Dunque Elena Ferrante sarebbe Anita Raja. Che cambia? Nulla, a mio avviso. Ho letto L’amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura e il volume che apre la tetralogia de L’amica geniale; ho trovato i primi due libri piuttosto contorti, il terzo bello e il quarto una perfetta, coinvolgente macchina narrativa. Non ho mai pensato al fatto di non conoscere l’identità dell’autrice dei testi, né mentre li leggevo né dopo; tutt’al più talora mi domandavo se davvero vi si celasse un uomo. La questione è dibattuta e delicata: esiste un modo di scrivere maschile ed uno femminile? Io non posseggo risposte, però a naso mi pareva che quei libri appartenessero alla sensibilità di una donna. E comunque: finché un romanzo mi piace (o non mi piace), chi l’ha concepito può essere uomo o donna, vivo o morto o moribondo; la biografia dell’autore/autrice non aggiunge e non sottrae un’oncia al godimento estetico. Debbo precisare che le biografie degli artisti mi appassionano; amo frugare nei loro segreti, nelle loro pene, nei loro squallori; ma tengo sempre distanti testo e persona. I dati biografici risultano utili ai fini d’un più preciso inquadramento, la sociologia e la psicologia ci soccorrono; ma non possono rappresentare il perno di un’analisi degna. Di William Shakespeare, forse il più grande scrittore di sempre, sappiamo pochissimo; fu davvero l’umile figlio d’un guantaio o non invece, come riteneva Freud, un nobile d’alto lignaggio? Fu magari Cristopher Marlowe sotto mentite spoglie, che tentava di sfuggire agli agguati politici del tempo? Fu addirittura un certo Crollalanza, siciliano migrato in Inghilterra? Non lo sappiamo, non lo sapremo mai e nemmeno c’interessa quando ci immergiamo nell’Amleto, nel Re Lear o ne La tempesta; allora conta solo la voce flautata che, traversando i secoli, ammalia il nostro orecchio.
Ma il nodo Ferrante/Raja sottolinea un’altra questione, più decisiva: quella del narcisismo. Ogni uomo o donna che decide di scrivere qualcosa, secondo me, versa nel proprio gesto almeno un goccio di narcisismo; se poi l’uomo o la donna, oltre che scrivere, pensa di pubblicare e infine pubblica, il livello del narcisismo cresce. Potrei sbagliarmi, parliamo di oscura intimità, ma lanciare nel mondo un nostro libro non è un po’ come spogliarsi davanti a una platea di centinaia, migliaia o perfino milioni di persone? Non costituisce un atto di notevole superbia, pur al netto di moventi genuini quali lo sforzo di toccare gli animi, la vocazione, il piacere, il mestiere, la speranza d’aggiungere a ciò che è stato detto anche una sola frase nuova? Alcuni romanzieri usano uno pseudonimo. E’ sempre accaduto; si nascondono; scherzano col fuoco, con l’insidioso gioco dello scrivere. Conservano uno spazio privato e così resistono, vien da pensare, ai pesi e alle lusinghe della gloria. Però riflettiamo: esiste qualcosa che attiri l’attenzione più del defilarsi? Esiste un modo migliore per catturare l’interesse che spregiarlo, o fingere di spregiarlo? Non appena si dà vita a un mistero, ecco che tutti bramano conoscerlo. Perciò io non giudico Thomas Pynchon meno egocentrico di Philip Roth o Don DeLillo, bensì più egocentrico; e mi fa sorridere che Pynchon mandi in sua vece qualcun altro a ritirare i premi che gli vengono tributati. Quale sublime protagonismo! Quale acuminato istinto per il vero centro del palcoscenico! La fuga dal mondo di Salinger, poi, fu vera fuga? Sappiamo che dall’eremo in cui si rinchiuse controllava ogni dettaglio che lo riguardasse, ma soprattutto sappiamo che lui sapeva: sapeva di suscitare curiosità morbosa, di sembrare speciale, d’esercitare fascino grazie all’irraggiungibilità e non a dispetto di essa. Come in amore, così in letteratura vince chi fugge.
Non tutti i frangenti sono uguali. Henry Roth, dopo Chiamalo sonno, si ritirò a vita privata per trent’anni, pressoché anonimo; ma quando il suo splendido libro venne riscoperto cedé alle sirene della fama, tornando pian piano a scrivere e a pubblicare. Di rado insomma la speciale voglia di vedere il proprio nome e cognome in cima a un titolo viene meno totalmente. Si combatte piuttosto una guerra fra il desiderio di sparire e quello di sopravvivere a sé stessi – guerra che, se non sempre si verifica, nemmeno rappresenta l’eccezione. Scrivere è difficile e alla tendenza a gettare la spugna s’accompagna un immenso orgoglio, l’orgoglio di tentare comunque la sfida – una sfida già persa. Segnalo al riguardo Bartleby e compagnia. Gli scrittori del no, di Enrique Vila-Matas: un catalogo di bizzarrie esistenziali ed editoriali.
Ch’io sappia (avanzo per paradigmi) esiste però almeno un caso di concreta disfatta dell’ego: Rimbaud. Tutti conosciamo la sua parabola; a diciannove anni smette di scrivere, ha pubblicato solo sei o sette copie di Una stagione all’inferno distribuendole a un pugno d’amici spiantati (le restanti quattrocento copie rimangono a impolverarsi in un deposito di Bruxelles, dove saranno ripescate nel 1901); se ne va in Africa, fa il mercante, il geografo, l’esploratore. Poi un giorno lo raggiunge ad Harar una lettera, da Parigi; il mittente è il direttore d’una prestigiosa rivista di poesia. La lettera lo informa che, a distanza d’un quindicennio dalla sua fulminea sortita nei salotti della capitale, tramite la pubblicità di Verlaine le sue liriche circolano fra gli appassionati, che egli è ritenuto il magico profeta di una poesia nuova, una figura cui gli artisti guardano con stupore e ammirazione. Rimbaud non rispose; nessuno in Africa conosceva il suo passato e nessuno lesse la lettera. Da ragazzo aveva volto le spalle alla scrittura mai immaginando di poter, un domani, riemergere dall’oblio nel quale coscientemente si tuffava; e di nuovo volse le spalle, di nuovo abbracciò l’oblio. Ficcò la missiva in un cassetto, fra i registri contabili e i le ricevute sulle balle di caffè e il traffico dei fucili. In capo a pochi anni morirà. La missiva verrà ritrovata dopo la sua morte.
Ecco, questa mi sembra una circostanza “letteraria” di credibile azzeramento dell’ego. Niente maschere, giochi o finzioni; solo una rinuncia scarna, solitaria e silenziosa. Se sai che nessuno ti sta osservando, non reciti. Se sai di sapere tu solamente, ogni vanità parrebbe esclusa e non resterebbe che il dramma. A ben vedere però anche nella corazza rimbaudiana s’apre una piccola crepa. Rimbaud conservò la lettera, non la gettò via. Non rispose ma non la gettò. Perché? Un sussulto d’amor proprio? Una breve gioia? Un poco di umano sollievo avvedendosi che il suo genio non era stato del tutto frainteso? Nel semplice gesto di mettere da parte la lettera (quanto tempo la tenne fra le mani? Quante volte la rilesse? Quanto ci rifletté? Quanto si emozionò? Quanto gli batté forte il cuore? Quanto fu tentato di rispondere? Quanto esultò? Quanto imprecò?), si spalanca l’abisso della modernità poetica; un abisso dove, essendo Io un Altro, al narcisismo si concede il posto che merita di occupare: il fondo d’un cassetto.
