“La mistificazione”, di Carlo Della Corte e Alcide Paolini

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di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

mistificazioneI lettori saranno tolleranti, così spero e mi auguro, se per una volta il loro umile bibliofilo si azzarderà a trattare di un’opera, non solo con poca fatica reperibile (benché da lungo tempo fuori commercio) ma addirittura – così mi si dice – esistente. D’altra parte, tràttasi di un’opera (e qui sappiamo di stuzzicare la curiosità del nostro sempre cortese ospite) che tratta a sua volta di letteratura (se condizione d’esistenza per l’opera è la sua circolazione) sommamente inesistente: ovvero inedita. Riportiamo per intero – data la sua illustrativa pregnanza – il titolo dell’opera in questione, così come lo reca – in una ripresa o parodia dell’uso antico – la copertina: La mistificazione. Un saggio di Carlo Della Corte e Alcide Paolini su lettere, poesie, suppliche, brani di romanzi, racconti di tutti gli aspiranti scrittori. Una antologia del sottobosco letterario, uno sconcertante panorama dell’incultura. Pubblicato in Milano per i tipi di Sugar editore. L’anno è il 1961. E, a quel che ci risulta, codesto non corposissimo libro (duecento pagine, cinquanta di saggio iniziale che evidentemente si vuole socioantropologico e politico, e centocinquanta di raccolta documentaria, o antologia degli orrori) costituisce il primo e finora unico tentativo di rappresentare seriamente la “letteratura inedita in Italia”, ovvero la produzione letteraria e scritturale nazionale che non trova via di pubblicazione – ed è, vale la pena di ricordarlo, massicciamente preponderante su quella che invece l’editoria, buontà sua, manda alle stampe e alla distribuzione.

nodaroRibadiamo l’avverbio: seriamente. Il lettore non s’illuda di imbattersi, qualora s’imbatta in quest’opera, o strenuamente la cerchi (ché il desiderio di ogni recensore, come ciascuno immagina, è di suscitare insopprimibile curiosità) in qualcosa di simile (e di similmente divertente) alle finte schede di lettura raccolte dal compianto Umberto Eco in Diario minimo; o in qualcosa di analogo all’interessante Siamo spiacenti di Gian Carlo Ferretti, utile storia della difficile e talvolta ardua storia della prima pubblicazione di opere talora diventate poi grandi classici o grandi successi (o, come càpita, entrambe le cose) (e, di rispetto, storia delle difficoltà con cui gli imprenditori e i lavoratori dell’editoria si scontrano, nel cercar di capire che cosa esattamente si para loro davanti a ogni apertura di manoscritto). E, soprattutto, il lettore non s’illuda di aver che fare qui con una pura e semplice raccolta di “mostri”, come il celeberrimo Sottobosco letterario. L’industria editoriale e gli scrittori inediti (Gammalibri 1978) di Domenico Nodari, che – come illuminantemente dichiara un rivenditore – “diverte più di un libro di barzellette sui carabinieri”: ovvero diverte più di un libro di barzellette stupide e crudeli, e diverte solo chi si diverta a leggere o ascoltare barzellette stupide e crudeli: ovvero chi sia stupido e crudele a sua volta. Roba da Fiori di banco e da Io speriamo che me la cavo, o giù di lì.

Chi volesse lamentarsi, oggi come oggi, dell’eccesso di aspiranti alla pubblicazione, e della scarsità sia di capacità produttiva sia di autogiudizio della maggior parte di essi, dovrebbe dunque considerare che il fenomeno doveva già apparire fenomenale sul finire degli anni Cinquanta (il saggio introduttivo cita un articolo, ovviamente antecedente e “solo superficialmente divertente”, di Dino Buzzati, nel quale già appare il luogo comune: “Si ha l’impressione che su cinquanta milioni di italiani esistano almeno cinquantadue o cinquantatré milioni di scrittori” – p. 22), se due personaggi del calibro di Della Corte (scrittore, giornalista, giornalista televisivo, poeta, cinefilo, esperto di fumetti e autore di fantascienza italiana: così Wikipedia) e Paolini (scrittore, poeta, critico letterario, dirigente editoriale di alto livello: idem) decisero di dedicarvi non un articolo in una rivista, magari di sociologia accademica o di teoria e tecnica editoriale, ma un intero libro.

