[Le Regole del gioco].
Sono molto irritata, Messere Sancio Pancia delle mie sottane. Ho ricevuto la vostra lettera fatta scrivere dal sagrestano. Me l’ha consegnata il curato, che passava per di qua a darmi lezione di scrittura. Cosicché vi è chiaro come può essere che questa mia, me la scrivo da me: io che son capace. E che sia chiaro altresì che non amo le vostre gelosie, come siete solito a dimostrarmi: il curato – lo sapete bene – ha esaurito il tempo delle sue scorrerie. Non tiene denari e ha una fede al dito più stretta di quella che qualsiasi donna avrebbe potuto mettergli. Come quella che indossate voi. E io di uomini così non voglio più averne a tiro.
Vi starete pure rendendo conto che per risolvere la vostra ignoranza, giacché non sapete neanche leggere, ho chiesto al barbiere – che me lo ha promesso in cambio di due pani, un quarto di pecorino e una sbirciatina alle mie due grazie che hanno già sorriso anche a voi in altri tempi – di rendervene conto lui stesso al momento della consegna. Sicché alla fine di questa lettera c’avrete il vostro bel da fare per spiegarvi: non resterà un solo segreto taciuto. Per questo so già di certo che la mia presente scomparirà dai resoconti di questa vostra assurda avventura.
Mi chiedete di far qualcosa per guarire il mal d’amore del vostro padrone che, mi dite, si rivolge a me come a tale Dulcinea del Toboso: ma che razza di nome zuccheroso è mai questo? Aldolza Lorenzo sono stata battezzata e tanto basta per farmi onore nel contado. Ho saputo anche che va dicendo ch’egli sia stato già mio amante, senza ch’io lo sapessi. Tanti ne ho accuditi, di Messèri, non lo nego, ma questo Alonso Chisciana non lo ricordo proprio. E voi che siete contadino come me, sterpo della mia terra fatto scudiero per follia, dovreste difendere il mio nome e la mia rispettabilità, che non basta un pazzo a farmi regina: giammai mi piegherei a tale lusinga senza speranza. Proprio io che già sono principessa a casa mia.
Il qui nominato – come avete detto che si fa chiamare? Don Chisciotte della Mancia? Ma vi pare? – sarà pure un nobiluomo di campagna, ma oltre a non avere tutte le rotelle a posto è pure vecchio, dacché in paese si sussurra che gli sono già rintoccati i cinquanta. È così tocco che dovrebbero davvero incoronarlo imperatore di Trebisonda.
E voi che fate? Mi chiedete di leggere la sua lettera, che tanto vi ha pregato di farmi pervenire, e persino proponete di farmi sua dama, seppur per scherzo. Un gioco da giovanotte un po’ troppo leggere, non credete? E solo per quattro spiccioli che tiene in tasca, per poi condividerli con voi che, in cambio, mi fareste sposa e regina di un’isola da governare di cui il folle vi farebbe omaggio. Non so chi di voi sia più illuso. E nemmeno vorrei ritrovarmi nei panni della vostra consorte, caro Sancio.
Ancora mi chiedo come possiate avere anche solo pensato ch’io mi potessi prestare a simili squallori: mi avete offesa. Assai. Che sia chiaro. Sono contadina, pur allegra, e vaglio il grano per mestiere; non sono di certo donna di mal affare.
Deh, non credevate davvero che qualche complimento potesse sciogliermi. Quelle quattro belle parole che leggo sulla lettera del cavaliere errante, che gli pare essere di me innamorato senza avermi mai veduta, sono così ridicole d’avermi più che emozionata, molto divertita: «Venuto a palazzo (ma di che parla, corpo del sole?) per cercar voi, senza pari Dulcinea mia, non riuscii a porre piede sulle soglie del vostro castello eppure resto di voi innamorato per la fama di donna giudiziosa che voi siete. Mia dama, signora dell’anima mia, giorno della mia notte, gloria della mia pena, tramontana dei viaggi, stella della mia ventura, regina della bellezza, rosa tra le spine, giglio di prato, ambra liquefatta (perlomeno, diavolo di uno scudiere finto, il signore è abbastanza raffinato da non dirmi che puzzo di pesce secco come facevate voi) mai abbastanza lodata gentilezza. Al suo servigio, erro tra le montagne facendo penitenza per riparare torti e salvare i deboli, per divenire sempre più degno di amare una sì alta signora. Da una parte il desiderio di vederla mi tormenta, dall’altra devo mantenere la promessa dell’impresa avviata prima di potermi presentare con la giusta gloria. Vostro fino alla morte il cavaliere dalla Trista Figura».
