
Vill’Amarena, teatro degli amori dell’Avvocato e della signorina Felicita
[Le regole del gioco].
E l’ho giurato, mi ricordo bene,
trenta settembre novecentosette,
avevo ai piedi, sopra le calzette,
scarpe col tacco; dentro al cuor le pene
per non averLa più qui alle mie cene
di cipolle e basilico, perfette
come il profumo delle notti ch’io
sognavo stando desta a ripensare
al mio solaio, alle parole amare
che Lei mi disse quando disse “addio”:
addio al solaio, e a me, e al cuore mio.
Quanto mi piace e spiace ricordare!
Sette anni, ahimè, passarono da allora.
Corrono voci di una guerra atroce,
e la Marchesa se ne va veloce
fuori dal quadro, via, via… ancora, ancora…
Ma non c’è più nessun che non l’ignora.
Avvocato, ricorda la mia voce?
O le Lyda e le Amalia, signorine,
le fanno compagnia lì nel Marocco?
Ma Lei fingeva d’essere uno sciocco,
di amar le mie blandizie femminine,
di non volere più le cittadine,
di non essere esteta ma un po’ allocco.
E gli anni son trascorsi tra i ciliegi,
e molte le camicie che ho tagliato,
molte son le canzoni che ho cantato,
molte lenzuola ricamate a fregi
sul lino più sottile ch’è di Liegi,
ma un uomo solo, un uomo solo ho amato.
E l’ho giurato, mi ricordo ancora,
trenta settembre novecentosette,
quella ghirlanda di viole e di saette
che sul quel muro adesso trascolora
– ma fu chiara e leggibile finora –
le rondini, le stelle, le cosette
che Lei pensava non avrei capito,
io quasi brutta, priva di lusinga,
con la mia faccia buona e casalinga,
io che non so cos’è ’l parlar forbito,
io che cercavo solo un buon marito…
Lei, Avvocato, par che ancora finga
di non volere più quello che vuole:
unire la mia sorte alla sua sorte
allontanare quell’idea di morte
che sa di busso e d’ombra e ragni e viole,
allontanare il mare di parole
che fa sembrare le giornate corte.
Ma io non credo che la Terra è tonda,
non so accordar le sillabe dei versi,
io e lei, o mio Avvocato, siam diversi
come piccoli legni che sull’onda
vanno così che solo uno affonda
e tutti i suoi pensieri sono immersi
nella falsa bontà, nella finzione:
Lei ha detto di amarmi, di aspettare,
Lei ha parlato, io lo so, di altare,
Lei mi ha cantato bene la canzone,
poi se n’è andato solo alla stazione
e mi ha lasciata qui: a ricamare.
Così mi ha presa in moglie il farmacista,
e son nelle faccende affaccendata,
e non m’illudo d’esser stata amata;
di tanto in tanto penso a quella vista
dall’abbaino alla campagna mista
di Torri e Chiese, bella e trasognata…
Scende la sera nel giardino antico…
Lei, Avvocato, non è più mio amico!
[Una bella pagina su Guido Gozzano, dalla quale ho estratta la foto di Vill’Amarena. In Wikisource, il testo completo del poemetto di Gozzano La signorina Felicita, ovvero la felicità].

Telemaco Signorini, Sui colli a Settignano (1885)
Tag: Guido Gozzano, Nadia Bertolani
20 luglio 2016 alle 11:32
Brava! Molto.
P.S.: perché “busso” e non “bosso”? Qualcosa mi sfugge.
20 luglio 2016 alle 11:35
mmmhhh, ripensandoci forse è giusto “busso” (da “busson”, in piemontese, italianizzato in “busso” dalla Felicita (che di parlar forbito nulla sa)).
20 luglio 2016 alle 11:36
“ Domenica 19 maggio 2013 – Poi c’è Chiambretti al Salone del Libro. Con la su’ mamma. Che legge le sue poesie – nel senso di poesie della mamma, della signora Felicita [sic] Chiambretti. “ [*]
[*] Lsds / 73…
20 luglio 2016 alle 18:23
Ma che bella questa lettera-poesia. Complimenti. 😀
20 luglio 2016 alle 20:53
Ho scritto busso perché così scrive Gozzano, non mi sarei permessa di contestarlo… Comunque ringrazio Giulio Mozzi che ha corretto la metrica zoppicante dell’insipiente Felicita.
21 luglio 2016 alle 09:44
È vero, il Gozzano scrive “busso” (e mica vorrai discutere). Bastava rileggersi la Felicita!
27 luglio 2016 alle 22:33
Mi piace moltissimo. Complimenti!
28 luglio 2016 alle 10:34
Grazie Mery, ci tengo a ribadire che formalmente la lettera-poesia manca di rigore metrico ma sono contenta che nonostante tutto piaccia a qualcuno e di nuovo ringrazio Giulio Mozzi.