In un episodio del Genji Monogatari (capitolo 50, Azumaya), la principessa Nakanokimi e sua sorella Ukifune guardano illustrazioni di vecchi racconti, mentre la cameriera Ukon ne legge ad alta voce i testi. Accostare parole e immagini è stata pratica comune, in Giappone, fin dalla nascita di una letteratura nazionale. Monogatari (romanzi) e nikki (diari) erano solitamente abbelliti da illustrazioni pittoriche: su rotoli, su libri e su grandi paraventi, scorrevoli e pieghevoli. Questa lista (non esaustiva e molto arbitraria) è nata seguendo lo stesso principio: buona lettura e buona visione, dunque.
1. Murasaki Shikibu, Genji Monogatari (源氏物語). Se la presenza di tutte le altre opere che qui elencherò può essere opinabile, sul Genji Monogatari, il classico per eccellenza della letteratura giapponese, non si discute. Scritto nell’XI secolo da una dama di corte, s’inserisce nella feconda produzione letteraria femminile che interessò il periodo Heian. Le donne dei nikki e dei monogatari appartenevano alla media aristocrazia: confinate in dimore principesche ma inaccessibili, escluse dalla partecipazione al potere, rassegnate a condividere esperienze ed emozioni solamente con donne della stessa condizione, trovavano sfogo nell’estetizzazione del microcosmo che, come una crisalide dorata, le avvolgeva. Non potendo avere alcuna influenza su di un mondo che le voleva solo aggraziate spettatrici, lo osservavano e interpretavano, affidando pensieri e riflessioni al pennello che tracciava svelto, sul foglio, i kana (caratteri dell’alfabeto sillabico giapponese; ai soli uomini erano riservati i kanji, caratteri cinesi). Per anni costretti a una traduzione di traduzione (il riferimento è stato sempre la versione inglese di Arthur Waley), possiamo ora goderci il Genji Monogatari tradotto direttamente dal giapponese antico: La storia di Genji, a cura di Maria Teresa Orsi, è uscita nel 2012 per Einaudi. È un’opera lunghetta, questo sì (1440 pagine, fra introduzione e paratesto).
2. Sei Shōnagon, Makura no Sōshi (枕草子). Poteva mancare, in una lista, un libro che parla di liste? Scritto nel 1005 dalla dama di compagnia dell’imperatrice Teishi (ci troviamo, dunque, nello stesso contesto già descritto per il Genji Monogatari) contiene trecentodiciassette capitoli di lunghezza variabile, da poche righe a qualche pagina. La descrizione di episodi di corte e le considerazioni estetiche si alternano alle liste: di cose splendide, di cose spiacevoli, di cose tristi, eccetera. Il Makura no Sōshi contiene uno dei più famosi incipit di tutta la letteratura giapponese: «L’aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle montagne, sempre più luminoso, e nuvole rosa si accavallano snelle e leggere». «Lo spirito di Sei Shōnagon» ebbe a dirne Yukio Mishima, «isola, nel fluire dell’esistenza umana, un attimo, uno stato d’animo, e poi lo combina con immagini di raffinata sensibilità estetica». Il Makura no Sōshi si può leggere nella traduzione di Lydia Origlia. Il titolo è: Note del guanciale, ed è edito da SE.
3. Yoshida Kenkō, Tsurezure-gusa (徒然草). Dietro questo testo, scritto fra il 1330 e il 1332, c’è una leggenda: il monaco buddhista Kenkō avrebbe incollato le strisce di carta che contenevano i singoli brani dell’opera sulle pareti di casa propria. Dopo la morte, i discepoli avrebbero messo insieme i frammenti per dar luce al libro che oggi teniamo fra le mani. Lo Tsurezure-gusa, che conserva dunque questo carattere di non finito, non perfettamente formato, incarna un ideale estetico che i giapponesi definiscono: yūgen (da yū: impercettibile, invisibile, quiete; e gen: nero, oscuro, profondo, impenetrabile). Secondo lo yūgen, l’arte del poeta non consiste nell’esprimere direttamente i propri sentimenti, ma nel nasconderli sotto la superficie di una forma facile, di un gioco di parole attraente, lasciando il ruolo disvelatore alla suggestività simbolica delle immagini («Si devono forse ammirare i fiori solo quando sono in pieno rigoglio e la luna solo se è tersa?»). Lo Tsurezure-gusa è pubblicato da Adelphi con il titolo: Momenti d’ozio. La traduzione è di Adriana Motti.