Tag: Arthur Rimbaud, Christopher Marlowe, Don DeLillo, Elena Ferrante, Enrico Macioci, Enrique Vila-Matas, Henry Roth, J.D. Salinger, Paul Verlaine, Philip Roth, Sigmond Freud, Thomas Pynchon, William Shakespeare
5 ottobre 2016 alle 06:29
“ Martedì 4 ottobre 2016 – A proposito del « caso Elena Ferrante », cioè dello « smascheramento » della scrittrice « Elena Ferrante » da parte del magazine del Sole 24 ore, avrei tanta voglia di dire che ogni gioco è bello quando dura poco etc. Ma a non lo dico, perché non lo penso, perché non è vero. Quello che penso, invece, è che, dopo avere fatto i complimenti agli inventori del gioco della « scrittrice misteriosa », la casa editrice e/o, oppure la scrittrice « Elena Ferrante », oppure colui/colei che si cela dietro il nome « Elena Ferrante », sento di doverli fare anche ai giornalisti, nel senso di quelli del Sole 24 ore, perché, non potendo vendere i libri di Elena Ferrante, sono riusciti a vendere le notizie su Elena Ferrante. Dove si dimostra che l’importante è vendere, perché chi compra vuole comunque comprare. E il resto è silenzio. Una menzione particolare per Michele Serra, che si è inventato il « diritto all’assenza ». Che come boutade è, non so se mi spiego, addirittura « geniale ». “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 07:35
Il pezzo alza un po’ la vista sicuramente, o l’abbassa, puntando sulla profondità dei concetti di assenza e presenza, certo. Però, signor Mozzi, a prescindere da presenza o assenza (dove i due concetti essenzialmente si equivalgono e convergono entrambi su quello di narcisismo) di un autore, del suo nome, del suo aspetto, della sua persona, posso chiederle cosa pensa dell’autenticità di un testo nella letteratura moderna? Io penso che per alzare davvero la vista su questo caso si dovrebbe partire da un’altra prospettiva: e cioè dal testo – se è vero che il nome none conta. Mi chiedo: non crede che per analizzare il caso Ferrante si dovrebbe partire più che altro dal concetto di AUTENTICITA’ del testo? Da tutta questa vicenda la cosa che più, a mio parere, destabilizza è la sensazione che venga meno in maniera grossolana il concetto di autenticità del testo. A differenza dei casi giustamente citati da Enrico Macioci, oggi sappiamo che la “macchina editoriale” spesso nasconde dietro un NOME” la “presenza invisibile” di dieci, venti, cinquanta e forse più dita a lavorare su di un testo. Quindi tanti nomi. Io credo che l’aspetto davvero essenziale sia questo: l’autenticità del testo. Appare in tutta evidenza, in questo caso, il tentativo (riuscito) di focalizzare l’attenzione su di un nome, una identità, fittizia o reale, che sposta l’attenzione da quella che è la perdita di autenticità, vero dramma della letteratura che conduce pian piano all’appiattimento ormai visibile, specie nell’editoria di largo consumo.
5 ottobre 2016 alle 07:54
“ Martedì 4 ottobre 2016 – A pensarci bene, si potrebbe anche decidere che più che sapere chi è Elena Ferrante sarebbe interessante sapere perché Elena Ferrante ha avuto il successo che ha avuto. Per esempio, se io fossi un professore universitario, cioè se mi pagassero per farlo, metterei su una squadretta di ricercatori, di laureandi, di cazzeggiandi, e li farei indagare, soprattutto leggendo i testi, ma anche considerando le copertine, oppure informandosi sull’editore, oppure analizzando il modo in cui questi romanzi sono stati « lanciati » etc. È anche vero che se io fossi un professore universitario saprei che mi pagano lo stesso anche se non lo faccio, e dunque non lo farei etc. Poi ho pensato che l’indagine potrei farla anche da solo, « per divertimento », ma il problema è che i romanzi della Ferrante, oggi come oggi, io non ce li ho. Così sono andato in libreria e ho chiesto: « Esiste un’edizione straordinariamente economica – ho detto proprio così: « straordinariamente economica » – de L’amica geniale della Ferrante? ». « No – mi ha riposto senza scomporsi la titolare -. C’è sempre solo quella a 17 e 50. ». Sócc, come direi se fossi di Bologna, belìn, come direi se fossi di Genova, ‘azzo, come direi se fossi di Napoli, minchia, come direi se fossi di Palermo… Insomma: non ne farò di niente. Potrei farmelo prestare, ma non mi va. Io, comunque, un’idea sulle ragioni per cui Elena Ferrante ha avuto il successo che ha avuto ce l’ho. Almeno su due: la prima è che è una donna, la seconda che è di Napoli, come Saviano, come Napolitano, tanto per capirsi. In generale, poi, io non ho alcuna vera voglia di leggerla. Ho appena cominciato Guerra e pace, è appena arrivato il principe Andrej, e mi sembra già troppo. E poi, tanto per dirla tutta, una casa in Toscana, io, per così dire, ce l’ho già. “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 07:58
E per una volta acabarra59 ha pesantemente abbassato il livello della conversazione.
5 ottobre 2016 alle 08:03
“ Mercoledì 5 ottobre 2016 – « Apro questo profilo Twitter e presto lo chiuderò. Sarò qui solo per il tempo necessario a spiegare. “ (Il primo dei tweet di Anita Raja / Elena Ferrante) Ma la notizia, per me, è un’altra: è che ieri sera ho cominciato a leggere L’amica geniale – sì, ho scoperto che in casa c’era già – e l’ho trovato, francamente, splendido. Nel senso di scritto splendidamente. Dopodiché non sono per niente sicuro di volerlo leggere ancora. Quello che so, che sono venuto a sapere, è che c’è chi scrive, che ha scritto. Come avrei voluto/dovuto scrivere io, come io non ho scritto. A meno che la verità non sia che io volevo soltanto leggere) “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 08:11
“ 4 luglio 1984 – Ho mantenuto fede all’assunto: non sono io che devo scrivere. E poi: non potevo. “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 08:36
Sarebbe curioso veder calare drasticamente il numero delle pubblicazioni se si accogliesse l’uso dell’anonimato.
5 ottobre 2016 alle 08:57
Scoprire la rivalità che fiorisce tra gli autori davanti al successo degli altri ferisce!
5 ottobre 2016 alle 09:30
sì, Altro che Ferrante. Trucco (ma è il nome anagrafico?) ha colto il momento. Grazie all’affaire Ferrante, acabarra ha mostrato la presenza di un Volto. Il suo diario si va fessurando e aprendo; che finisca una reclusione autoimposta? (e più raffinata di quella di Pynchon o Salinger). Acabarra potrà tornare a fare la belle dame sans merci, certo. Eppure, è successo qualcosa. Dalla luna alla terra. Date a Cesare, a Elena, ciò ch’è di Cesare, Elena. Se il fantasma si ricongiunge con la “carne” (una vita, un destino) si tira forse un sospiro di sollievo. Perché se è vero che la carne aggiunge poco o nulla al fantasma, come sanno i lettori gotici e non solo, il fantasma cerca, inquieto, il suo luogo in una biografia… il Volto cerca un volto…
5 ottobre 2016 alle 09:44
“ Come in amore, così in letteratura vince chi fugge. “, sento dire. Mah. Boh. Chissà – “ Martedì 4 ottobre 2016 – Stanotte, non so come, ma non è comunque la prima volta, mi è tornato in mente il sonetto di Ugo Foscolo che si intitola In morte del fratello Giovanni: « Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo »… Innanzitutto, ripetendolo, mi sono reso conto, con mia grande soddisfazione, di ricordarlo tutto benissimo. Inoltre, declamandomelo silenziosamente nella quiete notturna, mi sono accorto che mi sembra ancora molto bello, segno che forse, con tutto che è, ovviamente, « datato », probabilmente lo è. In ogni caso, per fare le cose per bene, ho voluto controllare se la versione che ricordavo è quella giusta, e, come ormai mi succede piuttosto spesso, sono andato a vedere nel cosiddetto web. Ho fatto anche delle curiose scoperte. Per esempio, che c’è chi scrive: « mi vedrai » invece di « me vedrai ». Oppure chi, invece di scrivere: « l’ossa mie rendete », scrive un più colloquiale ma metricamente improbabile « almen le ossa rendete ». Ma quello che mi ha colpito più di tutti è stato uno che, scrivendo « la madre or sol, suo dì tardo traendo, », ha deciso di scrivere « Madre », con la maiuscola, come se, invece che Ugo Foscolo, fosse Ferdinando Camon, o magari il museo d’arte moderna di Napoli. Mah. Boh. Chissà. “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 09:48
“Ma mi si noterá di piú se vengo a cena, o se non mi presento?”. Per anni ho riso dell’imitazione del mondo-mondano che faceva un caro amico. Leggendo questo articolo mi é venuta in mente: al di lá della posa, e del fatto che non conosco, né mi interessa sapere, i motivi per cui una scrittrice anonima decide di restare anonima in questo secolo e in questa vita, la riflessione di questo articolo mi ha aiutata a capire cos’era che non mi tornava di tutta la vicenda. Decidere di non esserci, appunto, non é meno atto del decidere di esserci. Elena Ferrante é stata presentata dal suo stesso editore come la donna senza volto: ne ha fatto, potere del marketing oltre che della necessitá, un marchio, anche un pochino sbandierato. Quando ho letto “L’amore molesto” non sono stata a chiedermi chi fosse: sono partita da lí perché era il primo e perché – lo ammetto – a sentirne parlare, mi aveva incuriosito sapere com’era questa scrittura che si tramutava direttamente in film o in successo, come erano le trame che chiamavano a sé plotoni di lettori in sette lingue diverse. Se avesse avuto una faccia o concesso interviste, non avrebbe minimamente cambiato la mia reazione nei confronti del libro (che mi ha lasciata tiepida, e sono due estati che mi dico: riprova).
