Un’improvvisa sordità

by

alphabet

di giuliomozzi

[Ogni tanto della roba vecchia e dimenticata spunta fuori dagli archivi. Questa qui è del 3 marzo 2011].

La mattina del 4 agosto 1999, dopo una notte per le mie abitudini quasi di bagordi (ero uscito a cena con Gianni Dezanni e Angela Burzo – il proiezionista e la cinefila – e il pittore matematico Claudio da Recoaro; avevamo cenato all’aperto presso la trattoria da Modesto, che è quel che il nome dice nei prezzi e nella qualità del cibo, ma non nel numero delle zanzare; avevamo chiacchierato e chiacchierato; e quando, a mezzanotte ormai passata, il da Recoaro ci aveva salutati per tornarsene tra i suoi monti, noi tre rimasti eravamo andati a disinfettarci dall’astemismo quasi religioso di costui presso il locale di Mario, detto il cinese assente, dato che da quattro anni il locale, pub nel nome ma piuttosto una stube nella fattura, era gestito dalla gaia moglie e dalla cameriera punk, senza che del destino di Mario – nome fittizio, ovviamente, assunto da Tseng Ho Wuei solo per evitare di sentirsi chiamare col nome proprio orrendamente distorto dalla nostra inettitudine di pronuncia – si fosse più saputo nulla, liquidando la moglie ogni domanda con una gaia risatina, e la cameriera punk con un “Domandate a lei” e un’occhiata alla moglie; e alla fine ci eravamo salutati davanti alla porta di casa mia, ormai quasi le tre, interrompendo per stanchezza una discussione della quale solo oggi riconosco l’importanza per la mia vita), mi svegliai alle sette in perfette condizioni: libera la mente, frizzante il corpo, subito pronto ad alleggerirsi il ventre.

