“Maps of the Imagination: the Writer as Cartographer”, di Peter Turchi

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di Franco Foschi

[A volte succedono cose strane. Chiesi questa recensione a Franco Foschi ben due anni fa. Ieri, convinto di averla a suo tempo pubblicata, la cerco. Non la trovo. In effetti, non la pubblicai a suo tempo. Mi scuso con Franco].

peterturchi_mapsofimaginationCi sono dei libri che partono con dei presupposti arditi. Il libro di cui parleremo nelle pagine seguenti ne possiede uno apparentemente sconcertante, e cioè quello di assimilare il lavoro dello scrittore a quello del cartografo. Un gioco intellettuale, un paradosso per professori universitari, un bob bon per degustatori dello sfizio culturale?

A ben pensarci, la premessa teorica non è poi così forzata: se quando scriviamo pensiamo di andare in un luogo, e non di costruire qualcosa, ogni similitudine di questo libro appare chiara. Ma Peter Turchi si sforza di andare oltre. Le metafore non le cerca affatto, e quando accade soprattutto non le forza. Non si arrotola su testi o citazioni per rinvigorire il suo postulato. Non si arrocca in un linguaggio tecnico comprensibile solo ai felici pochi. No. Quel che fa è proprio tuffarsi in un gioco solare, sorridente, comunicativo e affabile, per dire tanto, raccontare, senza annoiare.

Ma veniamo al nucleo del suo argomentare. Le carte geografiche e la scrittura creativa, cos’hanno in comune? Sono, i loro linguaggi, in qualche modo sovrapponibili?

Le prime mappe furono pensate certamente per far sì che la gente trovasse la via, ma anche per ridurre la paura dell’ignoto. Ebbene, anche la creazione artistica è un viaggio nell’ignoto. Ecco che due strumenti dal fine comune possono accomunare anche le parole. Scrivere è dapprima esplorazione, in seguito presentazione: per comunicare e, alla fine, avere qualche effetto sugli altri (esattamente come una mappa). L’obiettivo della nostra esplorazione, quando scriviamo, include la ridefinizione delle nostre intenzioni e la determinazione del modo migliore di presentarle. Problema non piccolo è che il veicolo per trovarlo, questo modo migliore, è il lavoro stesso che stiamo cercando di creare…

Il punto di partenza è la pagina bianca. Ci mettiamo di fronte a una pagina bianca. Lo facciamo perché, come gli esploratori del mondo fisico, vogliamo saperne di più su dove – e come, e perché – viviamo. Lo facciamo perché in fondo siamo sia ispirati che insoddisfatti di quel che sappiamo e di quello che abbiamo letto finora. Come scrittori rifiutiamo di semplicemente rinforzare la percezione collettiva del mondo. Quel che vogliamo è trovare qualcosa d’altro, qualcosa che non è mai stato percepito prima, o almeno che non è mai stato presentato prima come lo presentiamo noi.

La pagina bianca, dunque, è solo un inizio, non l’inizio.

Ma torniamo alle nostre mappe, ai nostri libri. Torniamo ai nostri spazi bianchi che cartografi e scrittori cercano di riempire, perché senza qualcosa attorno o dentro gli spazi bianchi sono niente. Ci accorgiamo subito che, oltre al riempire, questi operatori dell’immaginario realistico lavorano anche a levare.

Prendiamo l’acuta mappa della metro di Londra. Alla fin fine il genio che l’ha disegnata ha tolto questo, ha tolto quell’altro, e ha concentrato l’attenzione su ciò che veramente interessa al viaggiatore: le stazioni, dove sono, come si pongono l’una dopo l’altra. Una vera mappa tematica, senza tante divagazioni, precisa, schematica, chiara: circondata da spazi bianchi (cosa che dimostra, tra l’altro, che anche la più accurata, la più dettagliata delle mappe non è necessariamente la mappa migliore).

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Anche gli scrittori in una storia scelgono quello che vogliono dire o non dire. Il fatto che questa possibilità esista significa che ogni storia contiene, ed è circondata da, spazi bianchi. Se ci pensiamo bene, quante cose non ci sono in un libro: eppure i lettori mica ci pensano, a queste mancanze (così come saggiamente ignorano le convenzioni della scrittura). Per esempio i suoni e gli odori sono difficili da mettere in una mappa tanto quanto in un romanzo, ma tu tenti lo stesso di farlo tramite un segno grafico o una descrizione specifica.

Così ci accorgiamo che come noi viviamo un luogo è molto più importante di come quel luogo effettivamente è. Una mappa ci mostra in modo nitido qualcosa che non abbiamo mai visto. Un romanzo, uguale. Parigi è la nostra Parigi, Zola è il nostro Zola.

