di giuliomozzi
Domani venerdì 4 novembre 2016, alle 21, a Riva del Garda presso l’Auditorium del Conservatorio, andrà in scena una faccenda che s’intitola Quel fragoroso silenzio. Non è una commedia in prosa (e tantomeno in versi), non è un’operetta (e tantomeno un’opera): è – me lo dico tra me e me, sperando che non mi si senta – una specie di buffonata. Gioacchino Rossini, che da lassù (spero non da laggiù) forse ci sentirà schiamazzare, e magari si sporgerà dai balconi celesti a vedere che succede, spero non s’adonterà.
Il canovaccio è mio; le musiche sono di Rossini appunto; Patrizia Biccirè canterà da soprano e farà la parte di Olimpia, seconda moglie di Gioacchino; Maurizio Leoni canterà da baritono e farà, non contemporaneamente, le parti del Grande Musicista Silenzioso e del perito grafologo (sempre non contemporaneamente); Stefano Pietro Detassis farà le parti dello Speaker e del devoto amico Antonio. Antonio Vicentini sarà al piano. Le scene sono di Domenico Tavernini, la regia di Amedeo Savoia, la consulenza musicale di Claudio Rastelli. Organizza Quadrivium, Associazione per la musica contemporanea (e qui è da ricordare Nicola Straffelini) in collaborazione con Amici della Musica di Modena onlus.
Chi volesse il volantino, èccolo qui.
Domenica 6 novembre 2016 alle 17 si replica a Nonantola.
Di che si tratta, nel dettaglio
Il 3 agosto 1829 l’Opéra di Parigi rappresentava il Guglielmo Tell: questa data, che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova feconda fase nella produzione operistica del trentasettenne Gioacchino Rossini, chiude invece la sua attività teatrale. Rossini vivrà ancora quasi quarant’anni; ma al teatro musicale non ritornerà più. Questa rinuncia è apparsa come uno dei fatti più strani e inspiegabili di tutta la storia della musica. E’ sembrato ai contemporanei di poterla giustificare con la proverbiale pigrizia del compositore; il quale sin dal 1819 – dieci anni prima del Tell – avrebbe avuto già in animo di troncare la propria carriera operistica, se si deve credere allo Stendhal che parlando di lui, in una lettera appunto del 1819, dice testualmente: «Vuole smettere di lavorare a trent’anni». E’ anche risaputo che Rossini fu colpito da una grave malattia nervosa che lo ridusse quasi in fin di vita. Ma di questa prostrazione si comincia però a parlare soltanto nel 1839, cioè dieci anni dopo il Guglielmo Tell, in alcune lettere che Olimpia Pélissier – all’epoca non ancora sua moglie – indirizzò ad alcuni specialisti, nel tentativo di porvi rimedio.
Dallo stato di prostrazione Rossini alla fine uscì, anche grazie alla devozione della seconda moglie Olimpia e di alcuni buoni amici; non tornò più al teatro né alla musica per grandi complessi (con le eccezioni del Requiem, che quasi gli fu estorto, e della Petite messe solennelle – che peraltro non è esattamente per un “grande complesso”); ma scrisse una quantità di cose cosette e cosettine per pianoforte, pianoforte e voce, pianoforte e uno strumento, talvolta per complessi da camera, nei quali diede mostra di una vena bizzarra e umoristica che ancora oggi sorprende l’ascoltatore – e che ha provocato paragoni con compositori assai più vicini al nostro tempo come Erik Satie o (ma questo è un paragone solo mio, credo) Alberto Savinio (che fu pittore e narratore, sì: e pure musicista). Smentendo la frivolezza ostentata nei titoli (Valse anti-dansante, Quelques riens pour album, Impromptu anodin, Prélude convulsif, Étude asthmatique, Valse torturée, ec., per tacere del celeberrimo Duo de chats), Rossini raccolse e conservò accuratamente questi pezzi in alcune cartelle che intitolò Péchés de vieillesse.
La buffonata (che, in origine, nelle intenzioni del soprascritto, doveva essere una roba assai drammatica) parla di questo: del silenzio (apparente) d’un genio, e della felicità trovata da Rossini nel comporre al di fuori di ogni logica commerciale e industriale (ma, naturalmente, seduto comodamente sul mucchio di quattrini fatti componendo ben all’interno delle logiche commerciali e industriali).
Tag: Amedeo Savoia, Antonio Vicentini, Claudio Rastelli, Domenico Tavernini, Gioacchino Rossini, Maurizio Leoni, Nicola Straffelini, Olimpia Pélissier, Piatrizia Biccirè, Stefano Pietro Detassis, Stendhal
3 novembre 2016 alle 16:02
E’ originale, incuriosisce, (almeno a me) e sarà senz’altro un successo.
3 novembre 2016 alle 17:22
Il duetto dei gatti non è stato scritto da Rossini, però.