Grazie per questa riflessione, piena di spunti “altri”: Shakespeare azzeccatissimo. E pure Rimbaud. Ci sono stati articoli, in questi giorni, che hanno riassunto la questione dell’anonimato in letteratura: spiegoni di motivi esterni (le Bronte che erano donne, la Austen pure, Romain Gary che non poteva aggiudicarsi due volte il Goncourt…) , ma la questione interessante é proprio questa, centrata da Macioci: come vive nel suo amor proprio uno scrittore la propria firma?
Per Acabarra, primo intervento: d’accordo su tutta la linea. Per di piú non é poco, per il Sole 24, aggiudicarsi una svalangata di copie vendute. Specie in questi giorni…
su Serra: muah.
5 ottobre 2016 alle 10:10
Io avevo capito che si era resa anonima con una strategia occulta per occultare l’occultamento delle royalties…
5 ottobre 2016 alle 10:11
Ma forse mi sbaglio: non conosco il mondo dell’editoria né quello della finanza e non godo di royalties…
5 ottobre 2016 alle 10:32
Una scrittura crea attorno a sé come onde nel lago altri cerchi: soldi, royalties ma certo (o indebitamenti), e anche grattacapi (vedi Saviano, o Rushdie, o Roth – mi pare – con litigi furiosi e cesure intorno a sé), o curiosità, senso dell’enigma, struggimenti… quando sui libri di Giulio ho letto l’indirizzo di Padova, ho detto: ma dài! guarda che “cerchio”; mi trovavo davanti qualcosa di davvero nuovo, più che salingeriano (l’autore che si può chiamare al telefono)… il libro inevitabilmente si espande nel mondo, non sta nella pelle… altro che strutturalismi!…
5 ottobre 2016 alle 10:36
Eppure – nel senso, pur condividendo alcuni punti di vista – io stropiccio il naso anche davanti ad alcuni passaggi di questo scritto (non solo davanti alla polemica nata attorno a questo “mistero”).
Ad esempio, l’attacco recita: “Dunque Elena Ferrante sarebbe Anita Raja. Che cambia? Nulla, a mio avviso.” E se fosse stato, per davvero, Giulio Mozzi? Oppure un personaggio molto più interessante e inaspettato di Anita Raja (che io non so chi sia, ma forse è pure interessante, eh)? Oppure se emergesse (non lo scrivo al passato perché siccome di solito il divertente è la ricerca più del risultato, di certo qualcuno solleverà altri dubbi) che è un team e non una sola testa a scrivere quei testi? Io credo che in questi casi forse cambierebbe: i critici comincerebbero a fare paragoni, i lettori si sentirebbero forse traditi, o che ne so io.
Personalmente nutro curiosità sul contenuto dei libri, più che sull’autore, ma se il contenuto sembra riguardare molto da vicino l’autore allora può essere che mi venga voglia di conoscere il suo vissuto, il suo nome, no. Tanto poi me li dimentico quasi sempre tutti, i nomi. Cioè non mi interessa chi è, come si chiama, ma che “cosa” lo ha portato a scrivere quelle determinate cose. (solo nel caso, come dicevo, che il libro mi faccia davvero nascere questo desiderio e non per il puro gusto di partecipare a una caccia al tesoro). In pratica: mi basterebbe poter scrivere a un indirizzo anonimo sapendo di ricevere poi la risposta dell’autore del libro… come estrema curiosità. Non mi interesserebbe incontrare la persona e leggere il suo nome sul passaporto. Però un interesse può nascere come detto sopra. Ciononostante non mi interessa sapere chi o “cosa“ sia la Ferrante (non ho mai letto un suo libro), ma non me la sento di generalizzare la regola.
Questo però è il punto di vista da lettrice sulla curiosità.
Quello che invece mi ha innervosita un po’ di più è il resto del discorso, quello sul narcisismo. E mi infastidisce perché non tiene in considerazione un’opzione alternativa. È un “quasi giudizio”, anche se ben argomentato, che non lascia spiragli, mentre qualche eccezione potrebbe esserci, secondo me.
Perché, ad esempio, un autore o un’autrice non potrebbe voler restare semplicemente nell’anonimato in quanto sociofobica? (O simili… agorofobica o complessata dal proprio aspetto o che ne so io). E attenzione: non sto dicendo che una sociofobica non sia narcisista, sto dicendo che in un caso simile pur volendo “godere” del proprio successo (v. il nome sulla copertina, la vincita di premi, i bei commenti della critica, l’incasso delle royalty) non voglia e non possa mettere in piazza il suo disagio.
Quando ho letto questa frase “(…) e mi fa sorridere che Pynchon mandi in sua vece qualcun altro a ritirare i premi che gli vengono tributati. Quale sublime protagonismo!” mi è proprio montata la rabbia. Premetto che non conosco la “realtà” dei fatti di questo specifico caso, ma a me sembra che l’articolo punti a generalizzare il punto di vista sostenendo che si tratti sempre di quasi un’operazione commerciale, o da intellettual chic. Ovvero sembra dire: chiunque faccia così è un grande vanitoso.
Ora io mi sono irritata perché una delle cose che ho sempre pensato è che se un giorno fossi mai diventata un pizzico nota, sarei di certo scomparsa e NON per fingere di non essere narcisista, ma proprio perché è difficilissimo per alcune persone (tra cui mi riconosco) accettare lusinghe e attenzioni in pubblico, e a volte pure in privato. Ho ritirato 4 o 5 premietti dove però c’era un sacco di gente ed è stato sempre un supplizio quasi ingestibile. L’ultimo che mi è stato consegnato… cioè che avrei dovuto ritirare mi ha mandata totalmente in crisi (spazio claustrofobico zeppo di persone), sicché alla fine io sono rimasta fuori dalla porta piangendo che non volevo entrare, e mandando poi mio marito a ritirare il premio con la scusa che mi ero sentita poco bene. Mi si può chiedere il motivo per cui allora uno si mette in “pubblico“ e partecipa ai premi e via dicendo e io rispondo: perché dovrei rinunciare a scrivere (e si scrive per farsi leggere, poche storie, e per riuscirci bisogna pur far conoscere, far girare quello che si scrive) a causa del fatto che ho difficoltà a incontrare dal vivo lettori e/o altri? Non lo capisco.
5 ottobre 2016 alle 10:58
Manuela, più ti leggo e più ti apprezzo.
5 ottobre 2016 alle 12:07
@ Ma.Ma.
Premesso che il mio è un punto di vista soggettivo, dunque fallace: poniamo che Pynchon sia sociofobico, ritirare un premio è comunque una manifestazione di narcisismo (inteso nel senso che ho cercato di sviluppare)? Per me sì, lo è – e se mi premiassero, ecco, io accetterei. Però mi rendo conto che le tue argomentazioni hanno un loro peso e un loro fondamento; e che il mio discorso è un po’ tranchant.
Sulla prima parte di ciò che dici invece dissento, ma anche qui si tratta di sensibilità personale; i libri della Ferrante esistono, quelli m’interessano mentre li leggo. Il “cosa” ha portato a scrivere una certa opera letteraria in un certo modo, vedi, son convinto che il più delle volte non lo sappia nemmeno l’autore.
5 ottobre 2016 alle 12:11
Sbaglia Enrico a dire che nulla cambia, Manuela: cambia lo statuto del libro La frantumaglia, nel quale Elena Ferrante racconta di sé, della propria infanzia, della propria famiglia.
Ora sappiamo che è un’opera di finzione.
Maria Cristina: no, nessuna evasione fiscale. Solo una strategia umana e artistica.
5 ottobre 2016 alle 12:26
“ Mercoledì 5 ottobre 2016 – « Che secolo di nani “: per essere uno che scappa non c’è bisogno di essere Rimbaud, basta essere (un pochino) alti. “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 13:23
“Nel semplice gesto di mettere da parte la lettera … si spalanca l’abisso della modernità poetica” questo mi interessa più di tutto : potrebbe Macioci dare qualche spiegazione?
5 ottobre 2016 alle 13:47
Ho letto volentieri il bel pezzo di Enrico Macioci. Ma mi pare si affronti la questione solo per un verso, forse il più interessante per quasi tutti. Non sarà forse il caso di Elena Ferrante, o magari sì: con la scrittura letteraria ci si mette a rischio, o in certi casi in pericolo, e mandare avanti un altro è un buon modo per ripararsi. Non parlo di pericoli e rischi materiali, ma degli effetti di coinvolgimento di chi scrive nell’insieme o nel sistema di relazioni formulato dal testo: in fondo si scrive anche per riformulare i propri rapporti con il mondo, e rinunciare a un’autorialità diretta è un buon modo per evitare che il mondo riformuli i suoi rapporti con te, a partire dal testo. È una banalità ma bisogna pur parlarne in modo meno banale; per non farne solo questione di virtù.
