Dieci proposte per il rinnovamento della letteratura cattolica

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di giuliomozzi

1. Tempo fa commisi l’errore di procurarmi un libro che s’intitolava più o meno La letteratura cattolica nel Novecento. Dico “più o meno” perché l’ho poi dato via, e non mi torna in mente il nome dell’autore. L’ho dato via perché in quel libro si identificava la “letteratura cattolica” con (a) narrazioni in prosa, romanzi o racconti, aventi per protagonisti preti o suore; (b) componimenti poetici assimilabili al genere letterario della preghiera. La prima proposta, dunque, è: fare della letteratura cattolica che, se in prosa, non consista di narrazioni aventi per protagonisti preti o suore; se in versi, non consista di componimenti assimilabili al genere letterario della preghiera.

2. Nel 1999 Giovanni Paolo II scrisse una Lettera agli artisti. Vi si parla di arti figurative, di architettura, di musica, di poesia, di teatro, fors’anche di giocoleria e di pirotecnica, ma di romanzi no. I romanzieri, insomma, per la massima autorità dell’organizzazione ecclesiastica cattolica, non esistono. D’altra parte, mi ricordo, più o meno in quel periodo ebbi occasione, dopo la registrazione di un programma di Sat2000, di fare due chiacchiere con il cardinal Paul Poupard, allora presidente del Consiglio pontificio per la cultura: e Poupard mi disse che l’ultimo romanzo che lo aveva veramente colpito era il Diario di un curato di campagna di George Bernanos: un romanzo (molto bello, per carità) con protagonista un prete, per l’appunto, e comunque del 1936. La seconda proposta, dunque, è mandare romanzi in omaggio al papa e ai cardinali. Chissà, magari leggono. (Ve lo vedete, Bergoglio che ogni sera, a letto, prima di spegnere la luce, si legge un capitolo di Infinite Jest? Io sì).

3. Peraltro: Antonio Spadaro ventisette anni fa era un giovane gesuita (ancora novizio, se non ricordo male, quando lo conobbi) molto interessato alla letteratura (fondò nel 1998 Bombacarta, scrisse e pubblicò su Tondelli, Carver, Flanney O’ Connor…) e probabilmente mandato “in missione” dal suo ordine presso la letteratura; fece poi – meritatamente, credo – carriera; entrò in redazione alla Civiltà cattolica, rivista prestigiosissima, dove continuò a occuparsi di letteratura; ne divenne il direttore; si allargò alla ciberteologia (Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Milano, Vita e Pensiero, 2012); e da quando il suo collega Bergoglio (per l’appunto gesuita) è diventato papa col nome d’arte di Francesco, gli sta sempre appresso (almeno a giudicare dai tweet). La terza proposta è dunque: stare appresso ad Antonio Spadaro, che oltre tutto è un ragazzo simpatico. Potrebbe essere una quinta colonna. Magari lo è già.

4. Circa mezzo millennio fa (ma per le organizzazioni religiose, si sa, il tempo è un dettaglio) un capo dell’Inquisizione (oggi diremmo: un prefetto della Congregazione per la difesa della fede) poi diventato papa, nel compilare alcune lettere di istruzioni per gli inquisitori suoi sottoposti, invitava a prestare particolare attenzione ai libri stampati, allora di recente invenzione, in quanto dotati di una capacità di moltiplicazione e circolazione enorme. Ma invitava anche a concentrarsi sui libri di contenuto concettuale, lasciando perdere quelli di “favole”: che tanto son favole, e non fanno male a nessuno. La quarta proposta, dunque, è: riflettere, meditare, scrivere, produrre ponderose opere che indaghino che cosa diavolo (ops!) siano esattamente, in una prospettiva cattolica, le “favole”, e quale sia il loro rapporto con il mondo dei concetti e con quello delle realtà (materiali e metafisiche). Perché se la cultura laica sostiene, più o meno, che “il romanzo è la coscienza dell’Europa” (sono parole, da tanti ripetute, di Milan Kundera), bisognerà pur capire che cosa è il romanzo in rapporto alla cristianità o almeno alla cattolicità.