Un attimo dopo aver scaricato lo sciacquone mi accorsi di non averne udito il rumore. Pensai di essere ancora un po’ intontito. Mentre mi preparavo il caffè, e mentalmente calcolavo come distribuire le occupazioni del giorno, osservai che nella strada – la vedo dalla portafinestra della cucina – passavano le automobili: ma non producevano rumore. D’altra parte senza produrre alcun rumore l’acqua usciva dal rubinetto, e senza produrre alcun rumore il fuoco brillava sotto la caffettiera. Accostai l’orecchio al fuoco. Nulla. Ebbi un lieve timore. Battei le mani. Nulla. “Dovrei parlare”, pensai. M’imbarazzò, come sempre m’imbarazza, l’idea di parlare da solo. “Tanto gentile e tanto onesta pare”, dissi, “la donna mia quand’ella altrui saluta. Benignamente d’umiltà vestuta, ella sen va sentendosi laudare”. Non ricordavo esattamente i versi, ma non era quello il problema. Avevo parlato, ne ero sicuro: avevo sentito dentro di me la vibrazione della voce; avevo sentito la trachea, le corde vocali, la lingua, le labbra, la bocca tutta fare il loro lavoro; ero sicuro che se qualcuno fosse stato lì presente, non avrebbe persa una sillaba di quel che avevo detto. Ma le mie orecchie non avevano percepito alcun suono.
Immaginai, nell’ordine: di essere ancora dentro un sogno, a mia insaputa; di essere morto, ugualmente a mia insaputa; che le mie orecchie avessero prodotto nel corso delle quattro ore di sonno, per loro motivi al momento imperscrutabili, una quantità enorme di cerume; di aver dormito troppo poco; di essere impazzito; di essere vittima di uno scherzo; che i suoni fossero spariti dal mondo, e che l’evento segnasse l’avvio della fine del mondo stesso: “Perché le trombe della rivelazione finale possano essere udite ovunque”, pensai, “il buon Dio avrà cancellato ogni altro suono”; di essere stato ipnotizzato dal da Recoaro, che in effetti durante la prima parte della cena, la sera prima, si era dilungato sulle sue esperienze di ipnotismo e soprattutto di autoipnotismo, grazie alle quali riusciva a dipingere, lui uomo del ventesimo secolo, tele perfettamente identiche nelle tecniche e nei soggetti e nelle qualità artistiche a quelle dei grandi maestri del Seicento – Caravaggio, Rembrandt, Velàzquez – e occasionalmente del Settecento, ricreandone perfino il segreto, ignoto perfino alla più parte degli storici della pittura, e per la verità da molti di questi per motivi abietti nascosto e negato, contenuto mistico-matematico. Quest’ultima ipotesi mi parve la più credibile, tutto sommato, anche se l’esperienza di ipnotizzazione che stavo vivendo – se di ciò si trattava – mancava di un dettaglio secondo il da Recoaro immancabile: il mal di capo. La mia testa era leggera, leggerissima. Stavo benone. Non fosse stato per la sparizione di ogni rumore e suono, avrei potuto dire che da anni, forse da sempre, non mi sentivo così bene.
Il caffè, fuoriuscendo senza preavviso sonoro dalla caffettiera e spargendosi tutt’attorno, mi distolse da questi pensieri. “Un caffè mi farà senz’altro bene”, pensai stolidamente; versai nella tazza grande – ho sempre amato le tazze grandi – tutto il caffè che non s’era sparso in giro, e mi sedetti a berlo con calma. Accesi l’ufficio. Lo schermo da nero si fece azzurro, poi di nuovo nero, poi di nuovo azzurro, e infine apparve il volto di colei che non posso nominare ma della quale ogni giorno – poiché ogni giorno lavoro con l’ufficio – contemplo il bellissimo e caro volto. “Ciao”, le dissi, e non udii alcun suono. Raggiunsi l’archivio videomusicale. Bevvi il caffè lentamente, osservando Frank Zappa e i suoi allegri compagni che suonavano e cantavano Brown shoes. Al termine della canzone – che sapevo a memoria, ma della quale non avevo udita una sola nota – decisi che avevo un problema. Dovevo telefonare al da Recoaro, ma ovviamente non potevo telefonare. Gli mandai una riga sul telefono: “Mi hai ipnotizzato, ieri sera?”. Sapevo che la risposta non sarebbe arrivata subito: il da Recoaro era famoso per essere un dormiglione. Feci la doccia. Alle otto e mezza – braghe di tela leggera, sandali, maglietta blu del congresso di criminologia di Lubiana, penna e quaderno – ero davanti alla porta dello studio del dottor Brante. Alle otto e quaranta ero seduto davanti a lui.
“Sono diventato improvvisamente sordo”, scrissi sul quaderno.
Il dottor Brante lesse, e scrisse: “Anche muto?”.
“No”, scrissi, “taccio per prudenza”.
“Che cosa teme?”, scrisse Brante.
“Temo di essere stato ipnotizzato”.
“Da chi?”.
“Un mio amico, che è pittore e matematico e si autoipnotizza per dipingere come Rembrandt”.
“È sano di mente?”.
“Sono sanissimo”.
“No, il suo amico pittore”.
“È completamente pazzo”.
“Posso parlargli?”.
“Starà ancora dormendo”, scrissi, e aggiunsi il numero di telefono, copiandolo dalla rubrica del portatile.
Brante telefonò. Il telefono del da Recoaro era spento.
“Riproverò più tardi”, scrisse Brante. Poi si alzò, girò attorno al tavolo, sparì dalla mia vista. Qualche secondo dopo sentii un fiato caldo nell’orecchio destro. Mi voltai con cautela.
“Cosa c’è?”, dissi.
Brante tornò a sedersi. “Le ho gridato nell’orecchio”, scrisse, “per capire se stava simulando. Non si offenda. Capisco che lei è veramente sordo. Ma è bene che provi a parlare”.
“Non so cosa dirle”, dissi.
“Una sordità improvvisa può essere solo un evento nervoso”, scrisse Brante nel quaderno.
“E l’ipnosi?”, dissi.
“Non ho idea”, scrisse Brante, “ci vuole uno specialista”.
In quel momento sentii il portatile vibrarmi in tasca. Guardai. Era il da Recoaro: “Non dire cazzate”.
Mostrai il messaggio a Brante.
“Gli spieghi la situazione”, scrisse.
“Questa mattina mi sono svegliato completamente sordo”, scrissi nel telefono, “e ho pensato che potevi avermi ipnotizzato tu, per gioco”.
“Bevi meno”, rispose il da Recoaro.
“Ha bevuto molto, ieri sera?”, scrisse Brante. Riflettei.
“Un litro di rosso della casa, in tre, da mezzanotte e mezza alle due”.
“E prima?”.
“Non toccavo alcol da una settimana. Vivo solo, lavoro molto da solo, mi faccio da mangiare da me, e non tengo alcol in casa”.
“Quindi abitualmente non beve”, scrisse Brante.
“Quando sono con gli amici mi piace”.
“Va bene. Ora farò qualche telefonata”.
Il dottor Brante chiamò quattro persone; provai a guardare le sue labbra, e mi accorsi che distinguevo qualche parola ogni tanto: “sordo”, “ipnotizzato”, “cinquanta”, “tranquillo”. Posò la cornetta sul tavolo e scrisse: “È libero questo pomeriggio?”.
“Sì”, dissi.
Riprese la cornetta, terminò la conversazione, scrisse sul quaderno: “Dottor Croazia, clinica audiologica al terzo piano del Policlinico, 15.30”.
“Andrò senz’altro”, dissi mentre Brante già si alzava e cominciava a congedarmi a gesti.

