di Marco Candida
[Il testo si intitola La rivoluzione di Quentin]
con affetto a Quentin Tarantino
È sbalorditivo constatare quanto Ernest Hemingway sia debitore di Sherwood Anderson. Eppure, pochi autori come Hemingway hanno consolidato il cammino della letteratura negli ultimi decenni – e qui “letteratura” ha valore altissimo: significa soprattutto “modalità di rappresentazione del mondo”. Esempi come quelli di Hemingway, in letteratura, ce ne sono un bel po’. Generalmente, sappiamo che tutti i grandi autori, o una parte non trascurabile d’essi, sono debitori. Forse, però, questa parola, la parola “debitore”, colpisce ormai in maniera troppo debole la nostra immaginazione. Infatti, se i grandi autori sono “debitori”, allora dobbiamo immaginarci “debitori” “pieni e strapieni di debiti”: non soltanto un paio di collane in una gioielleria e qualche bottiglia di whisky nel negozio di liquori sotto casa. Se sono “ladri”, li dobbiamo immaginare non semplici furfantelli che svaligiano un appartamento o commettono qualche scippo per strada: piuttosto quel tipo di birbanti che s’impadroniscono di capitali interi, società, know-how. Ecco, questo è il tipo di “debitori” o di “ladri”, se vogliamo usare i vocaboli “ladri” e “debitori”, che dobbiamo immaginarci. Ma, se sono “debitori” o “ladri”, che cosa consente a questi grandi autori di seguitare a essere considerati “grandi”? O, ancora meglio: perché questi autori sono indubitabilmente più grandi, importanti, belli e migliori degli altri autori?
Difficile dare una risposta, restando sulle generali. Ma possiamo dire che un autore è grande quando irrobustisce un modo di vedere il mondo, lo pone all’attenzione definitiva degli altri e gli altri se ne accorgono grazie a quell’autore e si mettono a utilizzarlo. Il grande autore compie gli ultimi cento metri, però al termine di quei cento metri c’è il traguardo, ed è il resto dell’umanità a tagliare assieme a lui quel traguardo. Pertanto, tutti quei debiti che il grande autore contrae, in fin dei conti, sono solo “prestiti”. Tagliando il traguardo, il grande autore restituisce tutto, e con gli interessi. Il grande autore, in letteratura, è quello che riesce a far diventare utile per gli altri qualcosa che sembra, spesso, non avere alcuna utilità: appunto scrivere libri, inventare storie.
Non a caso questo testo parte da Ernest Hemingway per introdurre la figura di Quentin Tarantino. Infatti, Ernest Hemingway è l’esempio più compiuto di quel particolare (oggi non più particolare, ma addirittura inflazionato) metodo di rappresentazione della realtà che si chiama focalizzazione esterna. In questo scritto si cercherà di attribuire a Quentin Tarantino la messa a punto di un metodo di rappresentazione della realtà che si colloca all’estremo opposto, come vedremo, rispetto alla cosiddetta tecnica della focalizzazione esterna.
Qual è la prima cosa che si può fare o che viene voglia di fare, quando si scrive un romanzo? La prima cosa che viene voglia di fare è: rendere visibile l’invisibile o possibile l’impossibile. Ecco, i miti, le favole. Il cavallo vola. La cicala parla. Ma la scrittura rende possibile mostrare anche il pensiero. Entrare dentro un personaggio e mettere su carta quello che pensa e non solo quello che dice e che fa, l’esteriorità. Far vedere il pensiero: trascriverlo sulla pagina. Questa, la grande possibilità che scrivere offre. Un po’ enfaticamente, la sua magia. Solo che questa prerogativa è una finzione. Certo, una finzione che consente di fare molte cose intelligenti e interessanti, ma pur sempre un far finta, un mito. Nella realtà noi non abbiamo altro che l’esteriorità per mezzo della quale giungere a un’interiorità, a volte arrivando anche a una fusione, certo, ma pur sempre per tramite dell’esteriorità. La focalizzazione esterna mette fuori gioco uno degli elementi più attraenti dello scrivere.
Qual è la cosa che il cinema, invece, non può fare? Il cinema non può mostrare l’interiorità dei personaggi. Chiunque nel cinema si concentra sulle azioni e sulle battute, perché è ovvio che quello si può fare, è bello che sia così, non funzionerebbe, se fosse altrimenti. Nella letteratura, su tutti gli eventi, c’è sempre l’ombra del narratore. Il narratore interrompe l’azione e descrive chi sono i personaggi o quali sono le situazioni, a volte racconta eventi in anticipo. Il narratore può sapere tutto o essere parzialmente informato dei fatti o sbagliarsi, fare confusione. Comunque, c’è, è lì. Eventualmente a disposizione – persino Hemingway, ogni tanto, ne fa uso. Ferma l’azione, la integra, confonde le acque, le rende limpide. Comunque, è lì. Infatti, qual è l’accusa che si rivolge più spesso ai romanzi ottocenteschi, ossia i romanzi dove più evidente è la figura del narratore? L’accusa è quella di essere troppo didascalici. Di spiegare troppo cose il lettore potrebbe capire anche da pochi cenni.
Allora, se il narratore funziona benissimo nella letteratura, e non nel cinema, esiste un modo per far uso del narratore (cioè quel terzo occhio in grado informarci sull’invisibile) anche nel cinema, e per farlo funzionare? Sì, esiste: ed è, risponde Quentin Tarantino, far diventare i personaggi stessi il narratore. I personaggi di Tarantino sono piccole didascalie. Loro stessi offrono la cronaca delle loro condizioni fisiche, di ciò che provano e la descrizione delle situazioni nelle quali si trovano. Ecco perché i personaggi di Tarantino sono così loquaci, dicono molte parole. Chiacchierano, ma è solo in apparenza vaniloquio. In realtà, forniscono allo spettatore tutte quelle informazioni che in letteratura è un narratore, fuori dalle virgolette e interrompendo le scene o integrandole, a passare; e che al cinema si danno per scontate o si cerca di rendere esteriormente mediante il cosiddetto linguaggio del corpo.