5. Qualche anno fa lo scrittore Federico Platania, dichiaratamente cattolico, pubblicò nel proprio blog una serie di brevi interviste a scrittori dichiaratamente cattolici. Alla prima domanda, “Ti riconosci nella definizione di ‘scrittore cattolico’? E più in generale, cosa pensi di questa classificazione?”, le risposte sono state per lo più evitanti: “Sarà che le etichette mi fanno venire i brividi, ma preferisco tenere i due ambiti separati” (Francesco Longo), “Non mi riconosco in questa classificazione. Credo che, dal punto di vista letterario, non sia particolarmente significativa” (Eraldo Affinati), “Credo nei ruoli, non nelle classificazioni e meno ancora nelle definizioni” (Simonetta Scandivasci), “Eviterei la definizione di scrittore cattolico” (Maurizio Cotrona), “Mi si addicono entrambi: sostantivo e aggettivo. Ma non li salderei per farne una classificazione o un manifesto” (Alberto Bellini), “No. Per uno che detesta le etichette, gli steccati e le classificazioni l’espressione scrittore cattolico non significa nulla” (Giovanni Cocco), “Non mi riconosco. Scrivo e in quel che scrivo passa l’ascolto della vita così come mi appartiene, da persona che crede. Come capita allo scrittore che non crede o che è agnostico” (Mariapia Veladiano), “Non sono mai riuscito a capire cosa significhi scrittore cattolico. Per me è un’informazione puramente aneddotica, se non addirittura un nonsense, come scrittore longilineo” (Luca Doninelli), “Non significa granché. Come nessuna classificazione a priori” (Davide Rondoni). Questa ritrosia è impressionante. La quinta proposta, quindi è: riflettere su questa ritrosia, se non altro per capire se (per esempio) l’errore non stia nella domanda, cioè se effettivamente non abbia senso parlare di “letteratura cattolica”.

6. Nella medesima serie di interviste, così rispondeva Walter Binaghi: “Intanto è sicuro che esistono dei cattolici. Cominciamo a definire quelli. Cattolico è colui che, oltre a credere ed affermare che Cristo è il principio e il fine dell’umanità, Colui nel quale l’umanità è chiamata alla comunione con Dio, crede che l’unità della fede cristiana sia garantita dallo Spirito Santo nella Chiesa nata dalla tradizione apostolica, la quale non è etnia né ideologia né cultura ma è fatta per ospitare ogni uomo che viene a questo mondo. In secondo luogo è sicuro che esistono degli scrittori. Definisco scrittore colui che si assume la responsabilità di una comunicazione pubblica non nella labilità della forma orale o radiotelevisiva ma nella scrittura che è garanzia di ponderatezza e di storicità (scripta manent). Dunque esistono degli scrittori cattolici solo nella misura in cui la pienezza dell’umanità in Cristo è il presupposto implicito o esplicito della loro comunicazione e l’universalità è il loro orizzonte, nel senso che nessun aspetto della condizione umana è escluso dalla loro indagine”. La sesta proposta è dunque: riflettere sull’ultima frase di questa risposta.