Turchi utilizza anche un’altra convincente similitudine ricordandoci che ogni storia è un iceberg, o una scultura di ghiaccio. Infatti la scultura e la scrittura possono essere definite come sono l’arte di togliere qualcosa – e quindi di passare dal più grande al più piccolo.

Anche fare una mappa può significare andare dal più grande al più piccolo, come scrivere, togliendo, togliendo, togliendo. Una mappa dello stato di New York. Una mappa della città di New York. Una mappa del centro di Manhattan. Una mappa del Central Park. Una mappa dello zoo di Central Park, una mappa della parte tropicale dello zoo di Central Park, e via così, fino alla mappa del bar. Togliere, togliere, restringere, a levare.

Paul Auster, Città di vetro (da Trilogia di New York)

Paul Auster, Città di vetro (da Trilogia di New York)

Ma allora, dov’è il centro? C’è una famosa mappa in Australia che oltre a essere orientata, contro ogni convenzione, scambiando sud e nord, parte considerando come al centro della terra l’Australia stessa… Tolomeo definiva la geografia, termine che potrebbe essere benissimo sinonimo di cartografia, come la rappresentazione grafica di tutto il mondo conosciuto. Si potrebbe assumere che il geografo è in grado di rappresentare qualsiasi cosa. Ovviamente, col tempo, è stato provato che questo obiettivo è tanto forzato quanto elusivo (vedi la mappa australiana descritta sopra). Dunque, chi potrebbe affermare che ciò non sia vero anche per la letteratura? Dobbiamo ammettere che anche lo scrittore più convenzionalmente realista o il più puntiglioso cartografo alla fine possono apprezzare un certo grado di disorientamento… Turchi ne deriva che la chiara coscienza di cosa non sappiamo è essa stessa già una conoscenza, e che le omissioni, volontarie o involontarie, stimolano l’immaginazione.

*

Dunque elusività, omissioni, immaginazione sono i cardini del lavoro del cartografo e dello scrittore. A questo punto Turchi, dopo un’affermazione così decisa, come ogni scrupoloso studioso si cimenta anche nella valutazione del suo contrario. Lo fa approfondendo i vari tentativi di applicazione geometrica alla scrittura, transitando per esempio per le pagine degli scoppiettanti autori dell’OULIPO (il suo palese preferito Calvino, una curiosa omissione Quenau). Oppure descrivendo (e semplificando, per noi comuni lettori) i tentativi di Freytag di trasformare ogni tipo di narrazione in una figura geometrica.

D’accordo, è vero che pure una barzelletta ha un sistema, ma è anche vero che il mondo di una storia non è la mera somma di tutte le parole che la compongono. Kundera, Borges, hanno a lungo parlato delle geometrie insite in una narrazione, con varie conclusioni: per Kundera la scrittura è la vittoria dell’ordine mentale sul caos del mondo, mentre Borges arriva a concludere che “strettamente parlando, un singolo volume dovrebbe essere sufficiente: un singolo volume… di infinite pagine”.

Ancora Turchi ci porta alla riflessione sulla ricerca grafica di certi scrittori (come cartografi – ma ne parla con sincera ammirazione), descrivendo le monolitiche pagine senza punteggiatura di Bernhard e Beckett, o l’escamotage di Doctorow che inizia un dialogo senza nessun apparente inizio, o passa a un nuovo paragrafo cambiando chi parla senza alcun avvertimento: eppure le scene sono tali da potere essere lette e comprese senza alcun problema.

In ogni caso le conclusioni (badate bene, tra le righe) di Turchi sono che comunque questa applicazione di rigore sia nel suo complesso fredda. Ricorda che certi romanzi definiti postmoderni, letture difficili e spesso per lettori selezionati, possono essere letti come calcoli integrali, e come questi di difficile comprensione e distanti. E ricorda altresì che gli stessi membri dell’OULIPO giunsero alla conclusione che la maggior parte dei testi composti con le loro strutture preordinate era francamente noiosa.

Poi ci sono le mappe mentali, che interessano non solo i cartografi ma anche gli psichiatri, gli psicologi, i sociologi e molti altri, compresi gli urbanisti e gli architetti. Mappe che includono i modelli e le strade che abbiamo incluso nelle nostre menti. Mappe distorte, atlanti mentali così ampi e complessi che non potremmo riportare a nessun altro che noi stessi. E viviamo in questo mondo che le nostre mappe hanno creato. (A questo proposito, una citazione magnifica di Gaston Bachelard proposta da Turchi: “I vari spazi abitati delle nostre vite trattengono il tesoro di tutti i nostri giorni”).

Un’altra geometria che Turchi definisce distorta è quella che chiamiamo ‘realismo’. In realtà il realismo è perfettamente innaturale, pensiamo alla prospettiva in pittura: due linee che iniziano parallele e finiscono in un punto, sono una strada? Tutti i ragionamenti che l’autore porta a sostegno di questa tesi sono affascinanti e coloriti, e convincenti: dunque, dove sta il senso, o, per restare neo mood cartografico del libro, quale è la via da percorrere?

