceanica, va a vedere una mostra di un grande fotografo scomparso un paio d’anni prima. E s’imbatte in un’immagine che ritrae, presa di spalle e di nascosto, Rose, la ragazza che lo fece impazzire (d’amore e di disperazione) a Parigi più di vent’anni prima, mentre a un tavolino di bistrot si protende a baciare un ragazzo del quale non si vede il viso (la testa di Rose lo copre) ma sicuramente non è il ragazzo che lui era più di vent’anni prima. Cosa fareste voi al suo posto? Non importa: lui prende su, sistema due affari, avvisa la molto più giovane compagna Pauline (ma non le dice il vero motivo; peraltro il suo lavoro impone frequenti viaggi) e va a Parigi. Qui fa ciò che vi aspettate: cerca.
Che cosa cerca? Perché cerca? Non è importante: importante è la ricerca in sé; è la ricerca che ha un significato, e non ciò che si cerca.
La storia nell’oggi del romanzo, ossia la ricerca, è raccontata in prima persona; ad essa si alterna, in capitoletti di lunghezza equivalente, in terza persona, la storia del “ragazzo” e del suo amore per Rose, della sparizione di Rose, delle peregrinazioni del ragazzo (che, imbarcatosi per disperazione e finito in Africa e in mille altri posti, pian piano diventa uomo), dell’incontro con Pauline ancora bambina, del reincontro con Pauline a molti anni di distanza, eccetera eccetera. Come potete immaginare, l’ultima pagina (forse un po’ didascalicamente) presenta il ragazzo diventato uomo che esce dal suo negozio di arte africana e oceanica per andare a una mostra di fotografia.
Ora: questa struttura non è particolarmente complicata; l’alternanza di prima e terza persona è naturalissima; non si può dire che L’ombra abitata sia un romanzo innovativo (ricordo: fu pubblicato nel 1988, quando ormai nel romanzo era stato sperimentato, ed era diventato strumentazione ordinaria, quasi tutto).
Ciò che mi ha impressionato è che Ongaro mi ha costretto quasi a ogni pagina a immaginare. Leggevo, e facevo continuamente ipotesi; che venivano (tranne una, e non la dico) regolarmente smentite. Nella mia mente si affollavano, e confesso che tuttora ci restano, narrazioni divergenti, sliding doors, possibilità di storie che via via venivano escluse ma mai in maniera netta e decisa e continuavano a stare lì, affacciate sul romanzo com’ero affacciato io sul libro aperto. Poco conta che a un certo punto, poiché come tutte le cose umane anche i romanzi hanno la sciagurata tendenza a finire, Ongaro abbia trovato qualcosa che forse somiglia troppo a un espediente: perché anche quando tutto viene esplicitato, e il romanzo comincia a precipitare verso l’ultima pagina, restano delle elusioni che mi hanno reso, me che leggevo, incerto sulla verità di ciò che mi veniva raccontato:
“Non costringermi a dire delle banalità”, mormorò poi. “Non risponderò a questa domanda. Del resto puoi bene immaginare la risposta”.
Di storie intricate ne ho lette tante, di romanzi di tensione ne ho letti tanti, potete immaginare, ma ben poche volte mi è capitato di pensare così tanto durante la lettura; e poche volte mi è capitato di terminare la lettura con la voglia (velleitaria, ovvio) di mettermi seduto, aprire il libro in un punto a caso, spostare un dettaglio di pochi centimetri o di pochi minuti, e provare a vedere cosa sarebbe successo. Nella mia immaginazione c’è un ragionevolissimo (narrativamente, dico) incesto (che nel libro non c’è), c’è un paio di suicidi (ma non quelli che effettivamente ci sono; anzi, uno di quelli che sono nel romanzo potrebbe essere simulato), eccetera, e soprattutto c’è un’immaginazione terrificante, alla quale Ongaro per tutto il romanzo si rifiuta, addirittura esplicitamente, ma della quale ahimè (contro di lui) sono pienamente persuaso: la ragazza che compare di spalle nella fotografia non è Rose. E nonostante questo, nonostante sia tutto un equivoco, la ricerca agita dal protagonista lo porta esattamente dove deve portarlo (davanti a un distributore di benzina in via dei Vinaigriers, come avrete già capito).
12 marzo 2017 alle 12:19
È quel genere di «recensione» così avvincente e compiuta in sé che, per non guastarne l’impressione, forse eviterò di leggerne l’oggetto!
12 marzo 2017 alle 16:28
MI piace, ma forse non avresti dovuto svelare che Rose non è Rose….
12 marzo 2017 alle 16:30
Ho scritto che è una mia immaginazione, Elena.
12 marzo 2017 alle 17:21
Questa è bella. Dunque un esempio di romanzo che suscita immaginazione nel lettore, nel recensore e nella lettrice della recensione. E magicamente a quest’ultima pare realtà Interessante 🙂 Comunque lo leggerò
14 marzo 2017 alle 20:18
Credo che indurre il lettore a formulare ipotesi narrative sia una caratteristica di Ongaro. Ricordo di avere immaginato vari finali per “Il segreto di Caspar Jacobi. Quello vero mi è sembrato un po’ tirato via, deludente. Non così “L’ombra…”, mi sembra. Non avevo in mente questo autore da tempo, lo riprenderò.
14 marzo 2017 alle 23:30
Ho questo libro nella mia biblioteca da molti anni (sottratto dai libri di mia madre, sulla scorta del suo entusiasmo): credo sia arrivato il momento di leggerlo, non fosse altro per dire a mia madre, appunto, che aveva ragione.
21 marzo 2017 alle 14:47
Davvero interessante (oltretutto fra tre mesi devo andare a Parigi). Per chi come me preferisse decisamente la carta agli ebook, segnalo che io l’ho ordinato su Maremagnum e dunque dovrebbe essere reperibile anche seguendo questi canali.
11 Maggio 2017 alle 15:46
Ecco: ora che l’ho letto (soprattutto per “colpa” tua, ma pure per colpa di Zambelli) mi resterà sempre un dubbio… Mi è piaciuto perché ho subito una sorpresa puntenziata da un tuo inganno (letto qui e sentito durante una lezione di bottega), oppure perché era bello? Mi sa che hai giocato a sostituirti all’autore e… accidenti: hai vinto!
11 Maggio 2017 alle 15:56
(potenziata)