di Eusebio Gnirro
Il Dry-sex, o sesso asciutto, è il contributo fornito dall’Africa Subsahariana alla sessualità non convenzionale. L’obiettivo di questa pratica è di ridurre al minimo la lubrificazione vaginale in modo da rendere più intense le sensazioni provate dal maschio durante la penetrazione. Le tecniche messe a punto nel corso dei secoli sono state censite da un esploratore belga, il quale le ha tramandate ai posteri sotto forma di epistole alla moglie senza immaginare che costei le avrebbe utilizzate per farlo internare in manicomio al suo rientro in patria e convolare a nuove nozze con l’amante (un marcantonio di colore venuto al seguito del marito come factotum, rivelatosi più totum del previsto). Ne riportiamo un florilegio allo scopo di fornire a coloro che vivono nei paesi industrializzati la possibilità di contemperare l’attrazione per questa specialità, ormai fortemente tecnologizzata, con una sensibilità ecologica che vuole ridare lustro ad antiche prassi a ridotto impatto ambientale; si tratta di sposare la causa dell’eros eco-sostenibile alla cui filosofia risponde, tanto per fare un esempio, l’immissione sul mercato dell’arcaico profilattico in budello di maiale il quale, oltre ad essere biodegradabile, risulta altamente digeribile. Ma ecco la concisa, e tuttavia circostanziata, crestomanzia.
Una tecnica in voga presso le popolazioni costiere consisteva nell’utilizzare le spugne di mare che, messe a essiccare al sole per una dozzina di giorni, venivano introdotte nella vagina alcune ore prima del rapporto per inaridirla; la spugna poteva essere mantenuta in posizione durante il coito, assolvendo la duplice funzione di assorbire gli umori dell’ultima ora e costituire un’efficace barriera anticoncezionale. In caso di congiunture eccezionalmente sfavorevoli, in cui al funzionamento imperfetto come contraccettivo si abbinava il fortuito sospingimento della spugna a profondità non sondabili con i mezzi a disposizione dello stregone, si rischiava d’incappare nella nascita di bambini con la struttura ossea completamente molle, i quali venivano considerati creature ultraterrene e conservati all’interno di vasi contenitivi in terracotta da cui sporgeva la soffice testa oggetto di venerazione. Raramente essi vivevano a lungo: le gengive erano talmente morbide che anziché suggere latte dal seno materno offrivano la possibilità ai capezzoli di drenare liquidi dal corpo del neonato fino a condurlo alla morte; in questi casi la testa che fuorusciva dal vaso smarriva la funzione di connettore col divino per assolvere quella più mondana di catalizzatore della coesione sociale sotto forma di pallone di spugna.
Presso alcuni clan della foresta pluviale venivano adoperate piccole cannule di bambù per il drenaggio delle secrezioni, affidato all’indefessa attività suttoria condotta delle giovani non ancora in età pubere, coinvolte in una sorta di rito d’iniziazione attraverso il quale si preparavano a diventare donne. Altrove era invalso il ricorso a erbe urticanti che procuravano un’ustione delle mucose interne facendole raggrinzire e accrescendo in tal modo il livello di stimolazione. Le tribù degli acquitrini usavano rivestire le pareti della vagina con uno strato di argilla, che portavano a essicazione rapida mediante l’introduzione di braci: le screpolature a spigolo vivo che si formavano facevano la felicità dei guerrieri, ai quali piaceva ostentare i membri straziati dagli amplessi. Abbastanza diffusa era l’adozione di un impasto di colla di pesce e sabbia quarzifera che veniva colato nella donna la quale, avvitandosi su se stessa in posizione orizzontale, ne favoriva la distribuzione uniforme sulle pareti prima della solidificazione: durante la fornicazione l’attrito offerto dai granelli era così accentuato che sono riconducibili a questa tecnica i primi casi di eiaculatio-precox registrati nell’Africa nera.
La pratica del cosiddetto dry-sex è stata importata in occidente dai frati-missionari non più di un secolo fa e ha conosciuto fortune alterne, prima di cadere nell’oblio a causa dell’emancipazione della donna e delle rivendicazioni di parità in materia di appagamento sessuale. In ogni caso, coloro che insistono nel volerla esercitare, sempre più spesso con professioniste pagate lautamente e capaci di accumulare fortune grazie alla disparità, possono contare su materiali e tecnologie all’avanguardia. Si va dall’irrigatore vaginale che atomizza un amalgama abrasivo a presa rapida, all’aspira-saliva da odontoiatra con tanto di doppia turbina ad alto rendimento; per spingersi fino al marchingegno in grado di portare in depressione la vagina sfruttando l’effetto stantuffo e renderla un tutt’uno con il pene. Quest’ultimo metodo consente, sebbene al prezzo di uno sforzo immane, movimenti relativi tra le parti dell’ordine di una grandezza cellulare: una peculiarità che incontra il favore del gentil sesso, in quanto rende il rapporto poco cruento e pone sullo stesso piano sensitivo le mucose degli amanti.