4. Matsuo Bashō, Elogio della quiete. Bashō è probabilmente il più famoso autore di haiku. Nato nel 1644, terzogenito di un samurai di campagna, Bashō cambiò nome una ventina di volte. Nel 1680, si trasferì in una piccola e malsana capanna a Fukagawa, nella zona settentrionale di Edo (l’odierna Tōkyō): era un luogo umido e freddo, senza neppure l’acqua potabile; da lì, però, si vedevano il profilo innevato del monte Fuji e i canneti del fiume Sumida, illuminati dalla luna. Vicino alla capanna, Bashō piantò un banano: una pianta rigogliosa e di grande bellezza, ma che non fruttificava, dunque sostanzialmente inutile. E proprio da quella pianta Bashō prese il nome definitivo: forse per evocare la sua inutilità come poeta, forse per manifestare amore per le cose inutili. In Elogio della quiete si alternano haiku a pezzi di diario. Si parla di solitudine, di caducità della vita, di vecchiaia («che sopraggiunge rapida come il sogno di una notte»). Le note al testo sono molte (e necessarie): non può dirsi una lettura scorrevole. Elogio della quiete è uno di quei testi che ti fanno sudare, che richiedono grande pazienza, ma che, alla fine, ti ricompensano di tutto.
5. Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Nō. Narra la leggenda (e il Kojiki) che la dea Amaterasu, offesa dalle intemperanze del fratello Susanoo, si nascose in una grotta privando il mondo della luce del sole. Per convincerla a uscire, la dea Ame no Uzume si prodigò in una danza sconcia. Lo stratagemma funzionò: le risa delle altre divinità incuriosirono Amaterasu, che rinunciò al suo orgoglioso isolamento. Questo episodio viene fatto coincidere con la prima espressione del teatro giapponese e del Nō stesso, che può essere definito un «lungo poema cantato e mimato, con accompagnamento orchestrale, generalmente interrotto da una o più danze che possono non avere rapporto alcuno con l’argomento». Il segreto del teatro Nō, raccolta di trattati di Zeami (figlio del capostipite della più celebre tra le scuole di attori di Nō oggi esistenti), rappresenta una delle migliori introduzioni all’estetica giapponese (nonché un eccezionale manuale di retorica involontario). Il libro, a cura di René Sieffert, è edito da Adelphi.
6. Ryūnosuke Akutagawa, Rashōmon e altri racconti. A Rashōmon (羅生門) si è ispirato Kurosawa per l’omonimo film (la cui trama è tratta però da Yabu no naka – Nel bosco – 藪の中, sempre contenuto in questa raccolta). Tutti i racconti sono molto belli. Delicatissimo (e, per noi, forse disturbante) è Nankin no Kirisuto (Gesù di Nanchino – 南京の基督): Song Jinhua è una giovanissima prostituta cattolica che si ammala di sifilide. Per evitare di contagiare i clienti, si astiene da ogni rapporto sessuale. Una notte, Gesù le compare sotto le sembianze di uno straniero che, facendo l’amore con lei, la guarisce completamente. Pur interessato al Cristianesimo (ne parlò in diversi racconti), Akutagawa non si convertì mai. Rashōmon e altri racconti, edito da Tea, è purtroppo fuori catalogo. Dovrebbe uscire una ristampa per Einaudi. Nel frattempo, si possono ascoltare alcune letture di Elisabetta Piccolomini qui.
