di giuliomozzi
Spesso, quando parlo di Tullio Avoledo, mi sento dire: ah, sì, quello dell’Elenco telefonico di Atlantide. In effetti quel romanzo, apparso nel 2003 presso l’editore milanese Sironi – per il quale all’epoca lavoravo – fu un esordio memorabile. Dopo il la dato da Antonio D’Orrico, che si era appena divertito a lanciare Giorgio Faletti come “il più grande scrittore italiano” e che aveva reagito positivamente a una mia provocazione (più o meno: a far diventare famoso uno già famoso sono buoni tutti, prova con questo qui che non lo conosce nessuno ed è pubblicato da una casa editrice che esiste da sei mesi), ne parlarono praticamente tutti (nel bene e nel male, ovviamente). Tanto che le vendite effettive dell’edizione Sironi (circa diciassettemila copie, circa un mese di permanenza tra il secondo e il quinto posto in classifica nelle vendite di romanzi italiani) venivano ampiamente sovrastimate anche dagli stessi operatori del settore.
Avoledo, all’epoca, fu percepito soprattutto come un narratore dalla verve fuori dall’ordinario, che raccontava storie del tutto diverse dall’intimismo, dal familiocentrismo, dal guardarsilombelichismo che allora era di moda (forse anche adesso) rimproverare ai narratori italiani. E forse anche Avoledo stesso non sapeva ancora bene che cosa avrebbe voluto fare da grande: tanto che nel suo quinto romanzo, Breve storia di lunghi tradimenti, pubblicato nel 2007 da Einaudi, tornava a giocare con alcuni personaggi dell’Elenco costruendo un romanzo narrativamente assai efficace ma alla fin fine, secondo me, non più interessante di un divertissement (a parte, come sempre in Tullio, le pagine nelle quali compaiono i bambini: ricordo che ero in aeroporto, leggevo, mi venne da piangere, e un’ignota viaggiatrice tedesca mi porse un fazzoletto di carta).
Fattostà che nel tempo, e nonostante qualche incertezza, Avoledo si è rivelato per quello che è davvero: e che, a non farsi distrarre dalla giostra narrativa, già nell’Elenco si poteva vedere.
Tullio Avoledo è un grande narratore tragico.
E’ anche, se volete, un narratore cinico, un narratore ironico, eccetera eccetera: ma è soprattutto un grande narratore tragico.
Lo stato dell’unione (Sironi 2005), La ragazza di Vajont (Einaudi 2008), L’anno dei dodici inverni (Einaudi 2009), senza perdere in ricchezza narrativa (l’Anno è addirittura una specie di tour de force abilissimo) e quindi in divertimento del lettore, non fanno che parlare della fine. Anzi: della Fine. Della Fine della nostra civiltà, della Fine del nostro essere umanità, della Fine delle istituzioni e dei popoli, della Fine della conoscenza, della Fine delle relazioni tra le persone – della Fine del mondo, alla fin fine. E non tanto diverso è il contenuto dei due romanzi che finora Avoledo ha scritto all’interno del mondo – postapocalittico, si usa dire, ma io direi: di apocalisse in corso – di Metro 2033, inventato dallo scrittore russo Dmitrij Gluchovskij.
“Sono un pessimista che ci prova“, ho sentito Avoledo dire qualche volta. “Ho pur sempre due figli”.
Ecco: questo romanzo nuovo, Chiedi alla luce, che esce domani per Marsilio Editori, a me sembra essere un passo ancora oltre. La storia è quella di Gabriel (un angelo o forse un uomo che si crede un angelo o forse un impostore o forse un uomo reso folle dalla malattia o forse un angelo resosi conto da poco di essere tale o forse un sogno nella mente di un uomo reso inerte dalla malattia…), che vaga per l’Europa forse senza meta o forse guidato da una volontà invisibile o da un istinto sicuro: vaga, nello spazio e un po’ anche nel tempo, e ha un solo scopo: salvare. Salvare chi? Non si può salvare tutti, non c’è tempo, la Fine incombe. Gabriel tenta di salvare i peggiori: gli insalvabili, gli imperdonabili. Un pugno d’uomini autori di sterminii di massa, di assassinii a mani nude, o colpevoli del disprezzo del bene più elementare che abbiamo: la vita.
Ma sembra che la Fine di Tutto incombente sull’Europa (sull’Europa: perché saremo noi, a finire) finisca col coinvolgere la narrazione stessa. Che rinuncia ai virtuosismi narrativi, sembra soccombere difronte alla propria complessità, e si fa episodica, asincrona, misteriosa e sfuggente come ciò che narra.
Io ne sono rimasto affascinato. Nel Sole 24 ore Roberto Carnero, pur elogiando la “profondità” del romanzo, ha scritto che “i continui cambiamenti di tempi, di luoghi e di punti di vista rischiano di disorientare anche il lettore più disponibile”. E forse è un po’ vero. Ma a me par più vero che la narrazione di un disfacimento, se vuole essere autentica, non può funzionare come una macchina perfettamente ticchettante: perché il funzionamento della macchina è l’elemento consolatorio della narrazione.