3 novembre 2016 alle 17:42
Grazie a Giulio Mozzi che dà un alito di vita ad un mondo che sta morendo(v.Conservatori senza frequenze,orchestre classiche ridotte ad un numero esiguo,concerti strumentali seguiti da pochi cultori,ecc..) Quanto mi piacerebbe assistere allo spettacolo così originale!
3 novembre 2016 alle 18:54
Sì, il duetto dei gatti è un lavoro di montaggio. Ma: se il Rossini reale non l’ha scritto, quello immaginario della nostra buffonata l’ha scritto di sicuro.
3 novembre 2016 alle 19:28
“ Lunedì 24 novembre 2003 – « Spesso ai miei corsi di scrittura mi dicono […] : “ Proust, che ricordava tutto “. Proust aveva una memoria strana, procedeva in modi tipicamente letterari, per segmenti, sovrapposizioni, tagli, montaggi, uomini che diventavano donne, donne che diventavano uomini, due personaggi in uno, non è affatto uno scrittore che voleva ricordare e rievocare tutto meticolosamente, con quella memoria degli imbecilli che gli attribuiscono. » (Giuseppe Pontiggia, La contemporaneità dell’antico, [Conversazione tenuta il 12 dicembre 1994 nella Sala Rossini del Caffè Pedrocchi di Padova], in «Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità» / Università di Padova, 4, Padova 1998) “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] De la musique, avant tout.
3 novembre 2016 alle 21:06
Anche Mozart ha scritto cose, cosette e canzonette. Su di lui qualcuno ha malignato (per via di quella storia del precoce genio a cinque anni) dicendo non meritasse tanta fama. Di Rossini credo non si possa dire nulla, a prescindere; opere come “Il barbiere di Siviglia” e “Il turco in Italia” sono straordinariamente moderne.
4 novembre 2016 alle 23:13
fragoroso silenzio somiglia all’ossimoro più brutto del mondo, quello del “silenzio assordante”
5 novembre 2016 alle 11:36
E’ presa da un articolo dell’epoca.
5 novembre 2016 alle 16:38
Sergio: perché “silenzio assordante” è il più brutto ossimoro del mondo?
5 novembre 2016 alle 17:23
“ Lunedì 14 maggio 2007 – Si sente dire, piuttosto spesso, ahimè: « Un silenzio assordante ». Effettivamente, penso, il silenzio ha la facoltà di rendere sordi. Atrofizzando l’organo dell’udito, l’orecchio, negandogli l’occasione di esercitarsi, di fare il suo mestiere, che è quello di udire, cioè percepire, raccogliere, distinguere i suoni. Il silenzio – che è assenza di suoni – è come una carestia del suono, un’immensa bonaccia, in cui ogni navigazione si arresta, ogni movimento, ogni progresso. Nell’indifferenza sonora l’orecchio si disorienta, si sperde, non sa più dove sia, non sa più nemmeno di essere. Quello che tuttavia non si dice è che ci sono anche i sordi – di natura, dalla nascita -, quelli che nemmeno sanno che i suoni ci possono essere, perché non ne hanno mai sentito nemmeno uno. Che non si pongono nemmeno il problema, perché per loro un problema non c’è. Come fanno a vivere i sordi? Ecco quello che si dovrebbe chiedersi. Perché vivere vivono, e, spesso, anche meglio di noi. “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] In attesa della risposta di Sergio.
5 novembre 2016 alle 21:56
Wittgenstein diceva (con una sentenza) che “le sentenze sono i crampi dell’intelletto“, e pare che si riferisse alle frasi che cercano l’arguzia del paradosso col semplice ribaltamento di un luogo comune. Le contratture del pensiero sarebbero insomma gli espedienti retorici facili (ossimori, chiasmi e paradossi meccanici), le strategie di complicazione semantica che ritroviamo spesso nel registro gnomico di molta letteratura sapienziale, che danno l’illusione di approfondire un carattere o una situazione rovesciandone l’attributo corrente; un po’ sulla scia di certi aforismi di Oscar Wilde, ma senza la sua amara irriverenza. In realtà è necessaria un po’ d’invenzione, di ricerca, come nella definizione della pampa data da Borges (“una vertigine orizzontale“), o nel titolo del romanzo di Milan Kundera (“L’insostenibile leggerezza dell’essere”), altrimenti si casca nella frase fatta di segno opposto, nel gioco a somma zero, come in certi ossimori tipici dell’indignazione giornalistica gratuita (appunto il “silenzio assordante“), e nei paradossi del sentimentalismo da canzonetta (“non c’è cielo più celeste di quello che ha vinto mille tempeste“).