Facciamo qualche esempio. In Pulp Fiction Vincent e Mia vanno a cena in un ristorante. Non si conoscono quasi. Perciò, è comprensibile, non sanno che dirsi. Sono anche un po’ annoiati. Provano ad avviare una conversazione, ma finisce tutto, in pochi minuti. E il problema si ripresenta. Cercano allora di far finta di niente. Uno sorseggia il drink. Si prepara una sigaretta. Lo spettatore è, grosso modo, già in grado di capire cosa sta succedendo. Ma ecco che interviene Mia a spiegare che cosa prova e a esplicitare in che tipo di situazione i due si trovano:
Mia: Non odi tutto questo?
Vincent: Odio cosa?
Mia: I silenzi che mettono a disagio. Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro agio?
Vincent: Non lo so, è un’ottima domanda.
Mia: È solo allora che sai di aver trovato qualcuno davvero speciale: quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.
Vincent: Beh, non credo che siamo già arrivati a questo, ma non te la prendere, ci conosciamo appena.
Mia: Facciamo una cosa: io adesso vado in bagno a incipriarmi il naso, tu resti seduto e pensi a qualcosa da dire.
Vincent: Sarà fatto!
Mia: Bene.
In queste battute Tarantino riesce a esplicitare una cosa molto difficile da esplicitare nel cinema ossia i sentimenti. Quando si scrive, è più facile. Basta aggiungere un “Mia e Vincent si guardano con noia”. Ma quel “con noia” al cinema non si può rendere. Si può rappresentare, ma se si rappresenta e basta (con un atteggiamento, un’espressione del viso), lo spettatore non potrà mai essere completamente sicuro del sentimento rappresentato. Se, invece, lo si dichiara, lo si dice, tutto è risolto. La percezione dello spettatore è perfettamente orientata.
Nella scena finale di Le iene Joe Cabot entra nel capannone usato dai malviventi come rifugio dopo la rapina alla gioielleria. La rapina non ha avuto buon esito, tutto o quasi tutto è andato storto. Nel capannone Joe Cabot trova altri componenti della banda: Mr Orange, il figlio Eddie, Mr Pink e Mr White. C’è anche Mr Blonde, morto. E un poliziotto, morto anche lui. Mr Orange è steso a terra coperto di sangue. Joe Cabot lo vuole ammazzare, perché è un infiltrato. Mr White prende le difese di Mr Orange e mentre lo fa spiega come si sente Joe Cabot:
“Joe, fidati di me. Stai sbagliando, è un equivoco. È un bravo ragazzo. Io capisco che sei incazzato e fuori di te. Sei incazzato nero, lo capisco”
Con il pretesto della concitazione della scena, Tarantino “scalda” il personaggio di Joe Cabot facendo descrivere il suo stato emotivo da un altro personaggio. Anche qui, una spiegazione. Una didascalia, la quale ribadisce qualcosa di evidente sia per la situazione che per l’interpretazione degli attori in scena. In un romanzo si può scrivere: “Joe Cabot entrò nel capannone fuori di sé dalla rabbia”. In un film questo non si può fare, ma lo si può far dire a uno dei personaggi. Spiegazioni. E in questo senso, Le iene, la prima pellicola di Tarantino, è forse l’esempio più evidente di quale importanza rivestano le spiegazioni nel mondo del regista di Los Angeles. Infatti, si decide di far fuori Mr Orange non appena i suoi compagni stabiliscono che la sua “versione” dei fatti non è verosimile. In altre parole, le spiegazioni di Mr Orange non sono sufficienti. Questo è il peccato più mortale che ci sia nel mondo di Tarantino.
Mr Orange: Eddie, Mr Blonde stava per dare fuoco a tutto. Voleva ammazzare lo sbirro e me. Aspettava che tornaste per spedirvi all’inferno e squagliarsela con i diamanti. […]
Eddie: Non ci credo. Non sta in piedi
Mr White: Per me sta in piedi eccome. […]
Eddie: Va bene, allora lo ripeterò ad alta voce. Perché voglio chiarirmi bene le idee. Tu stai dicendo che Mr Blonde voleva ammazzarti e che poi quando saremmo tornati avrebbe ammazzato anche noi per prendere la valigetta con i diamanti e sparire. Ho detto bene? È giusto? È così? Sarebbe questa la tua storia?
Mr Orange: È proprio andata così. Te lo giuro sull’anima di mia madre.
Eddie: L’uomo che tu hai ammazzato era appena uscito di prigione. Era stato preso in un nostro magazzino pieno di roba rubata. Avrebbe potuto evitare la galera. Gli bastava fare il nome di mio padre. Ma non l’ha fatto. Ha tenuto la bocca chiusa. E si è fatto la galera senza fiatare, da vero uomo. Si è fatto quattro anni per noi. E adesso, Mr Orange, mi stai dicendo che questo mio grande amico, che si è fatto quattro anni per mio padre, che durante quattro anni non ha mai ceduto, qualunque cosa gli promettessero, mi stai dicendo che adesso che quest’uomo era libero e l’avevamo voluto con noi per il colpo, a lui gira il culo e decide, di colpo, così, all’improvviso, di mettercelo in culo e fotterci! Perché non ci dici come sono andate realmente le cose?
Mr Orange è colpevole di non aver raccontato le cose per bene. È colpevole di aver usato, potremmo sostenere, un modo di dire, nella sua versione: “spedire tutti all’inferno”. La sua versione è troppo povera, superficiale, usa poche parole e, per di più, sono modi di dire. E non deve stupire che sia una ragione tanto esile a far premere il grilletto a Eddie. L’elemento fondamentale che contraddistingue ogni opera di genere pulp (genere nel quale Tarantino di preferenza si muove, che usurpa e che riusa) da qualsiasi altra opera che di genere pulp non è è lo squilibrio tra azione e reazione. La “overreaction” è la qualità fondamentale del genere pulp. Ad esempio, se mi accorgo che uno stufato non è quello che mangio di solito in una locanda che frequento da anni, decido che è suonata la tua ora (The hateful eight). Ad esempio, abbandonato dalla moglie, pago cinque killer spietati e quando la trovo, massacro lei e tutti quelli con cui la poveretta ha intrecciato rapporti (Kill Bill). Una bellissima donna continua a punzecchiare un uomo durante un rischiosissimo scambio di borse piene di soldi e l’uomo perde le staffe e la fa secca nel parcheggio di un centro commerciale (Jackie Brown). Due sconosciuti passano una romantica notte insieme e il giorno dopo diventano marito e moglie (True Romance). La regola fondamentale del pulp si potrebbe riassumere così: “Dammi una qualunque ragione per ridipingere le pareti di questo posto con il tuo sangue”. Eddie si accorge subito che Mr Orange dice una bugia solo da un modo di dire: Mr Orange non sa assolutamente di chi sta parlando. Invece, Eddie si prende il tempo, e spiega chi era Mr Blonde. Lo fa in modo chiaro. Fornendo le informazioni che ci vogliono. E queste informazioni sono così decisive che il fatto che Mr Blonde fosse un sadico psicopatico e il fatto che lo spettatore lo abbia visto in azione con i suoi stessi occhi passa, almeno sul momento, totalmente in secondo piano. Le spiegazioni opportune valgono più di qualsiasi gesto o immagine.
