di Chiara Ghiglione
[Le Regole del gioco].
ma un fantasma dotato di respiro, fatto di cielo e in tutto simile a me
(Euripide, Elena)
Alba stasera è posata là in fondo, una barca nella stretta di un golfo, e questa mia casa è fatta d’aria.
Non so se le colline siano scivolate altrove, dietro altre colline, oltre l’autostrada.
Il rettangolo che contiene il mio sguardo non è una finestra, è una forma e basta.
Presto i ragazzi saranno qui. Tu, Milton, ci sei da allora, ma senza solennità: il ciliegio, lui sì.
Tu sei altro.
E non ritorni – strano – con le canzoni, l’inglese, i ricordi dei miei sedici anni, di Giorgio, della guerra. Capiti sul mio cammino, Milton, come un nido che il vento ha strappato a un ramo, nessuna crudeltà.
Ho sempre avuto paura della vita, delle tagliole, non mi sono mai fidata di un cielo terso o di una lente d’acqua ferma.
La tua guerra non è stata la mia, il tuo tempo neppure.
Quando Giorgio si sdraiava sopra di me, dentro l’erba bagnata, e io provavo a respingerlo soltanto per dire a me stessa: “Sei una brava figlia, sarai un brava moglie”, ma poi la riva si dissolveva e le onde non erano altro dal mio sangue, in quegli istanti, Milton, pensavo che tu avresti fatto di me una persona ricca di evidenza, una donna capace di non sfuggire gli sguardi. Più che pensarlo, ecco, lo sapevo, con la medesima esattezza con la quale indovino le consistenze prima ancora di tendere la mano.
Oggi, dopo che tutto è accaduto, mi resta di te un ricordo così tenue, eppure così preciso.
Da bambina, nella vigna, raccoglievo gli insetti, lasciavo che mi camminassero sul palmo, poi chiudevo le dita e per un attimo restavo in piedi, immobile, e sentivo sulla pelle, dentro il pugno, un moto minimo di zampe e di ali, di elitre e di antenne sottili come respiri.
Era potente, era bello trattenere la vita, senza angoscia, e poi lasciarla volare, saltare, perdersi tra le foglie.
Con te è stato lo stesso.
Hai scelto il bosco, l’intreccio dei rami, ti sei fermato prima, senza volerlo davvero, chissà.
Io ho proseguito e oggi, 12 settembre 1977, ti dico che la nebbia, contrariamente agli anni, abbraccia ma non depreda e in tutto e a tutto trova posto, e che congiunge, aggioga gli stretti, e così, ora come allora, sono qui, sfollata, al riparo dalle minacce del mondo. I ragazzi sono rimasti in città, ma io non so più spingermi oltre queste colline, questo giardino malcurato.
Quattro mesi fa era una mattina così azzurra che il cielo sembrava sfondato e Torino era l’universo intero. Io ero solo una donna dentro la sua cucina, tutto era a posto: la mattonella incrinata, le mie unghie divorate, la caffettiera sul fornello, il ronzio del frigorifero, la radio che spalmava Amore bellissimo su ogni superficie, e Wess e Dori Ghezzi che dicevano: “Abbiamo messo in due valigie la nostra casa”. Mio marito si era affacciato per un attimo, un saluto breve, con la mano, e due sillabe a occhi bassi: “Vado”. Finito il tempo dei baci e dei discorsi, la vita erano i ragazzi, le nostre vacanze, i viaggi, eppure non c’era costrizione, o rimpianto, o calcolo, c’era amore da contemplare più che da sentire, un edificio in stile vario, costruito con lena e forze diseguali, eppure stabile, adatto a noi e a quel che eravamo diventati. Quella mattina, appena Pietro era uscito dalla cornice della porta, mi ero sorpresa a fissare la tazza che aveva lasciato al centro del tavolo e i miei occhi non sapevano rassegnarsi alla banalità casuale dei dettagli, alla solitudine di quell’oggetto, alla distanza che lo separava dal mondo delle cose. E ricordo, Milton, di aver pensato a te, a quanto apparissi solo, all’effetto strano che la musica produceva sul tuo corpo. Poi la donna che fissava una tazza dentro una cucina del Lungo Dora è volata di sotto, nessuno sa come, certo è che le sue scarpe non hanno registrato le scale. Raggiunto il marciapiede, la donna si è inginocchiata, ha toccato terra con la bocca, ha vomitato il caffè e chissà cos’altro: suo marito era steso sulla strada, a faccia in giù.