*

Turchi, a partire dall’amabile metafora che i libri sui nostri scaffali sono i volumi di un enorme atlante la cui guida non dobbiamo mai perdere, propone alcune riflessioni importanti, molto significative, belle.

Il significato, nell’arte, è lì per tutto il tempo, oppure non c’è mai stato.

Un’enorme quantità di arte popolare, di cosiddetto intrattenimento, ci chiede di inoltrarci nel suo mondo per scappare dal nostro. L’arte più ambiziosa invece ci chiede sì di ascoltarla, ma anche di guardarci attorno, per vedere e comprendere il nostro proprio mondo grazie a essa. È l’arte che sostiene e fa emergere l’immaginazione.

In un modo o nell’altro tutti gli scritti ci connettono, con un artificio d’inchiostro, al mondo in cui viviamo. E in una narrazione, se non riusciamo a convincerci che i personaggi di cui leggiamo siano persone vere, la narrazione fallisce.

Lo scopo non è lasciare che tutto scorra, ma abbandonarsi ad eccessi di passione, all’irrazionalità, e alla bellezza senza scopo.

Gli scrittori si pongono tra lo Scilla e Cariddi di Autorità e Umiltà. La prima è necessaria per avere il controllo sulle proprie creazioni, per mostrare il proprio talento e le proprie conoscenze. L’umiltà serve per ammettere che c’è sempre qualcosa da imparare.

*

Questa, in sintesi, la materia del viaggio di Turchi, la mappa dei luoghi che ha visitato. Che dire, poi, del veicolo? Potrebbe sembrare, vista la corposità, la densità degli argomenti trattati, che si sia parlato del saggio più specialistico, più cerebrale, più elaborato (nelle intenzioni e nello stile) che si possa leggere. E invece. Invece Turchi ha la stoffa del comunicatore perfetto, è gentile e saporito, è ironico e profondo, è scattante ma mai superficiale. I mezzi che utilizza sono di un equilibrio spettacolare. Sembra che dica – impariamo una tecnica, facciamo questo, questo e questo. Bene, avete imparato? Okay, ora possiamo buttare tutto per aria!

Con questo approccio per certi versi tanto serio quanto sbarazzino può permettersi di analizzare e catalogare il pensiero meno indocile di tutti (Bernhard, Borges e compagnia bella) e amalgamarlo con tatto e sapore a un saggio su Willy Coyote e Bip Bip, o sui giochi da tavolo, o alle narrazioni affettuose sulle esperienze fantasmagoriche di suo nonno.

Questo è il modo, tutt’altro che facile o scontato, di rendere una narrazione saggistica divertente, interessante, mai noiosa.

*

E le mappe?

Con tutto quello a cui abbiamo assistito fino a oggi, con tutto quello che è stato scoperto, non possiamo non chiederci se ci sia davvero ancora qualcosa da mappare, qualche terra da scoprire. Qualcuno dice che non c’è. Eppure si stanno mappando le terre sotto i ghiacci dell’Antartide, il pavimento dell’oceano, il buco nell’ozono. I cartografi cosmici, utilizzando le radioemissioni e altre forme radianti, stanno mappando spazi dell’universo lontani 13 bilioni di anni luce da noi. E che dire della mappatura del genoma umano?

Il dovere di mappatura degli scrittori riconosce motivazioni affatto diverse: chi scrive ha il dovere di riconoscere e guidare i propri impulsi e interessi, di essere attento ai lavori del passato e del presente, e di preparare se stesso a raggiungere le proprie grandi ambizioni. In questo modo potrà dire ai suoi lettori: fidatevi di me.

*

Ne Il sogno del cartografo Fra Mauro decide che la ricerca della mappa definitiva finisce con l’individuo. “I saggi contemplano il mondo, sapendo perfettamente che stanno contemplando se stessi.” È assurdo pensare a qualcosa di più universale, più obiettivo, più vero. È da qui che cominciamo.

Peter Turchi, Maps of the imagination: the writer as cartographer, Trinity University Press, 2004

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4 Risposte to ““Maps of the Imagination: the Writer as Cartographer”, di Peter Turchi”

  1. Patrizia Patelli Says:

    Una delle cose, per me, più interessanti che abbia mai letto su Vibrisse. Grazie ad autori e curatore.