Modo di pensare che, se vogliamo, viene espresso anche nella scena iniziale di Inglorius Basterds quando il colonnello delle SS Hans Landa nell’indagare su una famiglia ebraica sfuggita ai rastrellamenti dice:
“Che cosa ha sentito dire dei Dreyfus, Messeur LaPadite?”
“Solo chiacchiere”
“Io adoro le chiacchiere. I fatti possono essere fuorvianti. Le chiacchiere, vere o false, sono spesso rivelatrici. Allora, Messeur LaPadite, che cosa ha sentito dire sul conto dei Dreyfus?”
In questo caso, le chiacchiere sono i “giudizi complessivi” sugli individui. E i “giudizi complessivi” stanno alla base di quella “giustizia sommaria” che è tipica della categoria di personaggi messa in scena da Tarantino ovvero malviventi, delinquenti, feccia. È come se Tarantino affermasse una supremazia della parola sull’immagine, che è il procedimento inverso impiegato da Hemingway nelle sue storie. Quello che conta è il giudizio complessivo sull’individuo, non gli esempi del suo comportamento. Il fatto è che se si considera chi sono i personaggi di Tarantino (feccia, appunto), ci si rende conto che questa estetica è ancorata a una morale che va intesa all’incontrario. La giustizia viene affermata mediante la rappresentazione del suo contrario.
Ma proseguiamo con gli esempi del metodo di narrazione senza lasciarci distrarre da altro, perché al di là dell’etica di Tarantino, dell’intelligenza dei suoi dialoghi, e di molti altri aspetti, è proprio questo l’elemento completamente nuovo portato dal regista statunitense, e che qui si intende sottolineare: l’idea, ripetiamolo, di sopperire alla mancanza, nelle storie rappresentate al cinema, del narratore, sostituendolo, il più possibile, con i personaggi. I personaggi sono lì per spiegare le condizioni che rendono concepibile l’accadere di un certo evento. Pochissime cose, dunque, nei film di Tarantino, vengono date per scontate o vengono puramente rappresentate confidando che sia poi lo spettatore a intuirle da solo.
Torniamo a Pulp Fiction. Di nuovo Mia e Vincent. Di nuovo il ristorante. Vincent e Mia entrano nel ristorante e lo spettatore segue Vincent alle spalle, mentre questi si dirige con le sue movenze dinoccolate verso il tavolo assegnato – in realtà, è un’automobile: una Chrysler. La schiena di Vincent, nella sua giacchetta stile Elvis, è incorniciata dal locale. Siamo in grado di avere, pertanto, una generosa panoramica di questo ristorante un po’ particolare. Ma Tarantino non si accontenta, e tanto che Mia e Vincent cercano un argomento di conversazione per superare l’imbarazzo, fa descrivere in dettaglio a Vincent il Jackrabbit Slim’s.
Mia: Hm… Non lo trovi piacevole tornare dal bagno e vedere che la tua cena è lì che ti aspetta?
[E, si noti, qui Tarantino spiega la sensazione di piacere di Mia facendogliela dichiarare a parole, ndr].
Vincent: Siamo fortunati se ci hanno servito qualcosa. Non credo che Buddy Holly sia un bravo cameriere. Forse dovevamo sederci nel settore di Marilyn Monroe.
Mia: Quale? Ce ne sono due di Monroe.
Vincent: Ma che dici? Quella è Marilyn Monroe. Quella è Mamie Van Doren.
Mamie Von Doren: Desidera ancora qualcosa?
Vincent: Però non vedo Jayne Mansfield, si sarà presa una sera di riposo.
Mia: Sei molto in gamba.
Vincent: Sì, a momenti.
Mia: Hai pensato a qualcosa da dire?
Qual è la sola cosa che non c’è bisogno di fare in un film? Descrivere gli ambienti dove i personaggi si muovono, perché è chiaro, è tutto lì, basta un paio di inquadrature e il gioco è fatto. È così problematico per un romanziere descrivere luoghi o indumenti senza dilungarsi troppo, senza perdere il ritmo, allentare la tensione narrativa! Qualsiasi romanziere invidia un regista per questo… E Mr Tarantino che cosa fa? Si mette a descrivere, a parole, il locale dove i suoi personaggi chiacchierano. Certo, la cosa riesce a camuffarla bene. Sono solo chiacchiere, parole che si dicono tanto per dire, fintanto che arriva l’argomento di conversazione vero; ma, ugualmente, lo fa. Spiega. Descrive. Indugia sulla visione, e la chiarisce. Riempie l’immaginazione dello spettatore fino all’ultimo centimetro.