Di recente si va diffondendo l’uso di preservativi rivestiti di polvere di marmo su entrambe le superfici. E’ una soluzione rapida ed economica che riscuote il favore degli appassionati d’ambo i sessi: l’unico inconveniente è che in caso di rottura accidentale il neonato che vedrà la luce sarà al gratin.
Tag: Eusebio Gnirro, Turi Totore
20 giugno 2016 alle 21:19
[…] Nato in un continente dove a volte la sofferenza è, giocoforza, elevata al rango di piacere, questo è un Mal d’Africa tutt’altro che […]
20 giugno 2016 alle 21:59
Ma che è? Un vademecum per il perfetto sadico? Oppure un manuale di torture asiatiche da applicare alla nuova generazione di soldatesse in caso di invasione. Le altre pratiche avevano una buona dose di ironia, ma questa è agghiacciante! *O* Da paura!
21 giugno 2016 alle 08:04
Un fucktotum.
21 giugno 2016 alle 08:58
RobySan, alla revisione prima della pubblicazione ti plagerò
21 giugno 2016 alle 09:29
Non è tanto divertente, questa serie (secondo me).
21 giugno 2016 alle 13:01
Totò, almeno una birra!
21 giugno 2016 alle 14:36
Alexali: non mi pare abbia lo scopo di essere divertente, questa serie.
21 giugno 2016 alle 17:25
Sebbene non sia mio costume parlare per conto terzi ritengo, in questa peculiare fattispecie, di fare un’eccezione. Ho dalla mia il colloquio precontrattuale avuto con Eusebio, prima di aprirgli le porte dell’officina per le diciassette mezze mattine in cui ha atteso alla scrittura del Sommario.
La discussione aveva preso spunto da un articolo che entrambi avevamo letto, parecchi anni prima, ma di cui non ricordavamo quale fosse il giornale che l’aveva pubblicato e chi l’autore. Una faccenda marginale, visto che rammentavano il contenuto. La tesi sostenuta in quel trafiletto (ah, ricordo in questo istante (com’è vero che lo scrivere viene prima del pensare), che si intitolava “La sessualizzazione coatta del tutto”); la tesi sostenuta era che i due più noti scrittori italiani della prima metà della seconda metà del novecento avessero epitaffiato le carriere con opere d’impianto sostanzialmente (che brutto avverbio) pornografico (che bel sostantivo). Il primo, in Petrolio, elargiva al proprio pubblico postumo una sequenza in cui il protagonista (il signor Petrolio ca va sans dire) praticava una serie di fellatio a beneficio di una trentina di borgatari; mentre il secondo, nella raccolta di racconti intitolati La cosa, descriveva teneri (si fa per dire) convegni carnali tra una distinta signora e un discinto cavallo, tra una bambina e il diavolo etc..
Sia io che Eusebio avevamo convenuto sul fatto che la pornografia (ecco, mi sono ricordato il nome del recensore de “La sessualizzazione coatta del tutto”: si trattava di Ottavio Bissolati, padre del più noto Ennio) era rimasto l’unico approdo sicuro in un mondo dove non c’erano più certezze. Un equilibrio durato millenni era venuto meno e le cose cominciava a mutare così rapidamente che il concetto stesso di mutamento stava perdendo senso. Niente era più al sicuro, ogni cosa appariva in pericolo o pericolante; l’unico appiglio solido era rappresentato dalla pornografia.
Avete mai visto un film hard in cui l’interprete soffra d’impotenza? o la protagonista sia frigida e rimanga sulle sue per tutta la durata della scena? o ci sia qualcuno che non goda? che non muggisca? o che almeno mugoli come un mortale in punto di morte?
I film pornografici, la cui ripetitività fa inorridire qualsiasi esteta, hanno nella ripetitività la loro forza d’attrazione. E tanto più essa è insistita e manifesta, come nei primi piani in cui un creapopoli (prendo il termine in prestito dal petrolifero) entra ed esce dalla cosa, tanto più essa è appezzata dal pornofilo.
Ci sarà un motivo se ogni giorno un miliardo e passa di persone consuma materiale pornografico? Ci sarà una ragione se “cazzo” e “figa” sono gli intercalari più diffusi nel nostro paese e la maggior parte delle conversazioni ripropongono a livello verbale le confricazioni di cui sopra?