(Evidentemente ad Enrico interessano gli aspetti che ha messo in luce; a me quest’altro interessa un po’ di più, sgusciato dalla sua banalità, dico).
Da questo punto di vista, lo svelamento della Ferrante è una violazione (della privatezza ma soprattutto della privatezza dell’immaginazione, diciamo, ma provo a spiegarmi decentemente:
L’autore che concepisce il proprio lavoro letterario come attribuibile alla propria persona si mette in gioco truccandolo come può, mimetizzando la “realtà” dentro la finzione nel modo più inoffensivo possibile per i propri obiettivi sensibili e bon. Chi s’inventa il proprio autore non ha questi problemi, a meno che non immagina di poter esser scoperto facilmente (ma se così fosse non avrebbe senso perder tempo a nascondersi) e dunque mette in gioco una finzione diversa, meno mascherata e con una vulnerabilità diversa. Cambiando il nome dell’autore dai suoi testi lo si mette semplicemente nei guai. O almeno così sembra a me.
Dite se sbaglio).
E c’è poi lo sconvolgimento della natura di certe scrittura. Come faceva notare Giulio, un’autobiografia – che ha caratteristiche testuali ben precise: di genere – viene trasformata in un’opera di finzione o peggio in una presa in giro (se la natura autobiografica del racconto è sbandierata qui e là nell’opera). Eccetera.
5 ottobre 2016 alle 14:07
Ecco, sì, Giulio, c’entra comunque con i contenuti…
@ Enrico, come scrivo a un certo punto “non sto dicendo che una sociofobica non sia narcisista” (e nemmeno che la Ferrante sia sociofobica, è un’opzione che però non credo si possa escludere a priori). Dico che non concordo con la teoria secondo cui (che è quello che, mi pare di capire, sottintenda il tuo articolo) chi “non si fa vedere in pubblico” (come per ritirare un premio) lo faccia sempre o necessariamente con la volontà anche inconscia di aumentare il suo “protagonismo”, che potrebbe invece essere solo conseguenza di una necessità. Se sono sociofobico non solo posso benissimo accettare un premio, anzi mi lusingherebbe molto e nutrirebbe con efficacia il mio narcisismo, ma ciò non toglie che non riuscirei a venire a ritirarlo… e forse questa rinuncia mi costerebbe anche parecchio in termini di soddisfazione personale. Non so se riesco a spiegarmi.
Il tuo discorso più che tagliato a fette (in realtà la teoria sul narcisismo calza a pennello, e tu riescei ad argomentarla benissimo, ma richiede delle ragioni d’origine tali e quali a quelle da te supposte) è piuttosto unidirezionale. Io ho voluto inserire una variante.
Su quanto ogni autore sappia o meno quel che fa, boh, credo che ci siano un milione di possibili varianti anche in questo caso: io apprezzo comunque una certa buona dose di consapevolezza, il che non significa che l’autore poi voglia condividere “quel che ci sta dietro”, ci mancherebbe. È un suo diritto. Così come però credo sia un mio “diritto” porre – se ne ho occasione – eventuali domande.
Recentemente ne ho poste un paio sul libro di Edoardo Zambelli (L’antagonista) e non ho potuto fare a meno di porle all’autore. In sintesi chiedevo qual era il motivo per cui voleva sconvolgere il lettore (riferendomi in particolare alla descrizione di una scena, ma senza esplicitarlo). Gli chiedevo quale fosse la sua intenzione, che cosa voleva produrre nei lettori con il suo romanzo. Roberto Gasco su Fb ha quindi chiesto quanto segue: ” Ma un autore dovrebbe sentirsi tenuto a rispondere a domande del genere?” sostenendo che fosse poco sensato porre questo tipo di domande utili, secondo lui, solo ad “attenuare la responsabilità del lettore”. Dal mio punto di vista, ho posto quelle domande non per cercare risposte in sostituzione di quelle che non avrei voglia di trovare da sola. Le ho poste per dare “una possibilità” all’autore di spiegarmi il motivo per cui ha voluto darmi “uno schiaffo”. Forse sono, sì, troppo stupida per capirlo da me. Oppure forse l’esagerazione è stata voluta solo per il gusto di darmi quello schiaffo e allora non ne sarei davvero felice: non avevo bisogno di quello schiaffo. Se invece l’autore fosse convinto che serviva per giustificare il comportamento della protagonista, penserei che è stato esagerato, non serviva tanto; se invece ci fosse un messaggio più artistico penserei di nuovo che in quel tipo di contesto, di narrazione non mi interessava una sberla di quella portata su quel tema. Se è stata un’operazione disturbante solo a fini commerciali, lo troverei di bassa lega; soprattutto se credeva ci fosse bisogno di qualcosa di “forte” per lasciare un segno nel lettore, perché in quel caso si è sbagliato di grosso: il resto del libro, soprattutto quelle sovrapposizioni di realtà sospese che nulla hanno davvero a che vedere (per me) con la scena che mi ha disturbata di più, non solo reggevano da sole, ma erano il bello di quel romanzo, un “bello” inquinato da quella scena… Come vedi tutte le risposte che mi sono data non trovano una buona giustificazione, da qui le domande all’autore: che ovviamente non è tenuto a rispondere. Ci mancherebbe. Ma per me sarebbe un peccato. Ecco. Oggi che è gli scambi sono più accessibili, io credo che sia arricchente provarci. Tutto qui. E nel caso in cui ricevessi una risposta diversa da quelle ipotizzate e forse anche illuminante, be’, a me cambierebbe il contenuto del libro… proprio così: gli potrei dare un valore diverso, che forse – ribadisco, anche per incapacità personale – non riesco a dargli. E per questo non mi serve sapere chi è Zambelli, ma sapere ciò che lo ha spinto o portato a scrivere quella roba lì.
(Maria Cristina: smuack)
5 ottobre 2016 alle 14:13
“ Mercoledì 5 ottobre 2016 – « Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio d’identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com’è dall’idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte. » (Elena Ferrante, L’amica geniale, 2011) “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 14:34
@ Giulio:
riguardo allo statuto de La frantumaglia. Beh sì, a livello “reale” si tratta di un’impostura, ma al livello “virtuale” cui ogni lettore (volente o nolente) si pone, ebbene che c’importa se ha mentito? La frantumaglia è un libro efficace, sì o no? Questo credo conti. Cioè per me non fa davvero nessuna differenza, come lettura e ricezione mia intima, se domani venissero a dirmi che l’Amleto lo ha scritto non l’uomo di Stratford ma Francesco Bacone o il conte DeVere o Marlowe redivivo. Un anno fa uscì uno studio che contestava a Rimbaud la paternità delle Illuminazioni; se fosse vero, ciò ridimensionerebbe o comunque cambierebbe il mio giudizio su Rimbaud, ma non sulle Illuminazioni. Insomma il giudizio storico muta, quello personale sulle opere invece… Magari, senza accorgermene, sono un cultore dell’assolutezza del testo; eppure ribadisco d’amare un sacco la conoscenza delle vite degli autori…
Rispondo agli altri, che ringrazio per l’interessamento, dopo, con più calma
5 ottobre 2016 alle 14:45
(Ci metto queste parentesi a chiarimento del mio intervento, e in mezzo solo quest’esempio – perché anch’io non sono granché attento ai rapporti fra autore e testo, di solito -: quando ho letto l’autobiografia di James Ballard, “I miracoli della vita”, sapevo quasi niente dell’autore; era un nome e nell’ambito di una letteratura che ho sempre mal frequentato; quel libro mi colpì invece per la sua forza letteraria ma che coincide nello specifico caso con una forza umana, o non saprei come dire. L’annuncio poi nelle ultime pagine della sua malattia (che qualche anno dopo l’avrebbe extraletterariamente ucciso) lo afferrai come un qualcosa di difficilmente riconducibile alle pieghe del testo, ma forse non mi spiego. Se qualcuno m’avesse detto per farmi uno scherzo “‘I miracoli della vita’ è un’opera di finzione” e ci avessi creduto per qualche motivo, l’immaginazione e il suo ricordo legati a quel libro avrebbero perso immediatamente di senso, cioè di forza. Piccolo esempio, ma eccezionale anche per me).