Anche quando in Kill Bill Vol. II Bud crepa orribilmente nella sua roulotte morso da un serpente, l’assassina che gliel’ha fatto trovare in una valigia piena di soldi legge sadicamente ad alta voce che cosa succede a un individuo morso da un Black Mamba. Lo spettatore vede Bud contorcersi e rantolare sul lercio pavimento della sua roulotte e sa esattamente perché vede quello che vede. Anche qui, tutto è chiaro, è spiegato tutto. Quando in Django Unchained rintanati in un saloon deserto Django e il Dr Schulze sono circondati da una sessantina di uomini armati fino ai denti pronti a sparare su di loro, il Dr Schulze non si perde in chiacchiere, ma spiega precisamente perché ha ucciso lo sceriffo della città. Sventola un pezzo di carta. Ossia, spiega il suo diritto; ed è il diritto a salvare la vita al Dr Schulze e a Django. Ancora una volta, spiegazioni opportune valgono più di ciò che si vede: in questo caso, il cadavere morto e stecchito dello sceriffo di un paese ucciso senza alcuna apparente buona ragione – il motivo è che quello sceriffo era in realtà un bandito ricercato dalla legge su cui pendeva una taglia di tot centinaia di dollari. Se così centrali sono le spiegazioni, nei film di Tarantino, allora i pezzi di carta, i permessi, diventano anch’essi assai importanti. Il fenomeno giuridico investe ogni aspetto dell’esistenza di un individuo (come qualsiasi studente di Giurisprudenza è in grado di confermare dopo appena la prima lezione all’università) e ciò che un individuo fa o non fa è continuamente condizionato da permessi e divieti, premi o coercizioni. Posso ammazzare un bandito e intascarmi una somma di denaro, ma di certo non posso fare la stessa cosa a una persona onesta, tanto per dire. In Django e in The hateful eight ce ne sono molte di scene dove contratti o lettere vengono impugnate assolvendo alla loro funzione meglio di un fucile o un passpartout. Elementi noiosi e che in altri film si danno per scontati, nei film di Tarantino non solo vengono messi al centro della scena, ma diventano parole, materia di conversazione tra personaggi. Ancora una volta, tutte cose che in un romanzo, normalmente, si potrebbero liquidare con un paio di paragrafi interrompendo dialoghi e azioni, cosa che in un film non si può fare almeno di non rendere intollerabilmente disagevole allo spettatore la fruizione della storia. Per dirla con una battuta, se in un film si facesse sul serio una cosa del genere, dovremmo immaginare non più la proiezione di una pellicola, ma la proiezione di una serie di diapositive!
Peraltro, nei film di Tarantino stesso una qualche forma di frammentarietà, è già presente. Perché il chiodo fisso di Quentin Tarantino è far sì che ciò che si può fare nei romanzi, si possa fare anche al cinema – in qualche intervista Tarantino lo ha persino apertamente dichiarato. In Kill Bill l’eroina riesce a svignarsela dall’ospedale nel quale è rimasta in coma per quattro anni. Si risveglia, si tira giù dal letto con le gambe ancora paralizzate, trova un coltello a serramanico in dotazione di un signore a cui ha appena staccato a morsi la lingua. Lo usa per piantarlo nei calcagni di un infermiere pervertito. Gli ruba le chiavi della macchna. Poi, scappa. Scende nel garage sotterraneo dell’ospedale e trova l’automobile dell’infermiere. Beatrix si ficca come può all’interno dell’auto, e si concentra cercando di muovere le gambe paralizzate. Mentre fa questo tentativo, la scena s’interrompe e si prende a narrare gli antefatti della vicenda: venti, venticinque minuti di pellicola. Finito il flash-back, dove una voce fuori campo funge direttamente da narratore dell’azione che vediamo succedersi sullo schermo, si ritorna alle gambe di Beatrix stesa sui sedili posteriori della Pussy Wagon. Le Iene è praticamente costruito sull’interruzione della scena e sul flash-back, al punto che fondamentali diventano i capitoletti che compaiono in ogni nuova scena, altrimenti, per lo spettatore, sarebbe troppo difficile raccapezzarsi – e lo stesso si può tranquillamente sostenere per Inglorious Basterds. In The hateful eight, a metà film circa, l’azione si ferma e una voce fuori campo, si mette a dare qualche dritta fondamentale per far comprendere al meglio ciò che sta per accadere. Inutile dire che tanto i flash-back che la voce del narratore assolvono al compito di fornire spiegazioni in modo didascalico: non in modo pesantemente didascalico, ma sicuramente in modo didascalico.
Si potrebbe quasi dire che nel suo cinema, Tarantino sovverta una delle regole fondamentali della tecnica di “focalizzazione esterna” o del cosiddetto “realismo”: “Non dirlo, fallo accadere”. Tarantino, per la messa a punto della tecnica del suo personale modo di far cinema, la riformula al contrario: “Dillo, non farlo necessariamente accadere”. Nelle Iene la rapina alla gioielleria non c’è. Ci sono gli antefatti e le conseguenze, ma non la rapina. La rapina alla gioielleria viene raccontata, a parole. Pulp Fiction è pieno di cose del genere. Butch ammazza a pugni il suo avversario durante un incontro di boxe, ma lo spettatore non lo vede accadere – lo apprende dalla cronaca dell’incontro alla radio e poi è Butch stesso a raccontarlo alla tassista che l’accompagna al motel dove alloggia: la seducente Esmeralda Villa Lobos. In The hateful eight la guerra di secessione viene solo raccontata, pochi, forse nessuno, sono i fatti che lo spettatore vede con i suoi occhi. Tarantino non fa accadere, ma dice. Non rappresenta, ma dice. Non si accontenta di esprimere, ma spiega direttamente.
Altro elemento che viene dal modo di narrare che si ritrova in un ampio repertorio di esempi di romanzi, è costruire storie a scatole cinesi: all’interno della storia principale è inserita una serie di altre storielline. Di solito, nei film al cinema lo svolgersi di una vicenda viene narrata mediante una serie di scene che puntano all’atto conclusivo – sia esso matrimonio, omicidio, ritrovamento, salvamento… I film di Tarantino, invece, si costituiscono, quasi sempre, di storie: sono un assembramento di piccole vicissitudini satellite attorno all’esposizione principale. Viene in mente, nelle Iene, la “storiellina del cesso”, vero e proprio esempio di piccola scatola narrativa chiusa dentro una scatola narrativa più grossa; in The hateful eight altro esempio evidente è la storia di come il Maggiore Marquis Warren si sbarazza del figlio del Generale Sandford Smithers; Pulp Fiction, neanche a dirlo, è costruito sull’assemblaggio di piccole storie a sé stanti, ciascuna delle quali ha senso compiuto in se stessa, è estrapolabile, decontestualizzabile, riutilizzabile ovunque. In Kill Bill viene in mente, tra le altre, la storiella che Bill narra a Beatrix davanti al fuoco dopo aver terminato di suonare il flauto e che introduce la figura di Pai Mei. Raramente si ha nel cinema questo modo di fare film; mentre, ripetiamolo, gli esempi in letteratura fioccano.