7. Nella medesima serie di interviste, così rispondeva Gabriele Dadati: “Sono un essere umano cattolico, nel senso di: mi emoziono a immaginare la creazione del mondo, mi terrorizzo a immaginare la verità dell’ostia come corpo vivo, trovo nutritivo immaginare la vita dei miei morti e così via. Poi so bene che i testi sacri sono nel tempo e corrotti dal tempo, che la gerarchia ecclesiastica è quel che è, che non è facile capire cosa ci dica ancora oggi la tradizione e così via. Ma posso dire che le mie immaginazioni restano vere durante l’intera mia giornata, quando mangio e quando passeggio, quando lavoro e quando pago il bollo della macchina. Sicché sì, restan vere anche quando scrivo. Per me questo è l’unico significato di “scrittore cattolico” nella mia vita”. La risposta sarebbe identica a quella di Walter Binaghi, se Dadati non parlasse di “immaginazioni”. E Veronica Tomassini rispondeva: “Alla questione non ho mai pensato in questi termini. E tuttavia in questi termini è stato scritto il romanzo Sangue di cane. Qualcuno lo ha definito uno dei pochi testi cristologici di questi anni. Non lo so, l’esperienza personale attiene alla scrittura e viceversa, senza Dio non sarei in grado di rileggere la mia vita, e quel che ho prodotto fino ad oggi attiene essenzialmente ad essa”. La settima proposta, dunque, è: interrogarsi sul senso dell’immaginario religioso in quanto immaginario e in quanto “strumento di lettura della vita” (il presupposto della proposta è che gli immaginari altro non siano che “strumenti di lettura della vita”).

8. Mi toccò di essere il primo di quella serie di interviste, e – come è mio solito – risposi mettendo in questione la domanda: “La domanda è, per me: in quali contesti diventa rilevante l’accostamento dell’aggettivo cattolico al sostantivo scrittore? Un altro modo per porre la stessa domanda è: quando di uno scrittore si dice che è cattolico, che cosa si dice di lui? Nella mia esperienza, nei contesti della critica letteraria, della discussione culturale et similia, quando di uno scrittore si dice che è cattolico, si intende dire che ci ha qualcosa di misterioso. Che è una persona ragionevole, magari, ma che in lui c’è un luogo nel quale, anche a guardarci bene, non si vede niente”. L’ottava proposta è dunque: prendere coscienza che non tutto può essere illuminato, e che una letteratura cattolica – posto che sia possibile – non ha come mestiere quello di tranquillizzare e rassicurare, ma casomai quello di inquietare: mostrando, appunto, l’esistenza di di luoghi oscuri nei quali, anche a guardarci bene, non si vede niente.

9. Uno dei problemi delle “religioni del libro” è che, in genere, la scrittura del libro al quale fanno riferimento – e che talvolta qualificano schiettamente come parola di Dio – sembra essere terminata da tempo; anzi, dirò di più, sembra essersi arrestata da tempo. Come se fino a un certo giorno il Signore avesse parlato in certi modi, confidando agli uomini la sua Parola, e poi basta. Questa interruzione era, è inspiegabile. Certo: i motivi organizzativi, politici, eccetera, che stanno dietro a questa idea di interruzione – sono evidenti. Un canone mobile non è funzionale a nessun potere. La nona proposta, dunque, è: lavoriamo per riaprire il canone. O almeno, come minimo, per rileggerlo, riscriverlo, ritradurlo. L’esempio di Mario Pomilio col suo Quinto evangelio, di Giuseppe Berto col suo La Gloria, di Diego Fabbri col suo Processo a Gesù, di Carlo Coccioli col suo Davide, eccetera, tanto per restare in Italia, sono lì a indicare delle possibilità. Ma l’ambizione suprema resterà quella di aggiungere un libro al Libro (come voleva fare quel baciapile di Nietzsche, in fondo, col suo Zarathustra).

10. Per finire: non va trascurato il fatto che gli scrittori cattolici e le scrittrici cattoliche riescono in genere a far parlare di sé solo quando pubblicano con editori non cattolici, scrivono su giornali non cattolici, partecipano a programmi televisivi non cattolici di televisioni non cattoliche, eccetera. La decima proposta è dunque: l’abolizione dell’editoria cattolica, in quanto inutile (più esattamente: il riconoscimento dell’editoria cattolica come “sistema chiuso”, e quindi tendenzialmente precipitante su sé stesso).

Se ho scritto sciocchezze, fàtemelo sapere.