Ma qual è il motivo, quale la ragione per cui mi sono impelagato in questa dissertazione?
21 giugno 2016 alle 18:44
“ 31 ottobre 1994 – « Treviso – Un agricoltore di Bavaria di Nervesa della Battaglia (TV), Lucio Callegari, ha presentato ai carabinieri una denuncia contro ignoti riferendo che una o più persone sono entrate nella sua stalla, abusando di una vitella. Secondo quanto si è appreso, l’allevatore ha trovato l’animale disteso a terra e legato con uno spago alle quattro zampe. Accanto al bovino è stato rinvenuto un giornale pornografico. Il veterinario, chiamato dall’agricoltore, ha confermato la violenza subita dall’animale, una vitella di razza pezzata rossa, che divideva la stalla con un’altra dozzina di vitelle e 18 mucche da latte. » (Dai giornali) “ [*]
[*] Lsds / 73…
22 giugno 2016 alle 07:28
mi vengono in mente certi racconti che ho letto mi pare l’anno scorso o due anni in un libretto intitolato Oh Lady Gaga con feti deformi budella e poi sesso assurdo (ne avevo già parlato qui in commento perché mi era parso molto interessante, originale)
(Giusta la precisazione: non si tratta di divertire, anche se ho letto solo questa delle maialate, stassera leggo le altre).
22 giugno 2016 alle 14:02
Mah!
23 giugno 2016 alle 09:10
Mi domando seriamente,Giulio, quale sia la valenza di arricchimento culturale, spitituale od altro,di questo “filone”. E cosa possa significare per te porgere questo genere di letteratura, o informazione culturale. Davvero mi chiedo se sono io a non captare il messaggio o se ci risiamo con il re nudo. Tra l’altro mi chiedo se le mie antenne si sono impolverate e vado un pò in confusione. Un abbraccio , comunque,da una matta fuori tempo o fuori blog.
23 giugno 2016 alle 09:53
Matta: esiste un’ampia tradizione letteraria. Vedi a es. il Belli:
Er padre de li santi
Er cazzo se po’ ddì radica, uscello,
Cicio, nerbo, tortore, pennarolo,
Pezzo-de-carne, manico, cetrolo,
Asperge, cucuzzola e stennarello.
Cavicchio, canaletto e cchiavistello,
Er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
Attaccapanni, moccolo, bbrugnolo,
Inguilla, torciorello e mmanganello.
Zeppa e batocco, cavola e tturaccio,
E maritozzo, e cannella, e ppipino,
E ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.
Poi scafa, canocchiale, arma, bbambino.
Poi torzo, crescimmano, catenaccio,
Minnola, e mi’-fratello-piccinino.
E tte lascio perzino,
Ch’er mi’ dottore lo chiama cotale,
Fallo, asta, verga e membro naturale.
Quer vecchio de spezziale
Dice Priapo; e la su’ mojje pene,
Segno per dio che nun je torna bene.
A me sembra interessante la commistione linguistica che il Nostro riesce a produrre. In poche righe trovo “atomizza un amalgama abrasivo a presa rapida”, “doppia turbina ad alto rendimento”, “movimenti relativi tra le parti dell’ordine di una grandezza cellulare”, e così via. Non è esattamente “divertente” (come notava prima Alexali), anche perché il gioco è dell’ordine della freddura; ma a me interessa, come ho detto, e per di più mi piace.
(Se poi i testi ti sembrano brutti, allora è un altro paio di maniche: e io non ho niente da dire, perché – come ripeto spesso – non credo che i giudizi di valore si possano seriamente argomentare).
23 giugno 2016 alle 12:41
“ Domenica 20 settembre 1998 – Quando ieri sera ho visto Michele Placido che recita ai ragazzi detenuti il celebre quasi scontato sonetto del Belli che dice: « Er cazzo se po’ dì… » (Mery per sempre, Marco Risi, 1989), mi è sembrato di capire che Poveri ma belli (Dino Risi, 1956) ha sempre voluto dire qualcosa di più che « poveri ma belli ». Almeno per i Risi. « Risi nel senso di ridere? » Ecco, bravo. “. [*]
[*] Lsds / 73…
23 giugno 2016 alle 12:42
Almeno il sonetto del Belli ha il pregio di un’aderenza al dialetto puro e si fa gustare come ricerca del romanesco puro.Acquista quindi una valenza non volgare nè compiaciuta della volgarità.Un pò come quando le persone di rango dicono cazzo e nessuno se ne accorge. L’importante è non percepire un compiaciuto godimento nel rotolarsi nel fango (stiamo parlando di maialate,no? ). Penso ci siano molti altri modi per sentirsi appagati. Se questa è la normalità chiedo scusa a questa comunità e mi dichiaro ufficialmente LA MATTA
23 giugno 2016 alle 13:19
No: questa non è la normalità. Perché mai dovrebbe esserlo? Non ne vedo i sintomi.