Sì, il chiodo fisso di Tarantino è fare al cinema ciò che usualmente si fa in letteratura. Tralasciando per un momento i dialoghi, ovvero la parte prettamente alfabetica del cinema, anche il modo di usare la cinepresa, in alcune circostanze, sembra ispirarsi a modalità tipiche della letteratura. Nella già citata scena di Kill Bill dove Beatrix si risveglia dal coma nella sua stanza d’ospedale e dopo aver frugato tra le sue cose ritrova un coltellino a serramanico, entra, come abbiamo detto, un infermiere pervertito per prelevare un suo compare – pervertito quanto lui. Beatrix è accucciata in un angolo, con il coltellino in mano, pronta a colpire. L’uomo apre la porta, e la cinepresa lo inquadra al ralenti, dalla testa ai calcagni. In questo modo, allo spettatore, è dato di osservare, da capo a piedi, indumenti e forma fisica (e la particolarità di un paio di occhiali di cattivo gusto che pendono da una tasca della sua divisa da infermiere). Questo ralenti è un modo per rendere cinematograficamente una descrizione fisica del personaggio: una descrizione non è soltanto un elenco, ma una scomposizione, l’analisi di un intero. Altro esempio, Jackie Brown – film che, a differenza di altri all’interno della produzione di Tarantino, non si costituisce di storielline, ma dove ogni scena punta all’atto conclusivo della vicenda. Per caratterizzare meglio i personaggi, la macchina da presa indugia spesso (per ben tre volte, per tre personaggi diversi) sui dettagli delle fotografie appese ai muri. Max Cherry va a casa di Jackie Brown e dà un’occhiata a qualche foto. Ordell Robbie getta un’occhiata apparentemente distratta alle foto appese nell’ufficio cauzioni di Max Cherry – e fa qualche domanda su Winston, un collega di Max, molto grosso. Infine, le fotografie sul televisore e appese ai muri nell’appartamento di Melanie diventano addirittura argomento di conversazione tra lei e Luis Gara. Esempi, e ce ne sono altri.
Ecco, facciamo, a questo punto, una piccola digressione, prendendo sul serio la questione se nel cinema e in letteratura possano realmente impiegarsi gli stessi metodi di narrazione. Se proviamo a pensare alle analogie e alle differenze tra il modo di raccontare storie attraverso immagini e il modo di raccontare storie attraverso segni sulla carta, tra le tante analogie e le moltissime differenze, spicca una differenza, in particolare. Quando leggiamo una storia scritta, gli ambienti e i personaggi vengono descritti una sola volta. Di un personaggio ci vengono date informazioni su che aspetto ha, su come veste, su come si comporta. Queste informazioni possono essere date in una volta o un po’ per volta. In ogni caso, vengono date una volta sola. Facciamo un esempio ancora più chiaro. In un paragrafo c’è la descrizione del personaggio. Poi, si aprono le virgolette e comincia il dialogo. A questo punto, davanti agli occhi, il lettore non ha più l’immagine del personaggio, ma nuove immagini. E lo stesso vale per l’ambientazione. Al cinema, invece, generalmente, i personaggi e gli ambienti rimangono davanti agli occhi dello spettatore in continuazione, per l’intera durata di una scena. Non scompaiono, per così dire, sostituiti dai loro dialoghi, costringendo lo spettatore a immaginarseli, a tenerseli, in qualche modo, presenti nella mente – come avviene nei romanzi.
Lo spezzettamento delle scene, il montaggio apparentemente caotico, gli andirivieni di flash-back e anticipazioni (Kill Bill si apre con l’uccisione della seconda vittima nella lista dell’eroina del film, e non con la prima; Pulp Fiction si apre con un pezzo dell’ultima scena del film: peraltro, questa “confusione” è ingrediente fondamentale del noir), tutto questo, fatto in modo così intensivo ed evidente, potrebbe creare nello spettatore parecchio disorientamento. Per poter pertanto raccontare una storia utilizzando a piene mani le tecniche e le libertà che la letteratura consente, diventa quasi necessario, per Tarantino, far uso di plot già parecchio familiari al pubblico. Se racconto una storia che gli spettatori hanno già grosso modo visto o udito, posso sperimentare nuovi modi di narrarla – e se non “nuovi”, più complessi. Non solo, ma posso offrire una mia versione dello stesso soggetto: un’interpretazione, un’esecuzione diversa, nella quale affidare i miei messaggi alle piccole differenze. Ad esempio, in Jackie Brown cambiare il colore della pelle all’eroina della storia (nel romanzo di Elmore Leonard Jackie Burkett è bianca; nel film diventa nera e si chiama Brown); far interpretare il ruolo di un samurai in un film di kung-fu a una donna che veste i panni uguali identici dei protagonisti maschili di quel genere di film (Kill Bill); far diventare l’eroe indiscusso di un film western un nero emancipato (Django Unchained); far vestire i panni di un detective intelligentissimo a uno di quei neri che di solito, ai tempi del Vecchio West, lavoravano, schiavi e analfabeti, nella piantagioni (The hateful eight); e gli esempi non si fermano certamente qui.
Chi viene dalla letteratura sa che il riuso di altro materiale letterario è pane quotidiano. In alcuni romanzi di Dashiell Hammett è possibile rintracciare interi paragrafi tolti di peso dalle opere di William Faulkner. Hammett prende alcune immagini che ritiene significative e su quelle innesta, boldinisticamente, altri colori, altri elementi. Quella è la versione, si potrebbe dire, hard-boiled di Hammett di un classico indiscusso della letteratura americana. Ma anche nella poesia queste faccende sono all’ordine del giorno. Un qualsiasi libro di canti del Leopardi è pieno di note che rinviano a versi del Tasso o del Petrarca, e ad annotazioni del Leopardi stesso che, nel suo Zibaldone, discute la liceità dell’uso di un sintagma con un dato significato per averlo trovato in questo o quel poeta antecedente. Anzi, tuffiamoci per un momento nelle note di un canto del Leopardi, giusto per ricordarci di cosa stiamo parlando. Le note sono al canto All’Italia, nell’edizione Garzanti.