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16 Risposte to “Dieci proposte per il rinnovamento della letteratura cattolica”

  1. Fiammetta Palpati Says:

    Dunque, in base al punto 1, qualora Le Orfane dovesse essere considerato letteratura, non lo faresti rientrare?

  2. acabarra59 Says:

    “ Mercoledì 25 giugno 1997 – Nella ricerca di « rossori » per la mia raccolta di didascalie mi sono imbattuto in due bei volumi pubblicati in Francia che contengono « les plus belles affiches », cioè manifesti, di cinema. Fra le tante ho scelto quella di un film di Robert Bresson: Le journal d’un curé de campagne (« d’après le roman de Georges Bernanos », 1950). Vi si vedono un prete e una ragazza che stanno l’uno di fronte all’altra. Ma la ragazza – che è vestita di rosso -, sta, con gli occhi appassionatamente chiusi, al di qua di una porta a vetri, cioè dentro casa, tenendo la mano appoggiata sul pomello, non si sa se per aprire o per chiudere, mentre il prete – che ovviamente è vestito di nero – sta al di là della porta, cioè fuori, guardandola con aria intensa e direi preoccupata, come di chi desidererebbe entrare o comunque si preoccupa di restare in mezzo alla strada. La mia didascalia dice: Casalinghità. (Mi sembra di capire ora che cosa intendeva dire il mio amico quando, quasi quarant’anni fa, improvvisamente disse, facendomi meravigliare – eravamo ancora ragazzi -: « Bisogna aprire ai cattolici ». Poi si sa come è andata: sono stati i cattolici che hanno « aperto » ai comunisti, etc. etc.) “. [*]
    [*] Lsds / 73…

  3. dm Says:

    Due cose, sulla punta della lingua.
    (La premessa è che non sono cattolico; ma ho letto parecchi scrittori che a quanto pare sono “scrittori cattolici”):
    Uno. Secondo me, non tutti i libri di scrittori cattolici sono libri per cui l’autore si possa definire scrittore cattolico.
    “Il cimitero cinese” di Mario Pomilio proprio non mi sembra il romanzo d’uno scrittore cattolico.
    Ovviamente “Il quinto evangelio”, sì.
    Poi. E questa è davvero una stupidata. Ma le stupidate possono essere generative. Se guardate da prospettive intelligenti.
    Allora:
    Credo che possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che un romanzo è poco più di un discorso, un discorso piuttosto lungo a proposito di alcuni (o molti, a volte moltissimi) accadimenti. Dev’essere un discorso convincente, persuasivo. E in questo consiste – a grandi linee – l’effetto realistico.
    Ora, a me è capitato – nel leggere “Davide” di Coccioli, ad esempio, ma in modo molto più amplificato col “Quinto evangelio” – di sentire, insieme a tutto ciò che passa del romanzo a un lettore (fatti, piano simbolico, allegorico eccetera) grazie alla forza del linguaggio e alla sua qualità immaginifica, anche una promessa di senso, o forse dovrei dire un’esplicita richiesta di credere. Il Pomilio del “Quinto evangelio” vuole, da buon romanziere, che tu sospenda l’incredulità a proposito dei fatti raccontati e, allo stesso tempo, vuole che tu creda. In Dio, nel senso ultimo del libro. È ricattatorio, in qualche modo. E precisamente usa gli strumenti della persuasione letteraria per farti accettare, almeno temporaneamente, che quello che là è detto è la verità. Io credo che qualsiasi narrazione sia una richiesta, profonda a seconda di quanto è convincente, a credere per finta a tutta una serie di cose. La finzione è, per il lettore, una chiamata a credere; per finta. Se io non fingo di credere a tutto ciò che mi dice, lo scrittore non ha effetto su di me. Mi lascia inerte. E Pomilio, da scrittore cattolico, mette fra le cose a cui devi credere anche Dio. Lo dico con brutalità (e di sicuro questa questione del “credere per finta” meriterebbe una trattazione più accattivante e precisa, ma vabbè): lo scrittore cattolico vuole la tua conversione. Lo scrittore cattolico vuole che tu creda, per finta, se proprio non ci puoi credere per davvero, all’esistenza di Dio. Lo scrittore cattolico è un ricattatore, se è… uno scrittore cattolico vero. Come Pomilio. Che ti costringe – se davvero vuoi accedere alla bellezza del suo capolavoro – a credere un po’, anche se non ti va. Parlo ovviamente dalla prospettiva del lettore non-cattolico. E, un lettore non-cattolico come il sottoscritto non ci riesce con facilità, fa una grande fatica, ma poi si gode il frutto della certezza d’un giudizio universale, di un mondo ordinato, di un salvatore che ci ha guidato, per un pezzo, di una verità ultima più rassicurante del niente, di un clima esotico, culturalmente parlando, che non trova da nessuna parte (perché nessuno può costringerti, con le buone o le cattive, a credere; nemmeno per finta; solo un romanzo può). …In questo senso, ad esempio – vediamo se mi spiego – Alessandro Manzoni è uno scrittore meno cattolico. La visione del mondo è, più che altro, una visione sulmondo. Nel senso in cui il mondo di Renzo e Lucia funziona in un certo modo; come tutti i mondi romanzeschi che si rispettino, e non pretende di sconfinare fuori dal testo (anche l’espediente del manoscritto ritrovato è abbastanza debole, per un lettore dei giorni nostri). È, diciamo, per riprendere quel che si dice nel post, una favola (la cui complessa morale si chiude però al termine del libro, e vi resta confinata). Non invade il presente. Non chiede di essere così vera, come nel caso estremo del romanzo di Mario Pomilio. Si accontenta di una persuasione più limitata e ristretta, e in questo senso meno ricattatoria.
    Ecco la stupidata, articolata il più coerentemente possibile, per il tempo e le energie che ho da dedicarci, pochi. E pace.