  2. malosmannaja Says:

    a scuola mi piaceva un sacco la geografia. da bambino soffrivo d’incontinenza e forse per questo passavo ore e ore disegnare cartine orografiche di continenti immaginari.
    : )
    ma bando alle ciance, ché articolo e argomento m’appaiono di molto stimolanti. il punto di partenza del ragionamento (lo scrittore come cartografo) strizza l’occhio alle neuroscienze, dove l’importanza delle mappe mentali è stata appurata da tempo in numerosi studi di psicobiologia cognitiva (peraltro, la scoperta delle grid cells nella corteccia entorinale mediale, è valsa a Moser, noto ciclista, addirittura il premio Nobel per la medicina nel 2014).
    del post mi sono rimaste in testa alcune affermazioni: (1) “come noi viviamo un luogo è molto più importante di come quel luogo effettivamente è” – premessa fondamentale nonché largamente condivisa, condivisibile e condiultravioletta (si vedano ad esempio i social netuòrk); (2) “Un’enorme quantità di arte popolare, di cosiddetto intrattenimento, ci chiede di inoltrarci nel suo mondo per scappare dal nostro. L’arte più ambiziosa invece ci chiede sì di ascoltarla, ma anche di guardarci attorno, per vedere e comprendere il nostro proprio mondo grazie a essa” – qui, invece c’è qualche problema, nel senso che si genera un’impasse porno-intellettualoide. non forzerei la distinzione dicotomica tra “arte/letteratura popolare di evasione” e “arte/letteratura ambiziosa di invasione”, due estremi, due assoluti, ovvero due astrazioni perfette che mai potranno verificarsi nell’adorabile umana imperfezione del cervello di homo sapiens sapiens. in vita mia, per quanto abbia letto e legga davvero molto, non mi sono mai imbattuto in romanzi bianchi o neri, in un solo romanzo rosso e nero e in ben più di 50 sfumature e combinazioni di grigio. anzi, dirò di più: opere che “sembrano” di evasione spesso propongono narrazioni emotive e mappe spazialconcettuali insidiosissime che sub-liminano visioni del mondo ordoliberiste o che comunque legittimano/ratificano/amplificano il pensiero dominante (occidentale). (3) “È l’arte che sostiene e fa emergere l’immaginazione” – mmm qui si sconfina in territorio illogico hegheliano (e, con l’occasione, rimando a come lo ischerzava lo zio Arturo). se riconduciamo la parola “immaginazione” entro orizzonti più biologici parlando di “attività cerebrali creative”, dovrebbe saltare subito all’occhio che affermare “sono le attività cerebrali creative che fanno emergere attività cerebrali creative” è nella migliore delle ipotesi una tautologia o nella peggiore una inversione causa-effetto. (4) “Con tutto quello a cui abbiamo assistito fino a oggi, con tutto quello che è stato scoperto, non possiamo non chiederci se ci sia davvero ancora qualcosa da mappare, qualche terra da scoprire. Qualcuno dice che non c’è.” indubbiamente, le attività cerebrali creative hanno bisogno di input sensoriali perché esista un minimo di materia prima esperienziale da cui possano prendere le mosse pensieri ricombinanti. ergo, finché c’è vita, cose nuove da mappare e scoprire ne avremo sempre quindi “qualcuno” si sbaglia. anche perché, sebbene in linea generale G.B.Vico non avesse torto, le cose non potevano, non possono e non potranno accadere mai *esattamente* nello stesso modo. il problema fondamentale dunque prende corpo a latere: vogliamo davvero qualcosa di nuovo da mappare e da scoprire oppure stiamo diventando sempre più pantofolai e conformisti, ovvero preferiamo essere rassicurati da produzioni seriali ed orizzonti noti, che com’è noto fanno assai più *cassa*? non so. anch’io talvolta vengo colto da momenti di scoraggiamento, di meteorismo semantico, di flatulenza intellettiva e mi gonfio di parole già dette o di storie già scritte che non vale più la pena raccontare. poi però, per fortuna, accade che gli eventi reali superino la fantasia infondendoci nuovo slancio nonché nuova materia di creazione e ricreazione, tipo, per l’appunto, la creazione dal nulla di 1000 miliardi di euro in 12 mesi da parte del simpatico Mario Draghi mentre tutti i media continuano a ripeterci la nenia martellante che bisogna tagliare e stringere la cinghia perché “purtroppo, purtroppissimo non ci sono i soldi”. e allora mi rimetto (nel senso che mi vomito a parole, sì, che vomito me stesso) a scrivere, poiché è sempre “da io”, cioè “da qui” che cominiciamo.
    : )

  3. Il codice del dolore (e la consolazione del gioco) | vibrisse, bollettino Says:

    […] – recensione di Maps of the Imagination: the Writer as Cartographer, di Peter Turchi; […]

  4. Romanzi, atlanti | vibrisse, bollettino Says:

    […] weriter as cartographer, di Peter Turchi (ottimamente recensito qui in vibrisse da Franco Foschi: vedi): che non si limita a proporre visioni cartografiche delle opere letterarie, ma punta piuttosto a […]

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