O patria… padri antichi: numeroso l’intreccio degli echi letterari che i commentatori indicano per l’incipit della canzone; oltre al vocativo della nota canzone del Petrarca (Rime, CXXVIII): “Italia mia”, viene citata anche un’ode di Fulvio Testi (riportata nella leopardiana Crestomazia col titolo Sopra l’Italia), vv 13.6: “Ben molt’archi e colonne e in più d’un segno / serban del valor prisco alta memoria; / ma non si vede già per propria gloria / chi d’archi e di colonne ora sia degno”; e cfr. anche Ossian, nella traduzione del Cesarotti, La Guerra d’Insistona, vv. 18-20 e 227-9: “O Selma, o Selma / veggo le torri tue,veggo le querce / dell’ombrose tue mura”
Or fatta inerme: la personificazione dell’Italia è luogo comune della lirica civile dal Petrarca in poi: cfr. Monti, Il beneficio, vv. I e 8-9: “Una donna di forme alte e divine… / la sinistra alla gota; e scisso il manto / scopria le piaghe dell’onesto petto”; e nella Mascheroniana, II, 129: “carca di ferri e lacerata il manto” (cfr. anche la Musogonia, v. 70 della prima parte).
“due fonti vive”: sintagma metaforico di ascendenza petrarchesca, cfr. Rime, CLXIV, 9 E CCXXXI, 12.
L’armi, qua l’armi: cfr. Virgilio, Aen., II, 668: “Arma, viri, ferte arma”, tradotto nella sua giovanile traduzione dal II libro dell’Eneide (1816): “Armi, qua l’armi”
Procomberò: cfr. Virgilio, Aen., II, 424-6: “primusque Coroebus / Penei dextra divae armipotentis ad aram / procubuit”, che il Leopardi interpreta, dal contesto virgiliano, con una amplificazione del senso. Per il verbo “procombere” si veda l’astiosa ironia, contro l’uso che il Leopardi ne fa, del Tommaseo nel suo Dizionario, alla voce.
Dove sono i tuoi figli: riecheggia il foscoliano “Ove sono dunque i tuoi figli?” della lettera del 19 e 20 febbraio di Jacopo Ortis, della cui possibile utilizzazione per una ode lamentevole sull’Italia Leopardi parla in Zibaldone, 58.
Roba nota; e vale solo come richiamo. Noto è anche come Dante Alighieri riscriva in continuazione passi dell’Eneide (e già Virgilio con Teocrito…), senza dimenticare, se vogliamo, la pista araba, per alcuni un abbaglio, ma che presenta, qua e là nella superba architettura dantesca, tracce di sé molto persuasive. Di Hemingway con Anderson si è accennato all’inizio, e si è fatto cenno ad Hammett con Faulkner. E come non ricordarsi di H.P. Lovecraft con Lord Dunsany? Troppo facile, poi, sarebbe ricavare esempi dal postmodernismo (e in fondo, “postmodernismo” significa essenzialmente considerare auctoritas qualsiasi fonte, e non soltanto, come si è sempre fatto, ciò che tramanda una solida e sorvegliata tradizione). Anche Tarantino fa qualcosa, in fin dei conti, di molto simile. E lo fa per le ragioni che abbiamo detto. Quello che in letteratura si definisce da secoli “eco letteraria” o al limite “omaggio”, in Tarantino diventa “citazionismo” e “mixaggio” – e per alcuni, purtroppo, “plagio”. Vediamo, in conclusione, di che si tratta.
Nella scena finale delle Iene si verifica una triangolazione di questo tipo: Joe Cabot punta la pistola su Mr Orange, Mr White punta la pistola su Joe Cabot intimandogli di metterla via ed Eddie, il figlio di Joe Cabot, punta a sua volta la pistola su Mr White minacciandolo di abbassare l’arma spianata su suo padre. Una scena speculare si trova in un film del 1987 dal titolo City on fire ambientato a Hong Kong. La triangolazione pistolera in sé è un cliché noto con il termine mexican standoff ossia stallo alla messicana; e si trova in varie pellicole di genere come Il buono, il brutto e il cattivo, Dio perdona, io no!, Cani arrabbiati, Hard Boiled… Ma in effetti City on fire e Le iene hanno molte scene simili, e la storia è la medesima. Addirittura, la scena della rapina che nelle Iene viene raccontata da Mr Pink a Mr White, in City on fire viene mostrata direttamente, rappresentata. Nelle Iene Mr White scarica due pistole sul parabrezza di un’autopattuglia della polizia sforacchiando di pallottole gli sbirri all’interno, e in City on Fire c’è la stessa scena, solo interpretata da attori cinesi. Nel film western Django del 1966 (di cui Tarantino farà un remake nel 2012) una banda di malviventi mozza un orecchio a un uomo con un coltello. La scena si vede per intero. All’uomo viene tagliato l’orecchio e l’orecchio rimane nella mano del malvivente che sghignazza assieme ai compari. La stessa scena viene rappresenta nelle Iene quando Mr Blonde sotto la musica di Stuck in the middle with you mozza l’orecchio a uno sbirro tenuto in ostaggio. Nel film del 1964 Band of outsiders e in Otto e mezzo di Fellini un uomo e una donna fanno lo stesso balletto di Mia Wallace e Vincent Vega al Jackrabbit Slim’s in Pulp Fiction. Quando Mia Wallace parla al microfono a Vicent Vega in casa sua, la macchina da presa indugia sul particolare delle sue labbra vicino al microfono, immagine praticamente identica a una scena di un film del 1979 dal titolo I guerrieri della notte. In Pulp Fiction Butch viene ripreso frontalmente mentre guida la macchina e incontra per strada, casualmente, proprio l’uomo da cui sta scappando: il potentissimo e pericolosissimo Marcellus Wallace. Dinamiche simili in Psycho di Alfred Hitchcock. Quando Vincent Vega apre la valigetta venendo illuminato da una lucore quasi di un altro mondo, ricorda un film dell’orrore del 1955 dal titolo Kiss me deadly quando una donna apre la bara di un vampiro. Quando Mia Wallace dice a Vicent Vega: “Don’t be a square” disegnando con le dita un rettangolo sta rifacendo la stessa scena della serie di cartoni animati Flinstone del 1960. Il piano sequenza iniziale di Jackie Brown ricorda Superchick un film del 1971 e il Laureato del 1967. La scena iniziale di Citizen Kane del 1941 ricorda la scena iniziale in bianco e nero della sposa in Kill Bill. Goke, body snatcher from Hell del 1968 presenta la stessa scena dell’aeroplano che vola su un cielo rosso fuoco come in Kill Bill quando Beatrix Kiddo vola a Tokio con l’intento di stanare gli 88 Folli. L’antagonista di Beatrix Kiddo in Kill Bill Vol. I è un calco di un personaggio del film Lady Snowblood del 1973. Quando Gogo, una delle scagnozze della banda degli 88 Folli, rimane uccisa durante lo scontro con Beatrix, perdendo sangue dagli occhi, è tale e quale una scena di City of the Living Dead del 1980. Il trailer di Black Sunday del 1977 viene ripreso in toto in Kill Bill nel rappresentare il tentato omicidio da parte di una delle scagnozze della banda di Bill nei confronti di Beatrix ancora priva di sensi all’ospedale. La quale scagnozza creperà orribilmente in Kill Bill Vol. II contorcendosi a terra in una scena molto simile a quella del film Blade Runner del 1982. Le scritte dei titoli di testa di Django sono le stesse dello Django del 1966 e anche la scritta “Mississippi” riprende Gone with the wind del 1939. Quando, sempre in Django Unchained, una pallottola raggiunge al cuore Calvin Candy e il fiore bianco appuntato alla sua giacca si macchia di sangue, ciò ricorda in pieno un film dal titolo A professional gun del 1968. L’idea degli occhiali da sole allineati sul cruscotto dell’autopattuglia dello sceriffo in Kill Bill viene da un film del 1964 dal titolo Gone in 60 seconds. La scena dell’addestramento di Beatrix con il Maestro Pai Mei, ombre nere su uno sfondo rosso, viene dal film Samurai Fiction del 1998…
