“Il racconto di una lacerazione immedicabile richiede sobrietà”

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di Filippo La Porta

[Questo articolo di Filippo La Porta è apparso nel “Domenicale”, supplemento de “Il Sole/24 ore”, oggi 31 luglio 2016].

7228419_1572657Il quinto romanzo di Laura Pugno, La ragazza selvaggia, fa pensare a certi racconti dello splendido filone non horror di Stephen King, lì dove il perturbante agita il lettore mostrandogli la domestica familiarità dell’estraneo, l’oscurità impenetrabile che circonda il perimetro della razionalità. La giovane biologa Tessa, custode della riserva protetta di Stellaria – un progetto fallito per mancanza di fondi – «aprì la porta sul buio del bosco…». E così ritrova la ventenne Dasha, sparita nel bosco quando era bambina: il corpo pieno di ferite e cicatrici, l’odore di selvatico, un flebile mugolio. Di lì ricostruiamo l’intera vicenda, fitta di personaggi (suggerisco di fare uno specchietto nell’ultima pagina) e storie secondarie: Dasha e la sorella gemella sono state adottate in Ucraina dai coniugi Held, Giorgio e Agnese, poi Dasha sparisce nel bosco e Nina resta in coma per un incidente; Nicola, figlio dei Varriale, trascorre gli anni dell’infanzia con loro e si iscrive all’università – Economia – insieme a Nina; con lui Tessa, a sua volta cresciuta orfana, sotto la protezione della zia Sagitta, intreccia una relazione sentimentale e tenta – vanamente – di sbrogliare quella che sembra la matassa di una oscura maledizione.

L’incivilimento della ragazza selvaggia è destinato all’insuccesso. Dasha continuerà a soffiare e a ringhiare di fronte a ogni tentativo pedagogico – proprio come quello del ragazzo selvaggio dell’Aveyron nella Francia dei lumi (raccontato da Truffaut nel 1971 con un film molto edulcorato). Nel romanzo di Laura Pugno tutto precipita, fallisce, in un inverno senza fine, prima – forse – del risveglio del mondo: l’amore, i progetti di ricerca scientifica, la famiglia, il recupero della ragazza selvaggia attraverso il logopedismo, perfino le carriere (un professore universitario riappare come barbone – e quasi fantasma – sul Lungotevere), etc., lasciando una dolorosa scia di decessi, suicidi, impazzimenti, malattie terminali, fughe… Se pensiamo che la nostra narrativa ha una fisiologica incapacità di rappresentare il tragico – perfino il reportage deve virare sulla spettacolarità – . Laura Pugno mostra qui anzitutto una sensibilità di tipo tragico e una insolita radicalità: per lei i conflitti principali dell’esistenza non hanno vera soluzione. Il che non ci esime dall’affrontarli. È immune da qualsiasi attrazione estetizzante per la catastrofe, e anzi – sembra suggerirci – l’esperienza umana consiste proprio nel subire il destino, ma al tempo stesso nello strappare al destino le chance che implica. Il fallimento diventa una preziosa forma di conoscenza e autoeducazione. Tessa alla fine non è la stessa dell’inizio: si avventura nella neve alta insieme a Nicola, dopo aver fatto l’unica scelta coerente: riconsegnano la indomabile Dasha, secondo la volontà paterna, al buio del bosco, con una borsa frigo piena di carne cruda scongelata.

Laura Pugno, che ha pubblicato tre raccolte di poesia, è considerata – a torto o a ragione – poetessa “sperimentale”. Certo il romanzo è tutt’altro che formalmente spericolato o disarticolato, né appare sfiorato dal benché minimo espressionismo verbale. Struttura lineare, sintassi piana, una lingua quasi referenziale. Come se il nucleo tragico – raggelato e disturbante – della narrazione non ammettesse manierismi avanguardistici e dovesse essere quasi protetto entro un involucro apparentemente convenzionale. Il racconto di una lacerazione immedicabile richiede sobrietà. Nonostante la pletora di antiromanzi e metaromanzi probabilmente il genere del romanzo non deve mai cancellare il patto con un pubblico (più o meno identificabile o immaginabile). È una finzione che non può ignorare del tutto il problema della realtà, di una realtà “inventata” ma in cui in cui altri possano continuamente riconoscersi, è una costruzione artificiale che lavora su ciò che hanno in comune le persone, sulla rielaborazione di immagini e archetipi condivisi (si veda il recente Discorso sul romanzo moderno di Alfonso Berardinelli, Carocci). Inoltre: La ragazza selvaggia ci mostra analogie e corrispondenze segrete (ad es. Nina, la gemella muore la notte che Dasha viene investita da un’auto, e sopravvive), intermittenze del cuore e figure nebbiose di un destino irrevocabile, e insomma il mistero di cui è intessuto ogni quotidiano. Da sempre il genere romanzesco ha dato spazio a una logica diversa e sfuggente, ad un “sapere” estraneo alla cultura razionalistica della modernità. In ciò rivela la propria stessa natura non interamente addomesticabile né laicizzabile. Si tratta insomma di un genere “selvaggio”, che ha bisogno di una sola cosa: la sincera voglia di sporgersi sul buio.

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Una Risposta to ““Il racconto di una lacerazione immedicabile richiede sobrietà””

  1. カゼムグダルジマニ Says:

    Sono totalmente d’accordo: “i conflitti principali dell’esistenza non hanno vera soluzione. Il che non ci esime dall’affrontarli.”

    “Il fallimento diventa una preziosa forma di conoscenza e autoeducazione.” Questo mi lascia perplesso; non saprei dire quanto sono d’accordo. Dipende dall’onestà delle nostre intenzioni: forse falliamo ciò che non risponde veramente ai nostri desideri, forse scegliamo obiettivi il cui fallimento non ci apra la porte del buio. Forse ci sbagliamo. (forse mi sbaglio io).

    Non se questa sbrigativa riflessione c’entri qualcosa con il romanzo in questione, ma l’ho già messo in lista. Buon lavoro a tutti.

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