Tra ragli d’asino e grugniti di porci, si son levati i suoi complimenti urlati senza badare alla mia reputazione.
Vengo poi a sapere da tre amiche di paese che voi, Sancio Pancia, villano, furbo e satanasso, siete stato tanto sfacciato da raccontar storielle al vostro padrone sul mio conto un po’ per alimentare questo suo male, un po’ per dissuaderlo così da tenermi solo vostra, senza tener conto del mio volere. Come quella volta che fingeste d’aver incontrato la principessa Dulcinea gettandovi ai piedi di Carlotta e chiamandola poi regina, principessa e duchessa di bellezza lasciando intendere all’altro d’esser caduto sotto sortilegio degli incantatori: quel dì, sì, che avrebbero dovuto strapazzarvi per bene e cacciarvi in malora.
Certo, che a ben pensarci, se dovessi scegliere tra lo scudiere e il cavaliere, quest’altro perlomeno non è altrettanto brutto in confronto a voi. Dovrei quasi farci un pensierino: almeno è alto e magro, accarezzato dal sole e ben eretto in groppa al suo cavallo, mentre voi siete tozzo, basso, ben un palmo più di me, tondo, bianco come un cencio sporco disteso sul dorso di un somaro.
Sapete che vi dico? Se non è bastata la buona dose di legnate che vi sono state affibbiate, a voi e a lui, dagli sfidanti, il resto v’aspetta fuori dalle mie mura se avrete ancora il coraggio di presentarvi. Metà ve le darò io, l’altra metà, il barbiere, che – lui, sì, gentiluomo – m’ha chiesta in sposa.
9 settembre 2016 alle 11:17
Bella!!!!!!!
9 settembre 2016 alle 12:29
Questo è, per me, come si dovrebbe scrivere una lettera. A mio parere è verosimile e originale coi suoi più o meno larvati riferimenti al testo di che trattasi, senza riassunti o divagazioni su ciò che nella linea temporale, nel punto in cui si colloca la scrivente, deve ancora avvenire.
Arguta e salace (lo stile che preferisco… benché anche il risvolto noir di Cappuccetto rosso…) pur si mantiene garbata. Mi piace molto.
9 settembre 2016 alle 13:44
^_^
Merci!
9 settembre 2016 alle 14:24
O Manuela… ma quanto hai scritto… mi compro subito “Un caffè a Kathmandu”.
Ciao
9 settembre 2016 alle 17:31
Manuela, molto carina. Un divertimento leggerla! Bravissima a calarti nel linguaggio, nello stile. Mi è parso naturale, verosimigliante, per niente caricaturale. Poi, come il commento precedente, apprezzo che tu non abbia fatto riassunti più o meno velati, più o meno sparsi qua e là all’opera e alle sue vicissitudini ( ma guarda come mi fai scrivere!)
9 settembre 2016 alle 18:30
Smack Melania. 🙂
Maria Cristina, ehm, ecco… un po’. Ma dubito che troverai quel libro ancora in vendita. Ho chiesto all’editore di terminare il rapporto. Trascorsi i dieci anni mi sono ripresa i diritti. Ma se vuoi te ne regalo una copia delle mie con piacere: mandami l’indirizzo su mmazzi@hotmail.com (e mi scuso con Giulio per questa transizione privata su Vibrisse).
9 settembre 2016 alle 18:52
Anche a me è piaciuta molto, questa lettera ruspante e molto arguta, scritta con un linguaggio malizioso e schietto, specchio del tempo di cui tratta. Complimenti a Manuela.
9 settembre 2016 alle 20:54
Ironica e ben scritta. Una missiva che disegna un personaggio di rara malizia. Già m’immagino la faccia buffa di Sanchito. Complimenti.
9 settembre 2016 alle 21:08
Arrossisco… Per la Dulcinea 😉
Gentili.