5 ottobre 2016 alle 15:19
Tanto rumor per nulla…
5 ottobre 2016 alle 15:46
@ christian
La tua domanda richiederebbe almeno dieci pagine di risposta, ma provo una sintesi. Se Rimbaud è stato solo un geniale mattoide, nulla ci cale di lui e della sua vicenda; se invece è stato, come sembra, un grande poeta, e anzi uno dei più influenti sulla poesia a venire, allora la sua parabola non è più solo una faccenda individuale – ove per parabola intendo la sua opera estrema e il suo sfociare nel silenzio, che di quell’opera costituisce la coda pressoché obbligata (per parabola intendo anche, in parte, la vita di Rimbaud, perché in lui opera e vita s’intrecciano; ma lui è davvero un’eccezione). Mi sembra insomma che dopo Rimbaud muti il collocarsi dello scrittore da un punto di vista sociale, autoriale, spirituale; che dopo Rimbaud l’asticella del rischio, per usare un termine abusato, si sia fatta più alta. La sua provocazione metafisica suona ancor oggi “assolutamente moderna”, e tutte le avanguardie mi paiono al suo confronto delle retroguardie Ma ripeto, il discorso sarebbe lunghissimo.
@ dm
Non ho ben capito cosa intendi. Ma se avessi letto il libro di Ballard (che non conosco) credendolo un’opera di fiction, sei certo che la tua fruizione sarebbe stata diversa? La mia non è una domanda retorica, ma una reale curiosità.
@ Ma.Ma.
Capisco bene le tue ragioni, tuttavia nessuno mi toglie dalla testa che Pynchon stia al gioco. Ha costruito un personaggio e questo personaggio funziona. Comunque non ci contraddiciamo: Salinger, per esempio, era sia sociofobico che narcisista
Sulla seconda faccenda, ti rispondo basandomi sulla mia limitata esperienza. Ogni volta che presento un mio libro salta fuori qualcuno a farmi notare qualcosa che io non avevo notato, che io non avevo messo con coscienza nel libro, che io non sapevo esserci e che pure c’è. A volte il fenomeno assume proporzioni inquietanti… al punto di farmi dubitare gravemente delle mie capacità di controllo sul testo.
Mi permetto comunque di darti un piccolo suggerimento; appropriati con maggiore convinzione del tuo ruolo di lettrice attiva, co-creativa; se in un’opera hai trovato delle cose, non è necessario che l’autore ce le abbia messe di proposito e non è necessario che l’autore sappia che, per te, quelle cose ci sono. Non è necessario, insomma, spiegare e spiegarsi. Può essere bello, ma non è necessario (mia idea, magari sbaglio eh; però pensa a quanti classici morti leggi, e da cui non puoi ricavare risposta alcuna). Ogni opera letteraria seria somiglia a un labirinto infinito, senza considerare poi i desideri e le pulsioni che, nella lettura, ci muovono a cercare… e a trovare. Come dice un mistico, da un certo punto in avanti non crediamo più a ciò che vediamo, ma vediamo ciò a cui crediamo.
5 ottobre 2016 alle 16:55
Il narcisismo degli artisti è una componente della personalità che porta a esporsi, con il proprio nome o senza, con il desiderio di raggiungere un pubblico o meno. Non mi pare un problema, anzi (non ne era immune neanche Rimbaud, anche se la sua esperienza poetica e umana semplicemente non è rapportabile ai nostri termini di misura). E’ il narcisismo dei mediocri che è una piaga.
5 ottobre 2016 alle 17:01
Enrico, io la penso come te. Riconosco però delle eccezioni. Ci sono dei moti di commozione che hanno una leva emotiva diversa dalle “emozioni letterarie” e che dipendono dagli effetti del testo sulla vita dello scrivente o viceversa da quelli della vita sul testo. Se io scrivessi, nel mio blog per esempio, che sono gravemente malato e sto per morire, i miei lettori leggerebbero in un altro modo tutto ciò che scrivo; sapere che qualcuno che sta per morire ha voglia di comunicarti qualcosa, ti fa aprire ben bene le orecchie. E c’è una differenza tra aprire le orecchie per finta – per una fruizione finzionale classica, diciamo – e farlo invece nei confronti di un essere umano in carne e ossa (senza la mediazione del narratore, ecco). Questo mi sembra indiscutibile.
Se, proseguendo il mio esempio funereo, venisse fuori a un certo punto che ho mentito, che non mi chiamo come mi chiamo, che sono sano come un pesce, la commozione dei miei lettori verrebbe meno. O almeno quella commozione autentica (ma sono disposto ad accettare altre definizioni) che avviene tra due esseri umani mediante la parola scritta; e non è mediata da ectoplasmi testuali a uso e consumo letterario.
Non so se è più chiaro. O se è più condivisibile.
5 ottobre 2016 alle 17:15
“Il narcisismo degli artisti è una componente della personalità..E’ il narcisismo dei mediocri che è una piaga.”
Che è come dire che il narcisismo delle attrici è un componente della personalità ma quello delle racchie una piaga.
Pensiero interessante
5 ottobre 2016 alle 17:58
“ 22 febbraio 1987 – Curiosity killed the cat. “ [*] [**]
[*] Avviso a tutti i Gatti.
[**] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 18:27
@dm
Non è che voglia farti le pulci a ogni costo, è che il discorso m’interessa. Due cose mi vengono in mente:
1) il tuo blog non è un romanzo, e cambiando la cornice cambiano anche le convenzioni; o no?
2) mi ricordo di essermi commosso ugualmente leggendo Vite che non sono la mia (che racconta fatti veri) e Il miglio verde (che racconti fatti inventati). Era forse diverso il TIPO di commozione che provavo? Non lo so; ricordo che sentivo una gran pena per la condizione dell’essere umano, per la nostra fragilità e la nostra impotenza. Questo ci sta portando lontano dal discorso del narcisismo, dell’identità eccetera? Forse. Diciamo che esiste un’intercapedine fra l’autore e la persona, siamo d’accordo; ma l’opera invece, quanto è autonoma?
5 ottobre 2016 alle 18:31
Andrea, no: è come dire che il narcisismo di Dante ha dato luogo alla Divina Commedia e quello di Federico Moccia a “Tre metri sopra il cielo”.
5 ottobre 2016 alle 19:46
“ Domenica 6 maggio 2001 – Ho poi anche letto l’articolo di Daria Galateria. Non era come avevo creduto di dover pensare, fuorviato da un titolo malizioso – eppure dovrei saperlo come lavora un titolista… Anzi è interessante: vi si racconta anche che il Rimbaud « africano », pensò addirittura di diventare fotografo. Che sono quelle idee che possono venire a tutti, soprattutto quando fa troppo caldo. “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 21:22
Uhm, Enrico, domandi:
Ma perché la presenza della cornice blog è così determinante nello stabilire il regime di finzione di un testo, mentre della cornice legata al libro non ti curi?
Mi sembra di capire che qui per te un blog è diverso da un romanzo proprio perché comunemente lo si legge in un’ottica di finzione diversa. Ma non si legge anche un’autobiografia in un’ottica di finzione diversa rispetto al romanzo?
Scusa per l’eccesso interrogativo. Ma ho l’impressione che sia difficile stabilire il proprio comportamento di lettore a tavolino. E questo mi cruccia. Vorrei avere le idee molto più chiare sulla faccenda.
5 ottobre 2016 alle 21:59
Capisco l’emotività di Ma.Ma. (io ero uno di quei mariti che andava a ritirare i premi).
A proposito di Rimbaud e della lettera, non è che gli sia semplicemente accaduto qualcosa di esistenziale che gli abbia fatto cambiar pagina, o reso impotente ad essere quello che era (tipo Oscar Wilde)?
Capisco il narcisismo “in corso”, ma l’episodio di Rimbaud non potrebbe essere stato altro che il piacevole ricordo di un vecchio amore, superato da una passione attuale? O come smettere di fumare? Forse Rimbaud si sarà stufato, preso da attività più coinvolgenti, intendo dire, e il narcisismo non c’entra.
5 ottobre 2016 alle 22:26
“ Lunedì 24 dicembre 2013 – « [A] Londra nel 1872, Rimbaud, per ispirar confidenza nelle rispettabili famiglie presso cui sperava di trovar lezioni di francese, s’era comprato un cappello a cilindro, e quello soleva teneramente carezzare col gomito, per farne splendere la seta; […] Ma le lezioni non erano venute, e Rimbaud s’era dovuto adattare a far l’operaio in una fabbrica di scatole di cartone, e a riservar la tuba per recarsi a leggere al British Museum […], e in quella schiera di déclassés che ogni mattina sfilano dinanzi alle impassibili colonne joniche del Museo Britannico, la figura del vagabondo dalle lunghe gambe, cogl’ingenui occhi ceruli all’ombra dell’imponente tuba, non sarà stata la men pittoresca. » (Mario Praz, Rimbaud, in Motivi e figure, 1945) “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 ottobre 2016 alle 23:13
Ah, ecco – adesso si spiega. Grazie acabarra.