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12 Risposte to “Un’improvvisa sordità”

  1. Cristian Says:

    e finisce lì?

  2. acabarra59 Says:

    “ 28 gennaio 1991 – Il cinema è una critica dal basso della letteratura. La critica di chi non sa (e non vuole?) leggere. (Un dialogo fra sordi, anzi fra un sordo e un cieco) “ [*] [**]
    [*] Lsds / 73…
    [**] E finisce lì? (Mi stavo divertendo tanto… )

  3. Giulio Mozzi Says:

    No, Cristian: si interrompe lì.

  4. Fabio Piero Fracasso Says:

    Folgorante, bello. Sarebbe interessante se istituissi un premio tra i tuoi lettori per la conclusione migliore (con soglia massima di parole, o battute)

  5. Alexander C. Says:

    Mi ricorda qualcosa del pre-surrealista Gogol. Che tipo, poi, quel Claudio da Recoaro: copista, ipnotista e veggente.

  6. acabarra59 Says:

    “ Giovedì 6 gennaio 2005 – In casa d’altri incappo in un televisore acceso. C’è il telegiornale. Sopra la parola « Maremoto » due donne si danno da fare: una fa gesti, strabuzza gli occhi, è quella del tg per i sordi, l’altra legge in un foglio le notizie, è quella del tg « normale ». Però, noto, c’è qualcosa di strano: da un’inspiegabile varco nel vestito si affaccia, esplicito, un mezzo seno. Mi sono sentito nei panni del telespettatore audioleso: quale guardare, delle due gentili signore, la strabuzzante o la mostrante? A guardare e basta, penso, si rischia di diventare matti. “ [*]
    [*] Lsds / 73…

  7. sergiogarufi Says:

    forte

  8. Bandini Says:

    Dicci almeno come pensavi che sarebbe dovuto finire.

  9. Alexander C. Says:

    Certo che per dipingere come Rembrandt ce ne vuole!

  10. Ezio Says:

    Mi piace. Perché non lo continui? o facciamo un “cadavere squisito” sul genere “lettere alle eroine” cercando di mantenerne lo stile?

  11. melaniaceccarelli Says:

    Mi ricorda Buzzati. Mi piace. Bisognerebbe continuarlo

  12. manu Says:

    a me ha ricordato il racconto ‘Sparizione’ (19 novembre 2003) a pag. 53 di ‘Sono l’ultimo a scendere’ dove Giulio Mozzi non viene sentito nè visto

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