Agguato.
Rivendicazione.
Brigate Rosse.
Colpirne uno.
Colpirne cento.
Giorgio a volte mi prendeva con forza e mi piaceva.
Over the rainbow usciva dal grammofono e tu non volevi ballare, cambiavi i dischi, guardavi noi. Questa casa era un rifugio, qui le bombe non cadevano, erano una notizia alla radio.
Non doveva, non poteva capitare nulla di male, eppure la tua guerra si è aperta varchi tra rami e fango, stalle e aie. Le avrai divorate, Milton, queste colline, e forse sei tornato qui, a rivedere la mia stanza, o forse no, sei passato senza guardare, una mattina incredibile di pioggia.
“Fulvia, dannazione”, mi dicevi ogni volta che frenavi una carezza, che lo spazio tra la tua mano e il mio respiro sembrava dilatarsi a dismisura, gonfiarsi quasi, come a generare una montagna per un gioco profondo di spinte e scorrimenti. Su quel crinale, Milton, ti ho sempre riconosciuto e tu non hai mai finto di essere altro. Amavi i margini, neppure provavi a forzare la linea oltre la quale la tua vita sarebbe diventata due, tre, molti, di te ricordo gesti trattenuti, sguardi in tasca. Non so dire perché tu sia risuonato con tanta potenza dentro i miei sedici anni capricciosi e ingordi, o perché io amassi le mani di Giorgio e insieme adorassi i tuoi rifiuti fermi. Mi domando che guerra sia stata, quella che hai combattuto su queste colline che stanno diventando notte, e se tu sia riuscito, almeno una volta, a sentirti uno di tanti, ad appoggiare il tuo lume sull’acqua e a guardarlo allontanarsi, scivolare insieme a mille altri, fino a sparire.
Cos’è accaduto, Milton, chi ha piegato in questo modo il tempo?
Le cose dicono no, dicono no, e non è mio il fiato che appanna il vetro.
Da qualche parte, lo so, mi stai aspettando e – come quel pomeriggio – non verrò.
Ecco i ragazzi, e il buio che lievita tra casa e alberi.
Fulvia, da qui.
10 settembre 2016 alle 07:48
Sono sbigottita, è una lettera potente, è una scrittura che vorrei fosse la mia, è uno sguardo sulle cose concrete e sulle astrazioni che non ha eguali: spero e credo che questa lettera venga giudicata la più bella!
10 settembre 2016 alle 08:25
caspita. qualcuno m manda una foto di questa Chiara Ghiglione? Vorrei saperne il volto
10 settembre 2016 alle 08:38
“ Giovedì 23 ottobre 2003 – « Il Comandante dice: “ Vanno molto i nomi inglesi tra i nostri partigiani. Avevo un partigiano in brigata che se n’era scelto uno così difficile che nemmeno lui sapeva insegnarlo. Gli altri, stufi di doverlo sempre chiamare tu e coso, montarono consiglio di squadra e lo battezzarono Stefano. Lui non ci sta, propone di chiamarlo almeno Fredrich; gli altri insistono per Stefano. Lui si mette a rapporto al Comando Plotone. Questo, d’accordo, boccia, perché Fredrich suona tedesco. Lui ci pianta tutti e passa alla Garibaldi “. » (Beppe Fenoglio, Appunti partigiani 1944-1945, [1994]) “ [*]
[*] Lsds / 73…
10 settembre 2016 alle 12:14
Davvero forte,questo testo. Lo percepisco quasi come l’incipit di un nuovo romanzo, una storia fra il lontano passato di guerra e il più recente passato di guerriglia terroristica. Complimenti all’autrice.
10 settembre 2016 alle 14:18
Fin troppo per una lettera. E’ un romanzo, bellissimo.
10 settembre 2016 alle 16:10
Scorre come un fiume gonfio di sentimenti ed amore.Complimenti Chiara !
11 settembre 2016 alle 19:14
Vi ringrazio
12 settembre 2016 alle 23:27
E’ un dipinto enorme che viene avanti e oltrepassa come nuvola. E’ un’anima. Brava Chiara.
13 settembre 2016 alle 00:41
Una lettera di straordinaria bellezza. Grandiosa per essere solo un’epistola. Continua e fanne un romanzo. 🙂 🙂
13 settembre 2016 alle 07:43
Molto bella. Complimenti a Chiara Ghiglione