Al di là degli aspetti di costume, “il lavoro di Della Corte e Paolini intendeva porsi come una sorta di indagine aspramente critica, corredata da ampia documentazione, della società del loro tempo e della cultura, o incultura, che produceva” (v. Monica Giachino, “Intorno ad alcuni epistolari del Fondo Della Corte”, in «Una raffinata ragnatela». Carlo della Corte tra letteratura e giornalismo nel secondo Novecento italiano, a cura di Veronica Gobbato e Silvia Uroda, Edizioni Ca’ Foscari 2014, p. 209). Naturalmente, diremmo inevitabilmente considerando l’altezza cronologica e lo spirito del tempo, il saggio introduttivo sostiene che “ciò che manca alla nostra cultura in parte scientemente, è [una] prospettiva di una concezione del mondo, secondo le esplicite distinzioni antidogmatiche gransciano-lukacsiane, per cui non si sa e non si vuole opporre nient’altro a quella mancanza di concezione reazionaria e antietica dell’ipostatizzato stato di benessere” (p. 9). Ovvero: per il Della Corte e il Paolini la “incultura” altro non è che il risultato dell’impatto della “cultura del benessere” (del boom economico, allora ai blocchi di partenza) sulla “cultura del popolo”, peraltro percepita come inerte e, forse, o addirittura, non-cultura (ricordiamo che Sud e magia e La terra del rimorso di Ernesto de Martino vedono la luce rispettivamente nel 1958 e nel 1961: è troppo presto, ancora, perché due intellettuali aspramente politicizzati come Della Corte e Paolini abbiano della cultura popolare un sentimento positivo, o almeno come di base antropologica ineludibile: per loro il Tavoliere delle Puglie è soltanto – p. 46 – una “preoccupante” area “depressa”).

E dunque. Chi lavori oggi nell’editoria, o chi come il vostro umile bibliofilo si diletti di compulsare le pianticelle e i frutti del sottobosco letterario ed editoriale (in invasiva crescita in quest’era dell’autopubblicazione, ovvero della non-pubblicazione e, per così dire, del selfismo editoriale) non può non notare come la situazione, rispetto alla rappresentazione a campione (campione asistematico e umorale, diremmo: con il che l’eventuale – e altresì pretesa dai due autori – scientificità del lavoro va a carte quarantotto e a gambe all’aria) sia insieme simile e diversa. Simile, perché l’incapacità di autogiudizio sembra un dato permanente e corposo; diversa, perché i modelli letterari e di letterarietà disponibili a quelli che oggi, con pietosa onomaturgia, vengono chiamati “semicolti” (a fronte dell’impietoso “incolti” sperperato a piene mani da Della Corte e Paolini), sono cambiati: non più, andando a braccio, Carducci e D’Annunzio, o Guido Da Verona e Mario Appelius, ossia modelli comunque di letterarietà standard alta e (per questi autori) inattingibile; ma piuttosto la letteratura rosa di massa, il giallo di massa, il romanzo storico di massa, il fantasy di massa, il Fabio Volo di massa, e via di massa andando: ovvero modelli di letterarietà standard già piuttosto bassina. Se il semicolto degli anni Cinquanta poteva infarcire la propria pagina di elettismi, ipercorrettismi, arcaismi, eccetera, il semicolto degli anni Dieci del Duemila si arrangerà a scrivere letteralmente come parla, magari nella schietta convinzione che proprio lo scrivere come si parla (cioè come parla lui, beninteso) sia l’azione letteraria propria.

Esiste peraltro, mi pare, al giorno d’oggi (e questo suggerimento spero il Mozzi recepisca) tutta una produzione letteraria i cui autori ingiustissimamente sarebbero definiti “semicolti” o, peggio che andar di notte, “incolti”: potremmo denominarli, risultando per il momento inesistente la parola, “intracolti”. E intendo la produzione letteraria di autrici e autori che hanno studiato (più o meno come tutti studiano, al giorno d’oggi), che hanno letto magari dei buoni libri (e magari mica pochi), che sono informati sulle correnti alla moda, che si sono smazzati insomma il loro Foster Wallace o il loro Cormac McCarthy, il loro Antonio Moresco o il loro Michele Mari: e tuttavia, nel momento in cui si pongono a scrivere, fanno quel che fanno ovvero quel che possono. Laddove risulta chiaro che il punto non è la competenza, o l’istruzione, o la cultura: il punto è la capacità di auto-giudizio, la cui presenza o assenza sembra – rispetto appunto a competenza o istruzione o cultura – un’invariante. Ce n’è sempre tanta, insomma.