6 ottobre 2016 alle 02:55
“ Lunedì 15 dicembre 1997 – Stamattina, appena sveglio, mi viene fatto di ripensare a quella vignetta di Forattini – di molti anni fa – in cui la didascalia era il celebre verso di Arthur Rimbaud che dice: « Elle est retrouvée… Quoi? l’Eternité / c’est la mer allée avec le soleil ». Non mi ricordo quale fosse il contenuto della vignetta, forse c’era ritratto un so¬cialdemocratico tipo Cariglia, non ricordo assolutamente a che proposito. Ricordo però che pensai che effettivamente, da qual¬cuno, direi senz’altro da Forattini, un’eternità era stata ritrovata. È quella che dura da allora, devono essere poco meno di vent’anni, e ancora non accenna a finire. Un’eternità, quando c’è, ha il potere, oltreché di durare, di rendere tutto il resto caduco, di non far durare nient’altro che se stessa, di far cessare ogni altra possibile eternità. Un’eternità, continuando, fa finire tutto. Non c’è niente di più micidiale di un’eternità. “. [*]
[*] Lsds / 73…
6 ottobre 2016 alle 09:41
@ dm
Ma scrivere su un blog è diverso che scrivere un romanzo, o anche un’autobiografia; o no? 😦
Sull’autobiografia: non la amo come genere, preferisco la biografia; diciamo che ne diffido perché ho sempre il sospetto – fondato, temo – che si tratti di fiction spacciata per realtà. Ma come vedi stiamo andando sempre più lontano (il che è anche bello, sia chiaro).
@ ezio
Beh, di sicuro a Rimbaud accadde “qualcosa di esistenziale”; però credo non abbia mai nutrito nessun “piacevole ricordo di un vecchio amore”. Io non l’ho conosciuto, ma avendone studiato opere lettere vita e avendo letto pressoché tutto ciò che su di lui è stato pubblicato in Italia, direi (in estrema sintesi) che per lui la scrittura fu dapprima una gigantesca sbornia, poi una gigantesca nausea. Con Oscar Wilde non vedo nessun parallelismo; forse non lo vedo con nessuno altro. In realtà Rimbaud ci sta sviando (mea culpa, che per primo l’ho introdotto nella discussione); io su di lui la penso come Palazzeschi: “Il caso più stupefacente, inquietante e insolubile nella poesia da me conosciuta. Oserei dire che fa parte a sè, senza le naturali parentele che tutti i poeti hanno fra di loro.” Però questo unicum è diventato, suo malgrado, un exemplum, nel momento in cui è entrato nel canone dei più importanti poeti della modernità. Ora questo poeta compie un’azione molto strana: a diciannove anni smette di scrivere, e con disgusto rifiuta la letteratura in blocco. Io m’interrogo su questo gesto: dobbiamo considerarlo solo un accidente individuale o in qualche maniera può riguardarci?
@ acabarra
So che Rimbaud lavorò in quella fabbrica di scatole, e so che andava al British Museum; ho letto da qualche parte che forse là incontrava Marx; tu ne sai qualcosa di più?
6 ottobre 2016 alle 09:45
“è come dire che il narcisismo di Dante ha dato luogo alla Divina Commedia e quello di Federico Moccia a “Tre metri sopra il cielo”.”
A me risulta che “Tre metri sopra il cielo” sia stato rifiutato da tutti gli editori prima di avere un successo iniziale basato solo sul passa parola. Magari è un libro stupido, ma assolutamente non “mediocre”. Anzi, per tanti lettori è stato “ottimo”.
Comunque sia: su che basi qualifichi mediocre l’opera di Moccia? Piace? Vende? Allora è un genio, punto e basta. Mediocri sono quella infinità di scrittori che pubblicano tanto per vendere nulla.
6 ottobre 2016 alle 11:14
Questione interessante. Direi che in generale definire mediocre il narcisismo altrui è la sublimazione del narcisista 🙂
6 ottobre 2016 alle 12:20
” Piace? Vende? Allora è un genio, punto e basta. ”
“ 4 luglio 1994 – « 27 luglio – Questa mattina, defecazione eccezionale: due piccoli escrementi in forma di corno di rinoceronte. Delle feci così poco abbondanti mi preoccupano. Avevo pensato che lo champagne, a cui sono così poco abituato, avrebbe avuto un effetto lassativo. Ma meno di un’ora dopo devo tornare al gabinetto dove ho finalmente un’evacuazione normale. Le mie due corna di rinoceronte erano dunque la fine di un altro processo. Ritornerò su questo fatto d’un interesse primordiale. » (Salvador Dalì, Diario d’un genio, 1952) “ [*]
[*] Lsds / 73…
6 ottobre 2016 alle 13:23
(Uhm, Enrico, mi pareva che stessimo discutendo di testi dalla prospettiva dei lettori; non da quella degli scriventi. Comunque anche io leggo poco di autobiografia, è una forma di finzione debole che trova forza in una specie di “ostensione” della prova vivente, l’autore. Ed è un modo della persuasione che m’interessa meno, rispetto al resto).
6 ottobre 2016 alle 15:21
“acabarra59 Says:….”
La corazzata Kotiomkin… è una cagata pazzesca! »
Ugo Fantozzi – Il secondo tragico Fantozzi.
6 ottobre 2016 alle 15:56
“ Sabato 25 settembre 2010 – Al supermercato Sma un ciccione canuto in vestaglia e ciabatte Crocs ai piedi sta fermo davanti al banco della verdura. È un matto? No, è Paolo Villaggio. Infatti ha l’aria di non sentirsi per niente a disagio, come se fosse a casa sua. Notizia-scoop: il giovane che l’accompagna – un cameriere? un badante? – si chiama Ivan – dev’essere appena sceso da quella cagata pazzesca della Corazzata Potemkin. « Mettiti i guanti! », comanda l’accigliato buffone. “ [*]
[*] Lsds / 73…
6 ottobre 2016 alle 16:53
“Comunque sia: su che basi qualifichi mediocre l’opera di Moccia? Piace? Vende? Allora è un genio, punto e basta. Mediocri sono quella infinità di scrittori che pubblicano tanto per vendere nulla.”
Andrea, sicuramente i giudizi di valore son soggettivi, mentre il numero di copie vendute è un dato oggettivo: ma se anche La Divina Commedia dovesse vendere meno di Tre metri sopra il cielo io continuerei a pensare che il primo è un capolavoro assoluto e il secondo no, con tutto il rispetto e la simpatia per il signor Moccia.
6 ottobre 2016 alle 16:59
“Non sono nessuno per giudicare, so soltanto che ho un’antipatia innata verso i censori, i probiviri… Ma soprattutto sono i redentori coloro che mi disturbano di più.” (Corto Maltese)Tango – y todo a media luz
6 ottobre 2016 alle 17:14
[…] siamo sicuri se sia davvero lei o sia un’altra. Leggete, se avete tempo e vi fidate di me, questo bel post scritto da Enrico Macioci e, mi raccomando di nuovo, arrivate fino alla fine, fino alle bellissime righe che parlano di […]
6 ottobre 2016 alle 17:49
@CP: Lo penso anche io e Moccia mi pare noiossimo. Però mia figlia è partita da Moccia e da Shannara e ieri mi ha chiesto Il nome della rosa e Solaris. Credo sia anche merito di Tre metri sopra il cielo e di una abitudine alla lettura che è nata su romanzi stile Harmony. Io odio gli Harmony
6 ottobre 2016 alle 18:18
@CP scusa, la pagina era aperta per sbaglio ho inviato. Volevo solo aggiungere che anche io trovo insulsi, mediocri, noiosi alcuni scrittori ma più passa il tempo più ho difficolta a considerare le mie opinioni qualcosa in più che semplici opinioni e le opinioni degli “intellettuali” come qualitativamente superiori alle mie.