C’è una speranza, in Chiedi alla luce. Ma non c’è consolazione. Di più: sembra che la speranza nasca proprio dalla rinuncia alla consolazione. Mi viene in mente un passaggio dello scritto che Tullio regalò, qualche anno fa, a Valter Binaghi e a me per l’introduzione del nostro libretto Dieci buoni motivi per essere cattolici:
Nel momento di maggior sconforto della mia vita, quando avevo meno di trent’anni, colpito da un grande dolore e cercando un rifugio dal Male ho aperto a caso la Bibbia, come facevano i nostri antenati, e i miei occhi hanno trovato il salmo 89.
Quella pagina porta ancora il segno delle mie lacrime.Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.Prima che nascessero i monti
e la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, o Dio.Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
e dici: “Ritornate, figli dell’uomo”.Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.E poi quella magnifica chiusa:
Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.Insegnaci a contare i nostri giorni…
Credo – semplicemente non posso non credere – nel Dio che ha ispirato queste parole. Mi piego come l’erba al suo soffio. Vivo nel suo respiro. Vorrei danzare come un derviscio di Kone, al suono del suo silenzio, che mi parla più delle mille voci del mondo quotidiano.
La storia di Gabriel è tutta qui: nello scoprire la vanità – al limite, anche la vanità del bene – e nell’abbandonarsi.
La sua mano si apre in un gesto d’invito.
Lo seguo, senza più chiedere.
Senza guardare.
Un altro passo e saremo nella luce.
Queste sono le ultime parole di Chiedi alla luce. Nelle quali la Fine e la Salvezza arrivano a coincidere. E a tendere la mano è un bambino.
7 settembre 2016 alle 11:27
Che bella segnalazione. Credo si tratti di un Libro-Inizio.Come piace a me.Matta.
7 settembre 2016 alle 12:31
Opinabile (per me) il fatto di aprire la Bibbia di fronte ad un grande dolore….ma per il resto la tua recensione è allettante. Forse è ora che anch’io, come tanti a quanto pare, scopra che esiste un Avoledo al di fuori dell’Elenco”.
7 settembre 2016 alle 15:44
Tullio è un grandissimo. Ed è molto ma molto di più di quello dell’Elenco.
7 settembre 2016 alle 16:07
quando ti ci metti, sai emozionare anche con una recensione…
7 settembre 2016 alle 17:28
Guarda il caso. Il salmo 89 è quello della liturgia di domenica scorsa.
7 settembre 2016 alle 19:57
Ricordo quanto mi piacque l’Introduzione di Tullio Avoledo qui citata.Si legge per allargare mente e cuore e se c’è una Luce speciale come non essere attratti?
7 settembre 2016 alle 23:03
Le tue parole per questo romanzo, Giulio, per quello che del romanzo lasciano prevedere e capire, per quanto sollevano, mi toccano profondamente.
11 settembre 2016 alle 10:08
@ Lauretta Chiarini: Cara Lauretta, Avoledo persegue da sempre, a mio parere, due filoni distinti ma non distanti (proprio nella giusta ottica di Mozzi): uno per così dire ludico-fantascientifico (“L’elenco…”, ma anche “Mare di Bering” e altri) che costituisce il suo lato ‘musica leggera’ (intesa dalla canzonetta al punk passando per il rock e un po’ di jazz) e uno in senso lato depressivo-fantasy che è invece improntato a qualsiasi epoca della musica colta, dal Gregoriano de “Le radici del cielo” ai quartetti d’archi d’una qualsiasi inquietante avanguardia storica (“Tre sono le cose…”, “L’anno…”, “La ragazza…” etc.) a certo sperimentalismo forse più yankee che europeo; e Avoledo è la somma di questi due corni: l’uno senza l’altro non avrebbe senso. Occorre leggerli entrambi, per coglierne la cifra di grandezza; e preferirne uno all’altro è lecito, ma sono le due facce della stessa medaglia.
21 settembre 2016 alle 10:57
[…] Avoledo è nato nel 1957 a Valvasone, in Friuli. Ha pubblicato tre romanzi per Sironi Editore: L’elenco telefonico di Atlantide (2003), che ha vinto il premio «Forte Village-Montblanc», Mare di Bering (2003), Lo stato dell’unione […]
7 Maggio 2017 alle 18:47
ho appena finito di leggere”Chiedi alla luce”E’ un romanzo molto bello.Occorre per’ “entrare” nello spirito del libro.Dopo le prime 30 pagine pensavo di smettere.Invece e’ tutto da assaporare che, la narrazione ti porta via in luoghi e situazioni sogni,sentimenti come un vento.Tante belle riflessioni sulla vita sull’amore,sul dolore.UNo dei piu’ bei romanzi che ho letto.Grazie Tullio