Gnirro non usa il dialetto ma i linguaggi specialistici. Non è un’operazione tanto differente. (E a me non pare volgare, e quindi nemmeno “compiaciuto della volgarità”).
23 giugno 2016 alle 15:17
“ Mercoledì 3 febbraio 1999 – Di quel sonetto del Belli che ieri ho letto in uno scritto di Giorgio Vigolo in «Il Tesoretto» 1941 – Il nostro Belli immortale – e che, lo ricordo benissimo, è lo stesso che mi diceva sempre il mio amico quando lo venivo a trovare a Roma – lui stava a Roma, ma, come me che ci venivo, non era di Roma, ma veniva da dove venivo io – dove è poi tornato, lui -, stamani ricordo soltanto la prima quartina, anzi una sola parola di quei primi quattro versi: « Ffora » (« Cuattro angioloni co’ le trombe in bocca / Se metteranno uno pe’ ccantone / A ssonà: poi co’ ttanto de voscione / Cominceranno a ddì: “ Ffora a cchi ttocca “ ». (Giuseppe Gioachino Belli, Er giorno der giudizzio, 25 novembre 1831)) “ [*] [**]
[*] Lsds / 73…
[**] A proposito di Brexit?
24 giugno 2016 alle 14:46
Stimato Acabarra, ma perchè diavolo ,secondo Lei, il Nostro ha scomodato gli angioloni del Giudizio per soffiare le trombe del “ffora a cchi tocca ” e il folle che vuole l’Exit ha ucciso la deputatessa? Trovo più spassoso e arguto il villico siciliano che alla domanda del deputato che lodava l’agire libero di una donna e ne chiedeva un giudizio equo e moderno, rispondeva con voce chiara e ferma : – Bottana! – Così ,senza nulla aggiungere nè togliere. E senza giri di parole. Nè asterischi. ( vedi ” Divorzio all’italiana” ). Potenza della tromba…pardon, della coppola! Matta
26 giugno 2016 alle 13:50
Ciao Giulio,
Scrivi: “come ripeto spesso – non credo che i giudizi di valore si possano seriamente argomentare).”
Potresti averlo detto altrove, ma non ne trovo l’evidenza: quali sono secondo te i giudizi che si possono seriamente argomentare? Vale a dire, qual è la tua definizione di “valore”?
26 giugno 2016 alle 14:45
Intendo – per quel che ci interessa qui – i giudizi del tipo: “Questo è bello, questo è brutto”.
26 giugno 2016 alle 20:02
D’accordo, quel che ci interessa qui è ovvio (almeno per me). Mi interessava approfondire la questione del valore, e del giudizio di valore, e del giudizio che non è di valore. Una questione da approfondire o allargare. Magari un’altra volta?
27 giugno 2016 alle 06:19
ParsifalNot: per “giudizio di valore” intendo un giudizio non classificatorio (sono giudizi classificatori: “Rocy è un pugile”, “Buck è un cane”, “I promessi sposi è un romanzo”, “L’idrogeno è un elemento”) che abbia però la forma di un giudizio classificatorio. Tipo: “Amare la mamma è giusto”, “Fare sport fa bene”, “I promessi sposi è un capolavoro”.
Dico che questi ultimi non sono giudizi classificatori perché non è possibile descrivere con sicurezza gli insiemi delle “cose che sono giuste”, delle “cose che fanno bene”, e delle “opere che son capolavori”, ovvero non è possibile definire con sicurezza il “giusto”, il “bene” e la “capolavoricità”.
Molte discussioni finiscono in accapigliamenti perché si fanno affermazioni del tipo: “Questo romanzo è brutto: non è letteratura”, dimenticando che il giudizio di valore (“E’ brutto”) e il giudizio classificatorio (“E’ letteratura”, ossia è un’opera composta di parole eccetera) sono due cose diverse.
30 giugno 2016 alle 11:59
Grazie! Ovviamente si potrebbe sostenere che anche i giudizi classificatori non possono essere seriamente argomentati. Per restare nell’esempio, “letteratura”: a seconda della definizione accettata, cambia la classificazione, dunque le argomentazioni che se ne possono trarre.
Vale a dire: finché “non è possibile descrivere con sicurezza gli insiemi delle cose” in gioco, forse non è possibile contare sulla categoria “giudizio”.
30 giugno 2016 alle 12:12
E’ per questo, Parsifal, che da tempo cerco di adoperare una definizione davvero minima: letteratura è qualcosa di scritto.