    (Nulla c’entra questo discorso con le influenze e la fortuna letteraria ed extra dei romanzi in questione. Il mio punto di vista è puramente testuale. E anche questo punto vorrebbe una trattazione più accattivante e precisa).

  4. Cristian Says:

    e chi è lo scrittore luterano? e chi è lo scrittore calvinista? e quello ortodosso? Quanto al punto 8 “che una letteratura cattolica – posto che sia possibile – non ha come mestiere quello di tranquillizzare e rassicurare, ma casomai quello di inquietare: mostrando, appunto, l’esistenza di luoghi oscuri nei quali, anche a guardarci bene, non si vede niente” eccetera. Ma questo vale forse per tutti i grandi scrittori credenti agnostici atei che siano.

  5. C.P. Says:

    Provo a ragionare sulla questione esposta al punto 5 (se ha senso parlare di scrittori cattolici e\o di letteratura cattolica).
    Le etichette che definiscono una matrice ideologica o culturale (cattolico, esistenzialista, di sinistra), se applicate all’autore o ai testi sono semplificazioni che possono risultare riduttive e imprecise.
    I sistemi di riferimento ideologici e culturali in realtà sono mondi con cui gli autori e i loro testi dialogano, e vanno usati come chiave di accesso, non per classificare. Esempio: definire Joyce come scrittore cattolico è un errore, definire Ulisse come libro cattolico è un altro errore, ma sarebbe possibile capire Joyce e l’Ulisse senza sapere niente del cattolicesimo?
    Concludendo, per me ha poco senso parlare di scrittori cattolici, ha poco senso parlare di libri cattolici, ha senso parlare di come il cattolicesimo (con il suo immaginario, la sua estetica, i suoi valori, le sue ombre) influisce su alcuni autori e su alcuni libri. Stessa cosa per qualsiasi altra idea del mondo.

