di Demetrio Paolin
[Questo articolo di Demetrio Paolin è apparso oggi nel quotidiano Il foglio].
Ne La ragazza selvaggia Laura Pugno continua a sviluppare il tema che è centrale nella sua poetica, ovvero il racconto dell’apocalisse. Se c’è una continuità tra il suo esordio narrativo (nel 2002 con una raccolta di racconti per Sironi) e questo suo ultimo testo, è sicuramente da rintracciare nella lunga e fedele riflessione sul tempo ultimo. La storia de La ragazza selvaggia, infatti, altro non è che il tentativo di raccontare un ritorno o, meglio, una resurrezione. Il tutto prende le mosse in un immaginario parco naturale di Stellaria (una sorta di ardito esperimento scientifico per fare sì che la natura riprenda il sopravvento senza controlli e senza regole di questi ettari di boschi, campi e monti) dove Tessa – una ricercatrice che monitora le varie fasi del ritorno al “selvaggio” – ritrova dopo dieci anni Dasha, giovane figlia adottiva di una famiglia di ricchi industriali, che due lustri prima si era perduta nel bosco ed era stata data per morta. Dasha, che incontriamo descritta come una ragazza-cagna, ha una sorella gemella, Nina, che è in coma dopo un incidente stradale. Intorno a queste due vicende si muovono tutti i fili di una storia che ha il suo fulcro in due domande, mai dichiarate apertamente, ma che aleggiano nelle pagine. Può ciò che è morto ritornare alla vita? Si può “ritornare” alla vita – Dasha rappresenta appunto un revenant – e che conseguenze ha questo ritorno? La risposta della Pugno è negativa. Sin dalle prime pagine, l’immagine della foresta e del bosco che prendono possesso con silenziosa tenacia delle case abbandonate, delle strutture lasciate in disarmo, rinfoltiscono boschi, cancellano sentieri in una sorta di paradiso vegetale, che ricorda certe suggestioni de La carta e il territorio di Houellebecq, si affianca al suo progressivo fallimento. Non è possibile sostenere i costi del parco e del suo inselvatichimento, molto meglio una “selvaticità” controllata e farlo diventare un parco turistico.
Proprio nei giorni in cui tutto sta per finire, ecco che Tessa trova Dasha. Ciò rappresenta, in maniera del tutto involontaria, il risultato più concreto e visibile del parco. Una ragazza che non ha più nulla del suo essere “umano”: non parla, cammina come un cane a quattro zampe, ha una folta peluria sul corpo, i suoi capelli sono un indistinto intrico di terra, sassi, foglie. Al suo odore di selvatico, che impregna il container dove viene ospitata da Tessa, si contrappone l’algido freddo pulito della camera d’ospedale dove Nina, la sorella più grande, è in coma. Il legame tra le due gemelle separatesi dieci anni prima – separazione iniziata con la scomparsa misteriosa di Dasha nel bosco – si salderà in modo inaspettato alla fine del romanzo.
Uno dei tratti fondamentali degli scritti della Pugno è l’assenza di suggestioni religiose, anzi, è di certo una delle scrittrici dove l’immaginario cattolico è meno presente. Nello stesso tempo, la scelta della lingua del romanzo è piana, non ha accensioni o punte, nemmeno liriche o sentimentali. Lo stile è volutamente controllato; quasi che al sogno di ritrovare uno stato di natura e di innocenza si opponesse una sorta di algida freddezza; non è forse un caso che molta parte della storia avvenga nei giorni a cavallo tra Natale e Capodanno e che quasi tutto il racconto si svolga in luoghi chiusi. Un distacco che però non può negare la drammaticità della risposta alle domande sottese al testo. La ragazza selvaggia con la sua sintassi scabra e senza pietà sembra suggerirci che nessuno può ritornare alla vita di prima, così come Lazzaro che dopo la sua resurrezione continuò a sentire l’acre profumo della morte e non desiderò altro che liberarsene.
Tag: Demetrio Paolin, Laura Pugno
3 settembre 2016 alle 16:30
La freddezza del romanzo non sta solo nella sintassi, ma anche nella voce e nel suo sguardo (oh, ho usato una goffa sinestesia!), Per esempio il paesaggio, e in particolare il parco di Stellaria, che è un protagonista del romanzo, narrativamente funge da sfondo e non, appunto, da paesaggio-personaggio-protagonista. E’ così anche per gli interni (del container, della villa).
Inoltre, l’intreccio e il gran numero di personaggi “piatti” impediscono la lettura emotiva e i meccanismi dell’empatia. Anche questo secondo me comunica freddezza,
Esagerando: leggere la sinossi del romanzo o il romanzo per intero è quasi la stessa cosa, perchè l’intreccio è l’elemento più interessante perchè allusivo (ai mito del doppio e del selvaggio, all’apocalisse, come scrive Demetrio).
4 settembre 2016 alle 20:27
Eh: freddezza del romanzo, voce, sguardo, paesaggio protagonista o sfondo, intreccio, personaggi piatti, meccanismi emotivi… Possiamo parlare solo per traslati.
4 settembre 2016 alle 20:35
Non capisco.
4 settembre 2016 alle 21:03
Posso aggiungere però che il romanzo mi è piaciuto un pochino lo stesso, così
– non parlo per traslati;
– non devo giutificare la mia affermazione;
– forse scrivo qualcosa di utile e sensato.