C’è un proliferare di video piuttosto impressionante sulla rete che mostra la specularità delle scene dei film di Tarantino con scene di altri film: video dei quali le righe soprascritte rappresentano semplici e veloci trascrizioni. Abbiamo cominciato questo scritto con un lungo cappello introduttivo dove si parla di “debitori” e di “furfanti”; ma abbiamo poi proseguito cercando di mostrare che si ricorre spessissimo alla pratica del “riuso” in letteratura, e nelle arti in genere. Il “riuso” presuppone consapevolezza, e buona fede: perché soltanto consapevolezza e buona fede permettono all’autore di riutilizzare materiale preso da altre opere in maniera efficace. Ma, domandiamocelo ancora: perché Tarantino prende materiale da altri film? Kill Bill si apre con un proverbio: “La vendetta è un piatto che va servito freddo”. E se il cinema di Quentin Tarantino fosse anche una forma di rivincita nei confronti di generi cinematografici che si sono presi pezzi di storia americana facendoli diventare puro intrattenimento: come l’exploitation o lo spaghetti&western? E se questa rivincita riguardasse anche certi attori, chi più chi meno? C’è una scena in una pellicola dal titolo Il boss e la matricola con Matthew Broderick e Marlon Brando, dove Matthew Broderick è in coppia con Frank Whaley. I due stanno parlando (si assomigliano anche un po’) e se si ascolta la pellicola in lingua originale Frank Whaley ad un tratto pronuncia un “What??” in modo un po’ troppo marcato, come se, al di là della parte, si stesse prendendo gioco per davvero di Matthew Broderick. Broderick gli lancia persino brevemente un’occhiata. Viene quasi da domandarsi se quella sequenza sia stata volutamente girata così, o le cose siano andate così per caso. A ogni modo, quattro anni più tardi Quentin Tarantino costringerà Frank Whaley in Pulp Fiction a ripetere la parola “What” per una quarantina di volte prima che Samuel L. Jackson e John Travolta gli riempiano il corpo di piombo. Se fai lo sbruffone con Matthew Broderick, qualcosa devi pagare. Questa è solo un’ipotesi, ma un così alto numero di scene trapiantate da un film all’altro qualche sospetto, in fondo, lo autorizzano. E visto che abbiamo accennato alla lingua originale, naturalmente il modo didascalico di far cinema di Tarantino è “felicemente didascalico” e non “pesantemente didascalico” grazie anche, e soprattutto, alla lingua splendida di cui il regista di Le iene sa far uso. Ovviamente, alcune sfumature, per noi italiani, si perdono nella traduzione, ma la ricchezza del linguaggio, la sua vivacità, è straordinaria.
Ad esempio, nella scena d’apertura del film A prova di morte ci sono tre ragazze che chiacchierano sedute nell’abitacolo di un’automobile. Al volante c’è una biondina, di fianco una ragazza di origini chiaramente messicane e stesa sul sedile posteriore una ragazza nera. Tutte e tre indossano t-shirt aderenti e non sono sexy perché lo vogliono essere a tutti i costi, ma perché si capisce che non ci vuole niente perché lo siano se volessero esserlo. Parlano del più e del meno e a un certo punto la squizietta mezza messicana (Vanessa Ferlito) viene tirata dentro la spinosa questione di ciò che ha fatto o non ha fatto con quello che potrebbe o non potrebbe essere il suo nuovo fidanzato. Nella versione italiana per indicare il misterioso rapporto forse sessuale o forse non sessuale la ragazzina usa: “il fatto”. “E tu lo chiami il fatto?” obietta subito dubbiosa la biondina al volante. “Sì, lo chiamo il fatto” risponde la messicana. “E ai ragazzi piace che lo chiami il fatto?” ribatte ancora la biondina. Ma nella versione originale la ragazza messicana non usa il “fatto”. Usa invece: “the thing”. E c’è una bella differenza, se si usa “the thing” all’interno del contesto di un film di genere horror che ha per protagonista Kurt Russell. Perché si dà il caso che Kurt Russell abbia interpretato nel 1982 un cult di genere horror che si intitola proprio “The thing”. E “The thing” in italiano è stato tradotto con “La cosa”. Ecco un esempio di sfumatura andata persa nella traduzione. Ed eccone un altro. In Pulp Fiction il signor Wolf, davanti a un’automobile piena di sangue, chiede un caffè a Jimmy e Jimmy gli chiede come lo vuole. Il Signor Wolf risponde: “Lots of sugar, lots of cream” tradotto con “Molta panna, molto zucchero”. Nella sequenza successiva il signor Wolf, Vincent e Jules tornano in cucina, e qui il Signor Wolf dice a Vincent e Jules cosa devono fare se vogliono uscire dal guaio in cui si trovano: un cadavere senza testa nei sedili posteriori della loro automobile. Vincent si ribella dicendogli: “Un per favore sarebbe carino”. Il signor Wolf in inglese dice: “Come again” che si traduce: “Puoi ripetere?”. Dopo la reazione scomposta di Vincent, la risposta di Wolf è tutta una predica che si conclude con un “perciò per piacere pulite quella cazzo di macchina”. Ma nell’originale il signor Wolf conclude la predica con ”pretty please with sugar on top” che si potrebbe tradurre pressappoco “molto per piacere, con un po’ di zucchero in cima”. “Sugar” potrebbe riprendere lo “sugar” del caffè ordinato a Jimmy rendendo la scena simmetrica, bilanciata, speculare. In Inglorius Bastards il colonello delle SS Hans Landa, nella scena iniziale del film, paragona gli ebrei a roditori e la razza tedesca ad aquile – per la rapacità che li contraddistingue. Peccato che l’aquila sia il simbolo degli Stati Uniti d’America, e perciò Quentin Tarantino attribuisce ai nazisti caratteristiche del suo popolo.