  6. claudia grendene Says:

    Giulio, sono alle prese da due anni con IL PRESEPE VIVENTE.. sarà o non sarà. Chi lo sa.
    🙂

  7. Lorenzo Marchese Says:

    Affinati è cattolico? ero convinto di no, che avesse una sensibilità religiosa non identificabile con la dottrina, del tutto priva di trascendenza. Curioso.

  8. Ma.Ma. Says:

    1. Premesso che libri con suore e preti o preghiere non credo siano necessariamente scritti da autori cattolici, mentre potrebbero benissimo appartenere ad autori anti-cattolicesimo.
    Io sono cattolica. Tuttavia non amo chi fa proseliti. Ma apprezzo chi non nasconde le proprie idee. Narrazioni smaccatamente “cattoliche” o di altra appartenenza religiosa e/o ideologica troppo sfacciate (con preti eroici, suore sante o preghiere e ricatti morali, per citare Dm) non li leggerei; e se mi capitasse di farlo, mi infastidirebbero. Se voglio indottrinarmi mi prendo un saggio. In questo senso faccio un paragone che conosco meglio: un articolo di giornale dev’essere un articolo e basta. Una pubblicità dev’essere una pubblicità e basta. I pubbliredazionali non li sopporto; a meno che non sia precisato sin da subito che si tratta di un finto testo di cronaca pensato solo allo scopo di pubblicizzare un prodotto. Purtroppo spesso non è precisato: quando leggo un articolo accorgendomi che in realtà è un pubbliredazionali, o un testo che maschera il lancio di un qualcosa in vendita io mi sento ingannata. Questo non significa che tutti gli articoli che contengono il nome di un prodotto o un pensiero siano per forza dei pubbliredazionali e/o libri ingannevoli. Esplorare un immaginario è altra cosa.

    2. È bello “Infinite Jest”?, che semmai prima me lo leggo io. 🙂 Credo sia una buona idea comunque mandare al capo del Vaticano dei romanzi scelti. Facciamo una colletta?

    3. Preferisco stare appresso a qualcun altro.

    4. “Riflettere, meditare, scrivere, produrre ponderose opere che indaghino che cosa diavolo (ops!) siano esattamente, in una prospettiva cattolica, le “favole”, e quale sia il loro rapporto con il mondo dei concetti e con quello delle realtà (materiali e metafisiche).”.
    Potrebbe essere un bel progetto di Vibrisse…? Cioè il tema di un “convegno virtuale” o una serie di articoli…? Io seguirei con partecipazione.

    5. “Riflettere su questa ritrosia, se non altro per capire se (per esempio) l’errore non stia nella domanda, cioè se effettivamente non abbia senso parlare di “letteratura cattolica”.
    Forse semplicemente non amano davvero le etichette… Magari potrebbe essere una domanda da riproporre agli stessi intervistati: “È l’etichetta, la domanda o semplice ’riservatezza’, ciò che non ti fa chiaramente ammettere di essere uno scrittore cattolico? Perché se da una parte nessuno ha detto: “Sì, mi ci riconosco” allo stesso tempo nessuno ha detto: “No, non mi ci riconosco”. Quindi sotto sotto forse sanno di esserlo. O no? Perché fare gli evasivi?

    6. “Dunque esistono degli scrittori cattolici solo nella misura in cui la pienezza dell’umanità in Cristo è il presupposto implicito o esplicito della loro comunicazione e l’universalità è il loro orizzonte, nel senso che nessun aspetto della condizione umana è escluso dalla loro indagine”. Io la trovo una grande affermazione. Il “problema” è che ci saranno di certo scrittori non cattolici che vorrebbero fare la stessa cosa senza per questo dover essere considerati cattolici, e viceversa, scrittori cattolici che invece non ne saranno comunque mai in grado e non potranno quindi meritarsi quest’etichetta. Mi piace proprio tanto… Sì. Ora rifletterò su qualche altro aspetto di questa osservazione…