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5 Risposte to ““La mistificazione”, di Carlo Della Corte e Alcide Paolini”

  1. カゼムグダルジマニ Says:

    Sempre ammirato Sig. Bissolati, Lei dice che “intracolti” è parola inesistente. C’ho pensato un poco e mi sono detto che parola inesistente è parola che non esiste. E dov’è che una parola esiste o non esiste se non primieramente nella mente di una persona a dare forma ad un suo pensiero, ancorché non destinato ad essere espresso; che se poi viene pure espresso, con un qualche mezzo, esiste anche per altri (la parola, oltre al pensiero ovviamente). Cioè: non credo che una parola possa essere “per il momento inesistente” in quanto penso che il solo atto di usarla la renda esistente da quel momento in poi. (Non sono molto sicuro di essere riuscito a dare forma al mio pensiero, però c’ho provato e non so se mi sia mancato auto-giudizio).

    PS: al penultimo rigo manca una “p” ad “appunto”.

  2. Ennio Bissolati Says:

    Gentile Kazemu Guda Distearato Mani: già l’esistenza è provvisoria, si figuri l’inesistenza…

    La parola “intercolti” non esisteva nel senso più banale della parola: Google non ne dava testimonianza (se non, e in testi d’interesse muramente antiquario, come participio passato di “intercogliere”, ovvero “sorprendere”). Usandola, dunque, le ho dato accesso all’esistenza. Se nessuno la userà più, la sua esistenza sarà iniziata e finita nel medesimo istante.

    Destino!

  3. カゼムグダルジマニ Says:

    Luminoso Bissolati, lei mi ha illuminato!

  4. Pietro Condemi Says:

    Non mi posso accostare né per cultura né per capacità espressiva a Ennio Bissolati, e pertanto spero verrò scusato. Mi permetto scrivere questo commento per molteplici aspetti, in qualità di editore di libri nell’ambito della saggistica delle scienze umane.
    Da dieci anni svolgo l’attività di editore con grande fatica e tenacia; ho cercato, nel corso di questi anni, si selezionare le pubblicazioni della mia casa editrice al fine di renderla il più possibile coerente in tutti i suoi libri, e devo dire di esserci riuscito, a mio parere, laddove la grande organicità dei testi rimanda continuamente all’interdisciplinarietà e al “filo rosso” del lavoro da svolgere su se stessi, dell’impegno individuale che unico può portare all’impegno sociale nel cercare di modificare tanto il nostro modo di vivere che il mondo che ci circonda. Nello svolgere questo lavoro mi sono ritrovato a venire in contatto con autori (e aggiungerei traduttori: persone straordinarie!) perlopiù sconosciuti, spesso alla loro prima pubblicazione, per ovvi motivi: gli scrittori noti non si rivolgevano certo a me per le loro opere, forti di contratti con editori molto più noti e attrezzati di me. Ma questi scrittori “sconosciuti” hanno, ai miei occhi, incarnato una realtà al contempo incredibile e meritoria: esiste una cultura straordinaria sparsa nel nostro Paese che non ha alcuna visibilità, e al contempo tiene in piedi questa nostra Italia. Quanto durerà? A leggere le pagine di un nostro recente libro, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo di Davide Miccione, ancora per poco, se non si interviene.
    Fermo restando che certamente ho letto e scartato alcuni scritti che, a mio modesto parere, non meritavano di essere pubblicati (ma avrò avuto ragione?), la qualità e la profondità dei libri che ho deciso di pubblicare è davvero rimarchevole; insomma, dei “cinquantatre milioni di scrittori”, per altro ora aumentati, ho avuto la fortuna d’incontrare i più capaci. Forse perché capaci non pubblicati da altri, timorosi di essere messi in ombra? Al lettore dei libri, naturalmente, l’ardua sentenza.
    E che dire del’autopubblicazione in contrasto con la richiesta di soldi (e molti!) per poter pubblicare con numerosi editori? Abbiamo fatto una scelta che portiamo avanti: se ci piace pubblichiamo, e all’autore chiediamo solo un euro a pagina per l’impaginazione una tantum (e realizziamo il libro cartaceo e tre tipologie di ebook). E quando andiamo in stampa con libri che non sono più in commercio, cosa che è accaduta alcune volte, non realizziamo nemmeno questo piccolo contributo alle spese…
    A questo punto vi è rimasta la curiosità di sapere, tra le altre, come ci chiamiamo? Speriamo! Non vi teniamo certo sulla corda: http://www.ipocpress.it è il sito della nostra casa editrice Ipoc. Per tutti coloro che vogliono leggere autori poco noti ma che hanno tanto ma tanto da dire e da proporre, o per coloro che credono si possa collaborare ancora con una casa editrice.

    Pietro Condemi
    Ipoc Editore

  5. Giulio Mozzi Says:

    Direi che il titolo del libro di Della Corte e Paolini potrebbe valere anche come titolo dell’intervento qui sopra.

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