Molti altri potrebbero essere gli esempi, ma al di là della padronanza della lingua e di tutto il resto, come si è cercato di affermare nel presente scritto, l’abilità del regista di Pulp Fiction è soprattutto fornire spiegazioni, prendersi il tempo descrivendo, indugiare sull’immagine, non avere fretta e non dare per scontato nulla, o nulla il più possibile. In pillole, il cinema di Tarantino si potrebbe riassumere in “Dillo, non farlo necessariamente accadere” e “Porta dentro le virgolette, quello che generalmente dalla virgolette resta fuori”. Dentro le virgolette, fuori dalle virgolette. In fondo, il segreto di Quentin Tarantino sta tutto qui. Questo il suo know-how; e la sua rivoluzione.
Tag: Alfred Hitchcock, Dashiell Hamett, Ernst Hemingway, Federico Fellini, Giacomo Leopardi, Giovanni Boldini, H. P. Lovecraft, Lord Dunsany, Quentin Tarantino, Sherwood Anderson, William Faulkner
13 novembre 2016 alle 11:25
In che senso Hemingway ha “rintuzzato” la letteratura…?
Grazie
18 novembre 2016 alle 12:37
Penso che il modo di scrivere di Tarantino possa applicarsi anche al Teatro. Perciò, Tarantino ha potenzialmente rivoluzionato anche il Teatro. Altro che Carmelo Bene.
18 novembre 2016 alle 12:58
“ Venerdì 18 novembre 2016 – Il fatto è che Carmelo Bene non era tarantino, era salentino “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] Tanto per smuovere ‘sto blog.
18 novembre 2016 alle 13:23
Penso che se oggi Dario Fo e Bob Dylan sono stati premiati dall’Accademia questo si debba anche al grande lavoro culturale di Carmelo Bene. Impressionante il solco lasciato dalla sua citazione dal Rien va di Tommaso Landolfi. Carmelo Bene ha contribuito a cambiare una mentalità.
23 novembre 2016 alle 10:59
Trovo con Google:
Non si può fare pittura con la pittura, né musica con la musica, né cinema col cinema,
né teatro col teatro. Come non si può vivere con la vita.
Carmelo Bene che parafrasa, echeggia, e forse, anzi, sicuramente distorce Tommaso Landolfi da Rien Va.
In che senso questa citazione avrebbe lasciato il solco? Dove? Mi sembra una specie di indictment senza appello della post-modernità.
23 novembre 2016 alle 11:59
Be’, per restare al tema del post si può dire questo. Quentin Tarantino con tutti i suoi trapianti di film dentro ai suoi film sembra potentemente iscritto nel solco della tradizione postmodernista. No? Ma, come si è cercato di far notare, analizzando i film, ci si rende conto che citazionismo e mixaggio cinematografico funzionano e non potrebbere funzionare senza un elemento extracinematografico. Appunto, fare cinema con modalità di rappresentazione tipiche dei romanzi, della letteratura.
Pertanto, anche in questo caso, Tarantino non fa cinema con il cinema. L’eccesso, il surplus, la differenza viene dall’impiego di elementi propri della letteratura. Il resto, a questo punto, è puro involucro.
Allora, se si decide che Diario Fo e Bob Dylan sono letteratura, in senso qualitativo, significa che questi autori hanno fatto letteratura con il teatro e letteratura con la canzone. Cioè, per riprendere e parafrase Carmelo Bene, “non si fa la canzone con la canzone e il teatro con il teatro”.
28 novembre 2016 alle 17:13
Quando leggo un libro, capisco se “funziona” se l’autore riesce con le sue descrizioni a farmi avere i personaggi ben chiari davanti ai miei occhi di lettrice, se l’autore, con la sua trama, riesce a farmi “entrare nel vivo della storia”. Se trovo tutto ciò, divento persino un po’ regista, nel senso che m’immagino la storia narrata che diviene un film, scegliendo gli attori secondo me più adatti a personificare i personaggi del romanzo.Per questo preferisco leggere prima un libro e poi, solo se successivamente e, ovviamente, se è stato girato, vedere il film da cui è stato tratto.
Secondo me, partendo da un buon romanzo, si può sempre creare un ottimo film, o un’altrettanto lodevole rappresentazione teatrale.
Sicuramente la chiave per la riuscita è la capacità degli autori di far entrare nel testo il lettore/spettatore.
Quindi sono d’accordo con te, Marco, quando dici che il cinema, per funzionare, deve avere una rappresentazione simile al romanzo.
28 novembre 2016 alle 17:37
Sono d’accordo con te, Marco, bisogna fare cinema con modalità di rappresentazione tipica della letteratura. Io, personalmente, preferisco un romanzo a un film, ma se il romanzo in questione è ben scritto, riesco a impossessarmi della storia, m’immagino regista di un film da girare con attori e scene simili a quelli descritti nel libro. A mio giudizio, è sempre meglio prima leggere il romanzo e, successivamente, vedere il film. Se il film funziona, è perchè è stato fatto con la letteratura.
2 dicembre 2016 alle 13:56
Questo post si intitola “Rivoluzione Quentin”, e in questi giorni è deceduto Castro, uno che di “rivoluzioni” si intendeva. Ora, in che cosa consiste la “revolucion cubana”, se non in una “modalità di rappresentazione del mondo”? I politici, spesso, la impongono. Gli artisti, semplicemente, la propongono nelle loro opere. L’aspetto sano è che quando una “modalità di rappresentazione” elaborata da un’artista passa, passa senza rivoluzioni. Senza sangue. Di nessun genere.