    7. “Interrogarsi sul senso dell’immaginario religioso in quanto immaginario e in quanto “strumento di lettura della vita” (il presupposto della proposta è che gli immaginari altro non siano che “strumenti di lettura della vita”).”
    Di fatto, togliendo la parola “religioso” resterebbe valido il presupposto, di cui il senso per quanto mi riguarda è già accertato. Forse personalmente preferirei interrogarmi su come l’immaginario religioso possa o riesca a incastrarsi e cambiare l’immaginario più generico… che non esiste mica solo quello religioso, eh, per l’appunto. Ma se questi mondi immaginari sono frutto di un libero arbitrio, non si rischia (il che non sarebbe necessariamente negativo) il crearsi di tutta una serie di immaginazioni personalizzate che alla fine non dovrebbero nemmeno poter essere catalogate sotto un’unica etichetta? Cioè: scrittori cattolici o scrittori dalla ricca immaginazione?

    8. “Prendere coscienza che non tutto può essere illuminato, e che una letteratura cattolica – posto che sia possibile – non ha come mestiere quello di tranquillizzare e rassicurare, ma casomai quello di inquietare: mostrando, appunto, l’esistenza di luoghi oscuri nei quali, anche a guardarci bene, non si vede niente.”
    Più che prendere coscienza… ecco qui io mi vorrei interrogare. Anzi lo sto facendo già da ieri… ma mi manca qualcosa, e non so cosa, per formulare dei ragionamenti. Forse mi manca un perché (nel senso: perché il “mistero” in un mondo immaginario non potrebbe essere esplorato e risolto? Anche semmai con una risoluzione rassicurante…? Solo perché perderebbe fascino? O uscirebbe davvero dal contesto cattolico perché qualcosa di non detto deve sempre esserci? In questo caso mi sembra un po’ perverso…). Non dico che per me sia “giusto” o “sbagliato” ma solo che mi manca qualcosa…

    9. “Lavoriamo per riaprire il canone. O almeno, come minimo, per rileggerlo, riscriverlo, ritradurlo. (…). Ma l’ambizione suprema resterà quella di aggiungere un libro al Libro (come voleva fare quel baciapile di Nietzsche, in fondo, col suo Zarathustra).”
    Buon lavoro e auguri.

    10. “L’abolizione dell’editoria cattolica, in quanto inutile (più esattamente: il riconoscimento dell’editoria cattolica come “sistema chiuso”, e quindi tendenzialmente precipitante su sé stesso).”
    Pienamente d’accordo: v. quel che penso al punto uno.

    Concludo dicendo che questo decalogo è uno di quelli che mi ha dato (no, in verità, mi sta ancora dando) più da riflettere. Gran bel post. Grazie Giulio.

  9. Giulio Mozzi Says:

    Daniele, scrivi:

    “Il cimitero cinese” di Mario Pomilio proprio non mi sembra il romanzo d’uno scrittore cattolico.
    Ovviamente “Il quinto evangelio”, sì.

    Perché? (Mi interessa).

    Ma.Ma.: la quarta che hai detto.

  10. Ma.Ma. Says:

    (Oh, bene!)

  11. dm Says:

    (Ma.Ma. più che ricatto morale, io direi estetico).