7. Yukio Mishima, La dimora della bambole. Yume utsutsu (sogno e realtà) era un’espressione molto amata dagli antichi poeti e letterati giapponesi. Yume utsutsu è quella nebbia indistinta in cui sfuma ogni antitesi: realtà e finzione, vita e morte, alba e crepuscolo. Quest’atmosfera sospesa permea tutti e cinque i racconti della raccolta; oltre a ciò, la consapevolezza della fragilità della vita, effimera come rugiada, che dona nobiltà alle passioni: si ama, si odia, si agisce, consci della vanità del tutto. In Hina no yado (La dimora delle bambole – 雛の宿), la scena in cui madre e figlia aspettano, sedute davanti all’altare, l’arrivo dell’Imperatore, in una Festa delle bambole senza fine, è probabilmente la più suggestiva di tutto il testo. La mia edizione, tradotta da Lydia Origlia, è edita da SE.
8. Immagini scritte: calligrafia giapponese moderna. La scrittura giapponese non va solo letta, ma anche guardata. Ci sono molti bei libri di shodō (calligrafia giapponese). Quello che ho io, edito dall’Istituto Giapponese di Cultura di Roma, ha il pregio del grande formato, che valorizza il contenuto.
9. Gō Nagai, Devilman (デビルマン). Si può parlare di libri giapponesi senza parlare di manga? No, non si può. E dunque: c’è stato un tempo (parlo della metà degli anni Novanta) in cui acquistare manga in edicola significava avventurarsi nella sezione dei giornaletti porno (ed essendo io una ragazza, la cosa era oltremodo sospetta). Ma quel tempo è passato: i manga sono oggi un fenomeno pop. Eppure quello che preferisco (e che consiglio) continua a essere il primo che comprai. Con Devilman, Nagai crea un’opera di forte critica sociale: il clima da caccia alla streghe (o da peste manzoniana, con la fobia dell’untore) è tratteggiato grazie a uno stile cupo, sporco, espressionista, ma allo stesso tempo ricercato. Evidenti le influenze dalla Divina commedia illustrata da Gustave Doré. Devilman è stato ristampato diverse volte. L’ultima edizione è della J-Pop, in cinque volumi.
10. Siegfried Wichmann, Giapponismo. L’ultimo testo è un intruso: non un libro giapponese, bensì un libro sul Giappone. O meglio: sull’influenza che ha avuto l’arte giapponese sull’arte e la cultura occidentale a partire dalla metà dell’Ottocento. Un libro-catalogo magnifico, tutto da leggere e da guardare. Ogni pagina è una sorpresa: c’è un poco di Giappone nella nostra architettura, nel nostro disegno industriale, nel nostro abbigliamento, persino nelle nostre scelte tipografiche. Il Giapponismo di Wichmann, edito da Fabbri, è, purtroppo, fuori catalogo. Se avete fortuna, lo trovate in qualche mercatino o vecchia libreria: nel caso, non lasciatevelo scappare.
8 Maggio 2016 alle 09:31
Che meraviglia questa lista, grazie! Sul tema dell’influenza dell’arte giapponese su quella occidentale (in particolare sulla cultura francese dell’Ottocento) ho trovato molto illuminante “Un’eredità di avorio e ambra” di Edmund de Waal.
8 Maggio 2016 alle 10:05
Super! Grazie
8 Maggio 2016 alle 10:09
Grazie davvero! un po’ alla volta magari completiamo con quello che abbiamo già. A me erano piaciute molto le paginette di Tanizaki in “Libro d”Ombra”
8 Maggio 2016 alle 10:34
Molto banalmente, di fronte a queste meraviglie a me sconosciute, vorrei vivere a lungo per avere il tempo di leggerle. Grazie
8 Maggio 2016 alle 11:03
Molto interessante.
