[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
Nell’autunno del 1957, quando ero ancora un giovane studente di ingegneria delle materie plastiche, finii una sera a bere in una sordida osteria, in compagnia di quattro o cinque colleghi di studi dalla leggendaria astinenza (dagli studi, non dall’alcol). Cominciammo alle ventidue circa. Alle quattro del mattino rimanevamo in piedi in due: io, che avevo bevuto solo tè, e il vecchio Boris, che aveva bevuto qualunque cosa in quantità smisurate. Boris non era tipo da confidenze; eppure quella sera, nell’osteria ormai trasformata in un rantolante dormitorio (l’oste stesso dormiva – e russava -, su una sedia a dondolo opportunamente posta davanti alla porta – vedi mai che la clientela se ne vada di soppiatto e senza pagare) all’improvviso mi disse: “Ennio, devo raccontarti una cosa”. “Dimmi”, gli dissi. “E’ un segreto”, disse il vecchio Boris. “Non dirmelo”, risposi. “No”, disse ancora il vecchio Boris, “a te te lo devo dire”. “E allora dimmi”, dissi, “e ti prometto che non dirò nulla a nessuno”. “Stavo per chiedertelo, infatti”, disse il vecchio Boris. “E allora su, forza”, dissi: e mi disposi ad ascoltare. “Ho conosciuto una donna che vive nuda”, cominciò Boris.
La memoria, come potete immaginare, è il principale strumento di lavoro del bibliofilo: e io quella storia me la ricordo, perfettamente, per filo e per segno, come me l’avessero raccontata ieri. Ma a voi non la racconterò: ho preso un impegno solenne. Vi racconterò, invece, quest’altra storia: nel 1972, a Valenza Po, dove mi ero recato per trattare l’acquisto di un’importante partita di bachi da seta, inciampai sul bordo d’un marciapiede e mi procurai una piccola ferita alla fronte. Al pronto soccorso, dove il venditore si era ostinato a volermi condurre nonostante la lieve entità del danno, assistemmo all’arrivo di una bussola tutta ricoperta di veli neri: così che era impossibile vedere la persona trasportata. I due validissimi portantini parlarono brevemente con l’infermiere del triage e la bussola, così com’era arrivata, fu fatta subito passare. Nessuno sembrò stupirsi di quello che a me parve uno spettacolo assai singolare. Il mio accompagnatore anticipò la mia curiosità: “Qui la conoscono tutti”, disse, “si tratta di una signora che vive nuda”. “Nuda?”, trasalii, ricordando la confidenza del vecchio Boris (dal quale, terminata l’università – io: lui contava che la pazienza dei genitori gli avrebbe consentito almeno un paio d’anni di ulteriore vita studentesca – mi ero congedato nel 1961: e non ne avevo saputo più nulla). “Sì”, disse il mio accompagnatore, “nuda. Non ha mai indossato nulla in vita sua. O almeno così si dice”. “Ma qualcuno l’ha mai vista?”, domandai. “Io no”, disse il mio accompagnatore, “ma mia seconda cugina è la sua cuoca”. “E’ una signora benestante”, considerai, “se può permettersi personale di servizio”. “I portantini che ha appena visto”, cominciò a contare sulle dita il mio accompagnatore, “mia cugina cuoca, che fa tre; un’altra donna per le pulizie, sempre del paese, quattro; e una dama di compagnia, francese, che ogni tanto si fa vedere in giro: ma proprio ogni tanto. Gente riservata”, concluse, e si capiva che intendeva dire: gente spocchiosa. “Una dama di compagnia francese”, commentai; “ma la signora è francese?”. “Come no!”, disse il mio accompagnatore, “Non gliel’avevo detto?”. “No”, dissi. “E’ francese, ma ha un cognome tedesco”, disse il mio accompagnatore. “Alsaziana?”, provai. “Forse”. “Ma come mai vive nuda?”. “Non si sa”. “Cioè, non si sa se è per un fatto di salute, tipo un’allergia, o per una scelta sua?”. “Non si sa”. “Ma lei come fa a sapere che vive nuda?”. “Lo sanno tutti, qui”. “E che ci fa a Valenza Po, una signora probabilmente alsaziana che vive nuda?”. Il mio accompagnatore allargò le braccia: “Cosa vuole che le dica, signor Bissolati. Il mondo è pieno di gente strana”.
Non sto a tediarvi con le successive apparizioni della donna nuda. Me ne parlò nel 1984, in uno scantinato di Milano, un produttore di immaginette ricordo magnetizzate (quelle che si appiccicano al frigorifero, per intendersi, e recano immagini appena un po’ più terribili di quelle delle cartoline): a sentir lui, si trattava di un’ereditiera bizzarra e nulla più. Frequentava un corso di yoga, con lezioni ovviamente individuali, presso la stessa comunità buddista alla quale – lo scoprii in quel preciso momento – egli stesso aderiva. Nel 1996 fui io stesso a intravvederla, o almeno a intravvedere una bussola del tutto identica a quella apparsa nel pronto soccorso di Valenza Po: l’incontro avvenne a Sebastopoli, dove mi ero recato in viaggio d’istruzione. La seguii, cercando di tenere il passo degli erculei portantini, fino al portone dell’albergo: non osai, però, entrare e chiedere di lei (anche perché il portiere dell’albergo aveva la faccia da molosso, e un fisico tale da far apparire mingherlini anche i due giovanotti al servizio della signora). E poi nel 2002, a Cerveteri, me ne parlò un filosofo metafisico; nel 2009, a Bagnoli, me ne parlò un fotografo che aveva cercato invano di ritrarla. “Ma le parlai al telefono”, disse, “e credo di essere stato l’unico nel giro di vent’anni”.
E dunque. La stessa storia che mi raccontò Boris, la trovo in questo agile libretto. Tale e quale. Se a qualcuno venisse in mente di controllare se esista al mondo una persona rispondente al nome di Eva Bèn: ho già controllato. La risposta è no.
Buona lettura, dunque.
17 giugno 2016 alle 22:55
Squisito sig. Ennio, le potrei presentare la di lei cugina Emma Valà. Vive nel citofono del mio condominio, forse può aiutarla.