Non so se conosci l’affresco sulla Tomba del tuffatore di Paestum. Non ho mai visto nulla di così bello, potente, profondo. Nessun dipinto, di qualsiasi tipo, è di pari livello. Non capisco come possa essere andato perduto il nome dell’autore. Di lui non si sa nulla. Però, se si è dato agli affreschi mortuari, in una cittadina di provincia come Paestum, tutto questo successo non deve averlo avuto
6 ottobre 2016 alle 18:49
@Andrea, del pittore della Tomba del Tuffatore – non la conoscevo, grazie, andrò a vederla- non sappiamo nulla, ma possiamo immaginare che il primo a godere di quelle linee purissime, che ancora oggi ci emozionano, sia stato lui. Ne ha goduto quando le ha immaginate e quando le ha realizzate sulla superficie della tomba, senza pensare certo che a distanza di millenni qualcuno avrebbe potuto ammirarle e comprenderle. Il “narcisismo” che compone le personalità artistiche (secondo me) è questo gioire di sé e rendere tangibile agli altri la propria bellezza, mostrandola. Il narcisismo senza capacità artistiche mi pare solo narcisismo. Ma posso sbagliare, anzi, sbaglio di sicuro.
6 ottobre 2016 alle 20:59
@cp: Si, ma io ancora non ho capito chi stabilisce se le qualità artistiche ci sono o meno.
Le possiblità sono 2: o noi o gli altri. Tu preferisci gli altri?
6 ottobre 2016 alle 23:13
@Andrea: sono possibili tutti e due i punti di vista (quello di chi produce e quello di chi fruisce), e tutti e due possono rivelarsi, alla luce dei fatti, sbagliati. Boccaccio si pentì del Decameron e voleva distruggerlo (Petrarca lo convinse a non farlo); Virgilio chiese ai suoi esecutori testamentari, Rufo e Tucca, di distruggere l’Eneide; Kafka se non sbaglio, chiese la stessa cosa a Max Brod (non di distruggere l’Eneide): oggi, alla luce di quello che le loro opere hanno rappresentato per l’umanità, possiamo dire che si sbagliavano. Così come si sbagliavano le folle di lettori di Trilby di Charles Du Maurier, grandissimo best seller dell’Ottocento oggi praticamente sconosciuto (e praticamente illeggibile). Non mi pare che un punto di vista escluda l’altro, che ci sia una regola univoca. Alla tua domanda risponderei che se si ci sono qualità artistiche lo stabilisce il tempo, anche se il tempo, per colpa del caso o delle decisioni di chi gestisce il canone (critici, professori, editori), qualche volta, può sbagliare.
7 ottobre 2016 alle 06:46
La parabola di Rimbaud ci riguarda perché è stata la più radicale critica che si sia mai vista alla condizione del letterato in età industriale e quindi non solo ci porta paradossalmente a considerare la condizione di chi scrive in età preindustriale (quando per così dire il poeta non lo è di mestiere) come più libera, ma soprattutto deve portarci a considerare criticamente la condizione di chi scrive oggi, che da una parte è inserito nel meccanismo della produzione da specialista e dall’altra è spinto a espandersi secondo la logica del supermercato in tuttologo e la poesia è defraudata della vita a cui, solo, – alle spalle dello stesso autore che niente è se non il suo modesto veicolo – quella deve rispondere.
7 ottobre 2016 alle 09:27
@ Cristian
Vai – sinteticamente – assai vicino a ciò che mi sembra importante nel “caso/Rimbaud”, oltre alla straordinarietà e alla novità della sua poesia.
7 ottobre 2016 alle 09:41
@CP Proprio perchè le qualità artistiche le stabilisce il tempo trovo sbagliato parlare di narcisimo dei mediocri. Come si fa a definire Moccia mediocre? Vendere vende, segno che in tanti gli riconoscono delle qualità e quindi che non è “medio”.
7 ottobre 2016 alle 10:21
@ Andrea: se ti fa piacere avere l’ultima parola te la lascio volentieri; se ti aspetti che risponda ai tuoi commenti rivolti a me ti rispondo altrettanto volentieri, ma non qui. Mi sembra che stiamo un po’ abusando della pazienza altrui.
7 ottobre 2016 alle 10:44
“ Sabato 17 marzo 2007 – Lo scrittore Federico Moccia, con quella faccia da cretino che si ritrova, dice una cosa intelligente: che scrive quello che vorrebbe leggere. Naturalmente non se l’è inventata lui, e nemmeno io – perché l’ho pensata anche io -, ma, come idea del perché si scrive, rimane piuttosto buona. Nel senso che si scrive per leggere. Nel senso che, alla fin fine, è quello che si vuole di più. Gli capita anche un curioso lapsus. Dice che i giovani « guardano i libri e leggono la televisione » – lo nota anche lui e si capisce che avrebbe voglia di pensarci subito sopra. Ieri ho letto sul giornale: « Il pantano afgano ». Mi chiedo che cosa c’è in un pantano che lo rende, a meno di non essere rane, a meno di non essere rospi, invivibile. Dev’essere, penso, l’acqua ferma, l’acqua sporca, l’acqua mescolata alla terra, la melma, il fango, insomma. Per me, la parola « pantano » evoca tuttavia qualcosa di più personale di una disavventura politico-militare. Anche se è vero che anche per me si è trattato di una « disfatta », di un « disfarmi », di un « essere disfatto », proprio come nel « disfecemi Maremma » di Dante-e-Giannanannini. Oppure come in un altro diario, quello che dice: « 31 marzo 1994 – “ I compagni di gita stanno già partendo, perché vorrebbero godersi la pista tre volte; ci troveremo più tardi al passo del Bernina. Allacciando gli sci già una sensazione curiosa; non preoccupazione, perché la discesa non è difficile, la neve è ottima. Infatti vado liscio, senza cadere, eppure resta la curiosa sensazione. Cosa c’è di diverso da prima? Forse sono gli occhiali; quindi mi fermo lungo il percorso e li pulisco. Resta la curiosa sensazione, finché sono alla meta e mi tolgo gli sci, e scopro: ho fatto tutto il percorso con la pipa in bocca. È stato un anno fa. Per scrivere sull’invecchiamento bastò a Michel de Montaigne la perdita di un dente; egli scrisse: « Così mi disfaccio e mi vado smarrito ». “ » (Max Frisch, Diario della coscienza, 1967) “. [*] [**]
[*] Lsds / 73
[**] Tanto per continuare a abusare…
7 ottobre 2016 alle 11:12
Ho trovato sia l’articolo che la discussione molto interessanti (e di questo ringrazio). Le motivazioni alla base di un nascondimento (che nel caso di Elena Ferrante raggiunge il suo livello più estremo) possono essere molte, a mio parere. Ci può essere, certo, del narcisismo, così come il sottrarsi può essere la conseguenza di un comportamento fobico (o dichiaratamente sociopatico). Aggiungerei, tuttavia, un’ulteriore variabile, molto più prosaica, ma di buonsenso (credo). In una giornata, come sappiamo, ci sono ventiquattro ore. Una parte di queste (facciamo un minimo di sei) se ne vanno per il sonno; poi ci sono il lavoro (quello che produce reddito: non tutti e – forse – non la maggior parte degli scrittori si mantiene esclusivamente grazie alle proprie opere), per la famiglia (ed eventuali relazioni sociali collegate), per mangiare, fare la spesa, cucinare, lavarsi, vestirsi, eccetera. C’è poi un tempo che, chi scrive, dedica alla scrittura: spesso non è molto, spesso è sempre meno di ciò che si vorrebbe. Io non ho pubblicato nulla, però scrivo. E scrivo perché mi piace scrivere: mi piace leggere in funzione della scrittura, mi piace dedicare spazi consistenti della mia giornata a coltivare le mie immaginazioni, mi piace, poi, mettermi davanti alla tastiera e produrre testo, cartelle e cartelle di testo. Certo, vorrei pubblicare: è ovvio che il desiderio ultimo di chi scrive sia quello di essere letto. Però considero la pubblicazione strumentale al raggiungimento di un pubblico più o meno vasto, non un obiettivo di per se stessa: la cosa importante, la cosa che mi interessa, è la scrittura in sé, costruire una relazione con il lettore attraverso i miei testi: a questo voglio, in prima istanza, dedicare il mio tempo. Pubblicare significa entrare in un mondo composto da determinate relazioni sociali, da determinati impegni, da determinati obblighi che – nel caso si raggiunga una certa notorietà – possono diventare consistenti. Lo stesso fatto di gestire un blog o un profilo Facebook (per non parlare di Twitter) può diventare molto impegnativo. Anche questo impegno si traduce in tempo: minuti, ore, giornate che vengono, inevitabilmente, sottratte alla scrittura. Qui si producono due estremi: da un lato, chi scrive lo fa esclusivamente per avere accesso a questa rete di relazioni sociali (fare la presentazione, comparire in pubblico, ricevere like e commenti su Facebook, eccetera), ossia per ottenere una notorietà attraverso la scrittura; dall’altro, chi scrive accetta – più o meno volentieri – di essere coinvolto in questa rete di relazioni sociali per poter continuare a scrivere (perché il libro va promosso, perché i lettori gradiscono conoscere un nome e vedere un volto, eccetera), ossia accetta la notorietà come prezzo da pagare (magari vincendo una ritrosia o una sociopatia). In mezzo a questi estremi, ci sono molte gradazioni: c’è quella che viene definita “normalità”. Ora: se una scrittrice riesce a escludersi completamente dalla rete di relazioni sociali e, nonostante questo, a pubblicare ed essere letta io dico: che male c’è? È il suo un comportamento “non normale”, nel senso che si pone agli estremi? Può essere, ma ugualmente: che male c’è? Nessuno, credo (e mi pare che su questo concordiamo in molti).