5 novembre 2016 alle 23:45
Eh. Vorrei poterti dire che mi hai tolto la curiosità, ma la verità è che non ci ho capito (quasi) una mazza. In particolare “le strategie di complicazione semantica che ritroviamo spesso nel registro gnomico di molta letteratura sapienziale” è uno dei più bei giri di schiaffi in cui sono mai finito. M’hai fatto venire in mente questa:
6 novembre 2016 alle 00:29
“ Martedì 17 ottobre 2012 – Scrive la lettrice alla posta del cuore: « Lui, voyeur e onanista, ha sfruttato la sua dipendenza… ». Natalia Aspesi aggiunge un dettaglio: « Incline al mutismo ». Annoto queste cose perché ho il sospetto di averlo conosciuto, questo signor nessuno « voyeur e onanista », « incline al mutismo » etc. Ma forse mi sbaglio. Forse quello di cui voglio parlare è ancora una volta quello strano fenomenale evento che successe, all’incirca, mezzo secolo fa. Quando, questo è sicuro, finì, almeno in un certo senso, un mondo – e, in un certo senso, ne cominciò un altro… Il punto è che, dal punto di vista del mondo che finisce, quello che comincia dopo di lui è soltanto un post-mondo, un non-mondo, un’assenza di mondo, un vuoto, insomma. Una Waste Land, una Terra Desolata, chissà se non basterebbe dire una Terra… “ [*]
[*] Lsds / 73…
6 novembre 2016 alle 03:23
ma no dai, non era difficile, c’erano pure diversi esempi. gnomico è il tipo di scrittura sentenziosa, che ti spiega com’è la vita, e la letteratura sapienziale è gibran, tagore, terzani, quegli autori lì (pure coelho), che ne fanno abbondante uso. il silenzio assordante non è solo un ossimoro abusatissimo (e già questo lo depotenzia molto), ma è pure molto meccanico e ovvio. un re degli ossimori era pontiggia, che infatti dalle pagine del domenicale poco prima di morire lanciò un concorso per i più ingegnosi, e parecchi lettori parteciparono, inviandone di molto divertenti, tipo “banca etica”. io nel mio piccolo contribuii segnalando il nome di una manifestazione letteraria che si svolgeva nella mia terra, e che si chiamava “brianza cultura”. secondo me un buon ossimoro è un cortocircuito, non semplicemente l’unione di due opposti, o perlomeno non l’accostamento del primo contrario che viene in mente.
6 novembre 2016 alle 04:01
Mi sa che leggo meno di te..
In compenso ti rivelo l’ossimoro più breve che sono riuscito a trovare: è un aggettivo singolare: “plurale”.
6 novembre 2016 alle 11:01
Buongiorno, secondo me gli ossimori trovano la loro ragion d’essere esclusivamente, o quasi, nell’ambito delle allusioni metaforiche. Altro modo di interpretarli li farebbe scadere a un livello più basso, quello ad esempio della forzata interpretazione letterale e o percettiva, privandoli così della loro “incauta e intrinseca bellezza”.
Diverso è invece quando una scena diventa essa stessa un ossimoro e questo viene palesato con le parole. Come ad es. qui:
-«Apri gli occhi», gli dice quando ha finito. Anche lei ha sfilato le maniche del kimono facendolo scivolare sul pavimento. Si ritrovano nudi e vicini. Si prendono per i fianchi, stretti. Vederli da dietro, mentre si avviano verso la camera, è quasi un ossimoro, una contraddizione per via del fisico così diverso, così contrastante. Eppure, nulla stride davvero in questa diversità che fra pochi istanti non ci sarà più, convogliata tra le lenzuola pulite.- (si sta parlando di 2 uomini, un potente capo clan rom e un transessuale)
6 novembre 2016 alle 13:38
“ 12 novembre 1994 – « 21 mars 1888 – Lilia de Montille, qui a six ans, é-crit un roman. On y voit des phrases comme celle-ci: “ Oui, répondit-elle silencieusement. ” » (Romain Rolland, Le cloître de la rue d’Ulm. Journal de l’École Normale) “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] A proposito di ossimori.
6 novembre 2016 alle 14:31
Sergio, “vertigine orizzontale” è paradosso arricchito, intendo dire cioè una metalessi? Tanto per curiosità, perché queste cose non si trovano dappertutto.
6 novembre 2016 alle 15:35
è il contrario di bosco verticale 🙂
(e io son convinto che parte del successo di quel grattacielo milanese dipenda dall’invenzione del nome, perché l’idea c’era già nella torre guinigi di lucca, per dirne una)
9 novembre 2016 alle 14:44
[…] di una rivisitazione/riscrittura disinvolta di un certo Rossini, anche da parte di Giulio Mozzi. Qui e qui, se ne può leggere e perfino prelevare il testo su Vibrisse. S’intitola “Quel fragoroso […]
11 novembre 2016 alle 13:07
visto a Nonantola, i miei sgrammaticati ringramenti per un pomeriggio fragoroso di buonumore
14 novembre 2016 alle 16:37
Grazie a te, Miria.
22 novembre 2017 alle 18:15
[…] Quel fragoroso silenzio (buffonata rossiniana a Riva del Garda e a Nonantola) […]