Don DeLillo, “Zero K”. Appunti di lettura

by

don_delillodi Demetrio Paolin

Ci sono diversi modi per provare a dire qualcosa sull’ultimo libro di Don DeLillo Zero K (Einaudi 2016, trad. Federica Aceto). La maggior parte delle recensioni sono in realtà riflessioni molto profonde e ultime sul tema del romanzo. È vero che Zero K costringe il lettore a questo tipo di taglio speculativo visti i temi che affronta (la vita dopo la morte, i limiti etici e tecnici della scienza, il rapporto padri figli), ma proprio l’immensità di questi topoi letterari fa sì che spesso e volentieri le riflessioni sul romanzo siano più vicine a una speculazione filosofica che una effettiva ricognizione del testo.

Questi pochi e brevi appunti partiranno, invece, da una spia testuale, e spero possano essere altrettanto interessanti. Chiunque abbia avuto una lunga frequentazione dei testi dello scrittore amerciano  non può non aver avvertito un cambio radicale di stile da Underworld a quest’ultima fatica; un evento che potremmo definire: la sparizione della similitudine.

In Underworld la similitudine era un elemento portante della sintassi e della costruzione della frase di DeLillo: alcune volte nello stesso giro di frase le similitudini erano più d’una,una sorta gioco di specchi in un cui una similitudine illuminava l’altra, la chiariva e la rendeva ancora più complessa. Questo tipo di struttura della frase, sontuosa e bella come una foresta piena di piante, rendeva la prosa di DeLillo vicina a quella di Pynchon, di David Foster Wallace o Vollmann. Una lettura anche rapida di Zero K ci consegna un testo completamente diverso.

Non ci sono similitudini, se non pochissime e di servizio, e nessuna viene utilizzata per raccontare i sentimenti, di dolori, le emozioni dell’io narrante davanti alla morte/non morte della matrigna e alla decisione del padre di seguire la donna in questa follia. Nessun tipo di similitudine per descrivere i luoghi, i movimenti delle persone all’interno di questo enorme progetto faustiano di creare uomini che sopravvivano alla propria morte.

Si pensi al capitolo 10 della terza parte, in cui l’io narrante è sul pullman e assiste allo strano fenomeno del sole. Rileggendolo potrete notare come quelle due pagine – dove il rischio del lirismo era in agguato – vengono proprio risolte con la sparizione totale di qualsiasi similitudine.

Quando incominciamo a notare questo fenomeno nella prosa di DeLillo? Ovviamente non è un movimento improvviso, ma è graduale. I primi sintomi sono già in Cosmpolis (2003), ma secondo me raggiunge il suo vero punto di non ritorno ne L’uomo che cade (2007).  Mi sembra che alla base di questa nuova prosa di DeLillo ci sia un trauma ovvero il crollo delle Torri Gemelle e non credo che sia un caso che la prima effettiva sparizione delle similitudini sia rintracciabile in un romanzo che parla dell’11 settembre.

Quello che viene da chiederci è: cosa rappresenta la similitudine? Generalmente è il tentativo dello scrittore di dare un senso altro a quello che sta scrivendo: è un suggerimento al lettore. Una cosa del tipo “Guarda che qui avviene questo ma è come se avvenisse quest’altro”. La similitudine è un modo per offrire profondità al discorso. Il crollo delle Torri è come se avesse privato la realtà a cui DeLillo guarda di un qualsiasi spessore, come se avesse squarciato il cielo e avesse mostrato che dietro non c’è nulla. La similitudine serviva per creare una corrispondenza tra la natura, l’autore e il lettore rispetto a qualcosa di segreto che il romanzo conteneva.

L’assenza della similitudine porta la prosa di DeLillo a un suo effettivo asciugarsi, una maggiore e più pregnante aggettivazione e soprattutto crea un effetto enunciativo. Ogni frase di Zero K dice una cosa e la dice con assoluta chiarezza, non è equivoca, non è ambigua. È la descrizione della cosa come è. Prendiamo l’immagine finale: “L’intero disco solare, che inondava di luce le vie e illuminava le torri alla nostra destra e alla nostra sinistra; mi sono detto che quello che il bambino vedeva non era il cielo che crollava addosso: lui sperimentava il più puro senso di stupore all’intimo contatto fra la terra e il sole”. Nessuna sostantivo è superfluo, nessun aggettivo è in più, ogni cosa serve a rendere visibile al lettore lo stupore del bambino e la luce che invade le strade.

L’autore del Bronx più che scrivere dichiara. Perduta ogni possibilità di poter stabilire una connessione – il come della similitudine – tra questo mondo e un ipotetico altro (per questo secondo me leggere i romanzi di DeLillo come testi simbolici o allegorici è errato e controproducente), allo scrittore americano non resta che nominare. Come un nuovo Adamo che si trova davanti a una realtà completamente diversa, per raccontare ha bisogno di dare i nomi alle cose e alle persone. E non è quindi un caso che l’io narrante abbia l’ossessione dei nomi, che spesso si ripeta “devo trovare un nome per questa persona”, o che sia turbato perché suo padre ha deciso di cambiare il proprio nome e cognome. È una questione di identità, di perfetta corrispondenza tra la cosa e la sua esistenza. È cosa rimane di un uomo, quando ha perduto tutto, e s’avvicina a una morte eterna, una morte infinitamente rimandata nel gelo della temperatura zero Kelvin, se non la propria identità, il proprio povero e semplice nome?