La cosa che mi stupisce del caso Ferrante è, semmai, lo stupore. Mi stupisce il fatto che ci si stupisca che molte persone cerchino di scoprirne l’identità, facciano congetture, arrivino – addirittura – a comportamenti palesemente intrusivi o sgradevoli. Mi stupisce perché non viviamo in un mondo perfetto. In un mondo perfetto, accadrebbe questo: Elena Ferrante compie una scelta di anonimato per motivi suoi (che non è tenuta a spiegare); chi la legge e la apprezza continua a leggerla e ad apprezzarla nonostante questo ed esclusivamente per i suoi testi; chi non la legge e non la apprezza continua a non leggerla e a non apprezzarla per i suoi testi e a prescindere dalla sua scelta. Punto. Ma noi non viviamo in un mondo perfetto. Nel nostro mondo – imperfetto e popolato da esseri imperfetti – ogni decisione comporta conseguenze più o meno giuste che vanno gestite. Chi compie una scelta come quella di Elena Ferrante deve sapere che è un suo diritto farlo (è un diritto che personalmente condivido: anzi, avessi le capacità sue, mi comporterei alla stessa maniera) ma che ci saranno, a conseguenza di questo comportamento: persone che si accaniscono per svelarne l’identità; persone che malignano; persone che accusano; persone che se ne infischiano e leggono comunque; persone che simpatizzano; persone che si schierano per difenderla; persone che, al limite, sollevano qualche dubbio circa qualche incoerenza (penso all’articolo di Tiziano Scarpa; incongruenze, a loro volta, comprensibilissime, appunto perché siamo persone imperfette). Soprattutto, persone che non capiscono e fraintendono. È inevitabile e umano, dunque: perché stupirsene?
7 ottobre 2016 alle 11:14
A proposito di geniali cagate, segnalo a chi fosse interessato e non li conoscesse, gli studi notevoli di Montaigne sugli effetti dei veicoli sul basso ventre e, en passant, le doti nascoste di zoppi e zoppe (Studi – III vol.).
Concordo che ciò che è individuale ci riguarda tutti. Purtroppo non sempre è interessante – o attuale.
La mediocrità è statisticamente votata al successo, non mi sembra un problema se non dal punto di vista ecologico. Con gli e-book va meglio.
Non sono molto d’accordo che le qualità le stabilisca solo il tempo.
Non so cosa, ma c’è qualcosa che non funziona.
Ad es. ho scoperto da poco Knut Hamsun e, al contempo, che il romanzo con cui ha vinto il Nobel nel 1920 è introvabile, mentre ogni coccio con più di trecento anni viene transennato, etichettato e illuminato.
In un interessante bando di concorso artistico potevano partecipare solo “artisti” e così venivano definiti solo quelli a cui la comunità degli “artisti” riconosceva tale status. Questo negli USA, dove non si può negare l’esistenza del commercio.
Per contro, in un paese dell’Est, ante-89 e ancora poco dopo, agli studenti dell’accademia di belle arti veniva negato il permesso di esporre fin che non avessero terminato il percorso di studi.
7 ottobre 2016 alle 12:53
@ valentina durante
Affermi cose molto sensate, che condivido.
Vorrei precisare in generale due questioni:
1) il narcisismo è una delle componenti ma non l’unica per chi scrive e pubblica; io ho deciso di dare al mio articolo quel taglio lì, ma ciò non vuol dire che pretenda che il mio articolo metta tutti d’accordo o riassuma tutte le questioni in gioco – che sono moltissime;
2) io, per quel che può interessare, ho letto e apprezzato Elena Ferrante DEL TUTTO A PRESCINDERE dalla sua identità misteriosa; cioè a me questo fatto del mistero non interessava e non interessa minimamente. Anche qui non pretendo di istituire una regola comune, solo rispondere a coloro i quali danno per scontato che il nascondersi della Ferrante sia una mossa di marketing – e una mossa di marketing per forza azzeccata.
Tutti questi nascondimenti in realtà – Ferrante, Pynchon, Wu Ming eccetera – mi sembrano posticci perché poi queste persone o “entità” nella realtà sociale esistono eccome, interagiscono, guadagnano, vendono, ricevono premi e critiche eccetera. Può darsi che proprio io, che m’interesso quasi solo di faccende misteriose, sia qui refrattario al concetto di mistero. Del resto non ci si conosce mai abbastanza 🙂
7 ottobre 2016 alle 14:54
@Enrico: E mi trovi d’accordo. La mia personale opinione (dunque, come tutte le opinioni, potenzialmente fallace) è che il rapporto fra autore e lettore debba basarsi sul rispetto.
Un autore ha rispetto per il lettore quando gli porge bei testi: quali che siano le sue motivazioni profonde (che possono essere tantissime) il campo dove si gioca la relazione è il testo come prodotto artistico: dunque non uno sfogatoio (benché il materiale di partenza possa anche essere autobiografico), né qualunque altro risultato di strumentalizzazione. C’è un preciso e consapevole lavoro sulla forma, c’è un relazionarsi con altri testi (più che con altri autori: o meglio: con altri autori attraverso i loro testi). C’è, insomma, un lavoro dove l’artificio e la finzione la fanno da padrone (sto, ovviamente, parlando di narrativa). Io non ho bisogno di conoscere l’identità o il dato biografico dell’autore per sentirmi parte di questa relazione fiduciaria: se leggo qualcosa di artisticamente valido, questo mi basta per sentirmi rispettata. Io, almeno, quando scrivo mi comporto in questo modo: è questo il tipo di rispetto che cerco di porgere a chi mi legge.
Un lettore ha rispetto per l’autore quando accetta ciò che l’autore ha deciso di condividere: ci sono narratori che espongono solo la forma dei propri testi (e dunque un prodotto finzionale). Autori (questo è più frequente, mi pare, fra i poeti) che scrivono saggi, articoli di giornale, post per chiarire una determinata poetica o fare una riflessione – attraverso testi di natura argomentativa – che esuli dalla finzione. Ci sono autori che si espongono alle presentazioni. Esistono, anche qui, molte casistiche e variegati livelli di apertura che vanno, secondo me, rispettati. Io difficilmente farei domande a un narratore circa la relazione fra i contenuti della finzione e il suo dato autobiografico: non ho bisogno di questo, per apprezzare o capire il suo testo. Accetto ciò che l’autore spontaneamente decide di porgermi: che può anche – perché no – cambiare col tempo.
7 ottobre 2016 alle 15:09
Valentina Durante sempre precisa e concreta. Nel tuo elenco e per maggior stupore, io aggiungerei anche: le persone che scrivono delle persone che scrivono 🙂
8 ottobre 2016 alle 05:38
comunque sia la scelta della Ferrante di essere come autrice puro flatus vocis, di non esistere, di scindere l’autore dall’ opera e la sciare che questa viaggi per conto suo ( e così l’autore non si fa personaggio immagine esegeta di sé tuttologo) è una scelta interessante.
8 ottobre 2016 alle 09:05
“ Domenica 23 agosto 1998 – Noto che, quanto più progredisce – in rilevanza, influenza, pervasività sociale – il cinema – che è un’arte essenzialmente silenziosa, cioè un’arte la cui essenza è il silenzio, cioè, come forse si può azzardarsi a dire, è l’arte della realizzazione del silenzio, anzi del « silenzio realizzato » -, tanto più cresce la petulanza sociale, cioè il numero di quelli che ne parlano a vanvera, che parlano a vanvera, che, in sostanza, fanno rumore. È un paradosso? Dal punto di vista del cinema no. Che le parole non servono a niente, che sono solo flatus vocis, sonorità patetiche, poco meno di fischi, poco più che scorregge, è esattamente quello che il cinema si è sempre proposto di dimostrare. “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] Perché ormai io “ odio “ il cinema… (Ho imparato dal cinema che cos’è la letteratura)
8 ottobre 2016 alle 19:36
Rimabaud; Kafka; Max Brod.
8 ottobre 2016 alle 19:43
Nel senso che fa rima con Baudo, non Pippo, Baudolino.