    Provo a spiegarmi meglio.
    La sospensione dell’incredulità nella lettura di un racconto è il risultato – diciamolo così – di una negoziazione tra l’idea di mondo e l’idea di realtà. L’idea di realtà è quella per cui la realtà fuori dalle finzioni funziona in un dato modo. Esiste ad esempio una forza di gravità, ci sono nessi più o meno evidenti di causa-effetto, e reazioni comprensibili ai comportamenti umani eccetera. L’idea di mondo è quella per cui, ad esempio, nel Pinocchio di Collodi esiste un burattino di legno che ha una vita pressapoco umana come anche un terribile pescecane che eccetera. L’idea di realtà di Collodi è più o meno quella che possiamo avere noi un secolo e mezzo dopo. E noi riusciamo a leggere “Le avventure di Pinocchio” proprio perché assumiamo la sua idea di realtà, molto simile alla nostra. (Riusciamo a leggerlo in modo ancor più profondo se abbiamo una conoscenza ancor più precisa della sua idea di realtà – se abbiamo studiato un poco di storia, di filosofia, di storia della scienza eccetera).
    Un esempio più spinto: l’idea di realtà alla base de “La schiuma dei giorni” di Boris Vian è quella dell’uomo comune, benché nella narrazione di Vian accadano cose fuori dell’ordinario percettivo e senza possibilità di riduzione al quotidiano. Ma noi le riconosciamo e attribuiamo loro un qualche valore perché tra quell’idea di mondo e l’idea di realtà condivisa c’è uno scarto comprensibile.
    Questa negoziazione, diciamo, è quel che ci permette di credere (“per finta”, come dicevo nell’altro commento) a una qualsiasi narrazione ben fatta.
    Ora. L’esistenza di Dio nel “Quinto evangelio”, ad esempio, banale esempio, non è solo il centro focale dell’idea di mondo del romanzo, ma è anche (soprattutto) un imprescindibile tratto dell’idea di realtà che il romanziere ci costringe ad assumere, sempre che noi vogliamo arrivare a comprendere l’idea di mondo, che è esteticamente e in ogni modo interessante.
    Non so se sono riuscito a spiegarmi meglio. Magari esiste un modo più semplice (ma non precostituito e semplificatorio).

  12. Ma.Ma. Says:

    (dm: sì, vedo. Forse morale per me – così la percepisco io – che sono cattolica ed estetica per te che non lo sei?)

  13. dm Says:

    (Non avevo aggiornato la pagina, prima di scrivere il commento; leggo ora).

    Giulio, purtroppo ho una cattiva memoria (ho soprattutto una memoria di stili, impressionistica) e per argomentare decentemente una risposta dovrei rileggere “Il cimitero cinese”.
    Sono certo di una cosa: l’impressione sconvolgente che mi ha fatto “Il quinto evangelio”, come di un immenso ricatto perpetrato ai miei danni, miei di lettore non-cattolico ingenuo, ingenuissimo, è lontanissima da quella piacevole e mite nel ricordo di quell’altro romanzo di Mario Pomilio.

    Forse mi sbaglio a considerare l’essenza di uno scrittore cattolico come qualcosa di evidente, manifesto e – per certi tratti – invadente.
    Sulla questione, sono al livello di focalizzazione dello spunto e dell’appunto, ecco.

    Ma.Ma. Volevo solo dire che in palio c’è un’esperienza (di lettura) e non una colpa.

  14. dm Says:

    (Ah no, ecco. Giulio. Un’altra cosa: lessi “Il cimitero cinese” parecchi anni fa. Al tempo non conoscevo Mario Pomilio. Cioè era un nome e poco altro. Scoprendo molto tempo dopo che si trattava di uno scrittore cattolico, ricordo che rimasi molto colpito. Il ricordo di quella narrazione era quel che di più lontano c’è, per me, dall’idea del cattolicesimo. Che non è un’idea stereotipata o intollerante; ma magari non è un’idea precisa.)

  15. Ma.Ma. Says:

    Eh, dm, io interiorizzo le esperienze, anche quelle di lettura e spesso persino le somatizzo, per cui una storia può farmi nascere anche un senso di colpa… (nello specifico, il racconto di un agire più cattolico di quanto non osservato nella vita reale da me potrebbe ricordarmi i miei doveri di cattolica e mettermi un pizzico in crisi, cosa che non può accadere evidentemente a un non cattolico, per intenderci). Siamo fatti tutti diversi. Siccome io la intendevo così, però, hai ragione: a capire prima il tuo senso avrei fatto meglio a non attribuirlo a te: scusa.

  16. dm Says:

    (Ho capito).

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