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15 Risposte to “Don DeLillo, “Zero K”. Appunti di lettura”

  1. C.P. Says:

    Articolo davvero interessante, illuminante, grazie.

  2. Ma.Ma. Says:

    Non ho letto questo libro. Né altri di questo autore. Leggerò di certo questo libro. Gran bella recensione.

  3. Gianluca Barbera Says:

    Accidenti, che bella recensione. Io seguo con grande attenzione DeLillo da anni. Anzi, si può dire che è l’autore contemporaneo che conosco meglio. E mi ritrovo nel giudizio di Demetrio Paolin.

  4. C.P. Says:

    Questa mi sembra molto più di una recensione, perché, in fondo, prende solo spunto dall’ultimo romanzo di De Lillo per fare una riflessione (assolutamente efficace e convincente) su funzione e effetti delle similitudini in un testo narrativo. Anche se gli studi di retorica della prosa non sono più di moda da qualche decennio, le figure retoriche non hanno smesso, per questo, di produrre senso e di creare strade di lettura ancora da esplorare.

  5. pasott Says:

    Questa recensione mi è stata molto utile, sia perché si discosta parecchio dalle altre lette su Zero K, sia perché mi ha permesso di rendermi conto di quale sia il cambiamento nella scrittura di Don DeLillo che avevo percepito, ma non riuscivo a mettere a fuoco.

  6. enricomacioci Says:

    Bellissimo pezzo, Demetrio. Come sai non ho amato Zero K, ma non potrei contestare nessuna delle tue parole. Il processo che tu descrivi è in effetti evidentissimo anche in Body art e Punto Omega, altri due libri post/Underworld. DeLillo è cambiato.

  7. demetrio Says:

    Credo che molti abbiamo letto Zero K partendo dal suo immaginario, mi pare che facendo in questo modo il focus del romanzo si perda; mentre passando dall’analisi del testo, e in un certo senso raffreddando l’immaginario, si arriva infine a comprendere meglio il cuore del romanzo.

  8. Cristian Says:

    molto interessante (e chiaro). Torniamo al testo!

  9. Marina Says:

    Che recensione interessante! Purtroppo non ho ancora letto nulla di Delillo, ma pensò che provvedero’. Grazie

  10. L'esageratore Says:

    Bel testo, proprio perché non è una recensione, cioè votato obbligatoriamente a un qualche giudizio finale, ma testimonia la fioritura di un pensiero nato in mezzo al libro, un’impressione da dentro, una suggestione qui nominata e offerta a tutti noi: è per questo che ha senso leggere.

  11. Mattia Says:

    p. 111: «Niente similitudini, metafore o analogie. Una lingua che non rifuggirà dalle forme di verità oggettiva che non abbiamo mai sperimentato.». Il paradossale gioco di maschere dell’autore…
    Così come paradossale è l’ossessione adamitica di Jeffrey, perché nasce proprio dalla riscoperta del proprio passato, in un luogo dove tempo e spazio sono aboliti: «Inspiro la pioviggine dei dettagli del passato e so chi sono. Ciò che prima non riuscivo a riconoscere ora mi appartiene chiaro, filtrato dal tempo […]. La guardavo passare il rullo per togliere i pelucchi dal suo cappotto di panno. Definisci “cappotto”, mi dico. Definisci “tempo”, definisci “spazio”» (p. 93)

  12. Fiammetta Palpati Says:

    Grazie Demetrio Paolin. Concordo col commento di C.P. e questi tuoi appunti di lettura mi tornano molto utili per i miei ragionamenti.

  13. Many Kazem Goudarzi Says:

    Una recensione come si deve. Fa venire voglia di leggere questo romanzo.

  14. Alberto Maragliano Says:

    Sì, penso che DeLillo- nel suo mestiere di scrittore- sia ossessionato dal lavoro del togliere, togliere, togliere. È il famoso ‘labor limae’ di cui qualcuno ha parlato, e che rende le pagine di DeLillo come scarnificate e levigate sculture che risplendono in una luce stratosferica… Struggente!

  15. daniela Says:

    il mio gradimento riguardo la scrittura di Don Delillo è proprio all’ interno di quella mancanza di similitudine; le cose come sono. Provo una forte commozione davanti a questo, per esempio:

    “Quel momento esiste per essere dimenticato. E’ questo il suo scopo”

    Credo che finora questo sia il romanzo di Delillo più “levigato”. Se potessi mescolare senza timore, oserei dire Neoclassico.

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