8 Maggio 2016 alle 12:26
Io toglierei uno dei primi tre e inserirei “Musashi”, di Yoshikawa Eiji, un’opera essenziale per capire l’epoca dei Ronin…E Murakami? “Kafka sulla spiaggia” capolavoro assoluto.
8 Maggio 2016 alle 13:05
“ 3 febbraio 1994 – « 4 settembre 1938 – I giapponesi hanno dato a una loro cittadina il nome di Sweden, e ciò permette ad essi di stampare sulle scatole di fiammiferi fabbricati in quella città: “ Made in Sweden “, e senz’ombra di bugia. » (Julien Green, Diario) “ [*]
[*] Lsds / 73…
8 Maggio 2016 alle 18:15
Bella lista. Mi permetto di segnalare altri due libri, brevi ma intensi, che, a mio modestissimo parere, possono essere giudicati indispensabili per comprendere a fondo la cultura giapponese. Si tratta di due saggi: il primo è “Il libro del tè” di Okakura Kakuzo, la cui edizione originale apparve a New York nel 1906 in lingua inglese; il secondo è “Libro d’ombra” di Junichiro Tanizaki, pubblicato a Tokyo nel 1933. Entrambi sono tradotti in italiano, l’uno da Suguarco, l’altro da Bompiani. Cordialmente. ND
8 Maggio 2016 alle 19:03
C.P. Non conoscevo il libro di de Waal: prendo nota, grazie mille!
Maurizio: sulla non esaustività della lista ho messo le mani avanti fin dall’inizio. Nella mia scelta, peraltro, ho adottato un criterio ben definito: tutti i testi (tranne il libro sulla calligrafia e lo Wickmann, che trovavo però indispensabili), si fanno portavoce di un ideale estetico, più o meno connotato storicamente. Nel “Genji monogatari”, il “mono no aware” del periodo Heian (per “mono no aware” s’intende il turbamento delle cose, ossia: la commozione, la simpatia che le cose, gli altri esseri umani e la natura c’ispirano). Nello “Tsurezure-gusa”, il già descritto “yūgen” del periodo Kamakura-Muromachi (1186-1573). In “Elogio della quiete”, il “wabi sabi” (espressione molto difficile da tradurre; potremmo semplificare dicendo: la bellezza delle cose imperfette, transitorie, incomplete). Nei trattati di Zeami, il “ma” (l’estetica della reticenza: l’idea che, nella scaturigine dell’atto artistico, lo sviluppo più fertile è associativo anziché logico, rappresentativo anziché linguistico, dimensionale anziché lineare e consequenziale). Nei racconti di Akutagawa, l’incontro – problematico e sofferto – con la cultura occidentale, che mette in discussione il ruolo dell’intellettuale e il suo rapporto con la tradizione (non va dimenticato che il cristianesimo, per Akutagawa, era metafora del pensiero occidentale in senso lato; ma della raccolta citata è illuminante anche il racconto intitolato: “Il fazzoletto”). Nei racconti di Mishima, il già descritto “yume utsutsu”. Nei manga, infine, la nipponizzazione della cultura occidentale (il “padre” dei manga, Osamu Tezuka, venne fortemente influenzato dal cinema di animazione della Disney). Secondo questa logica, dunque, avrei potuto (dovuto?) sostituire il “Makura no Sōshi” con il “Manyōshū”, antologia poetica compilata nell’epoca Nara (710-784) che incarna l’estetica del “makoto” (verità, sincerità: esalta l’estrinsecazione dell’emotività in modo vigoroso, schietto e immediato). E perché, dunque? Perché il Makura no Sōshi è semplicemente bellissimo: amo questo testo fin dai tempi dell’università, e quando t’innamori di un libro non c’è logica o buon senso che tengano. Quanto a Yoshikawa Eiji: se l’intento è quello di presentare il Bushidō (la via del guerriero), è più opportuno, a mio avviso, consigliare lo “Hagakure” di Yamamoto Tsunetomo. Murakami (così come Banana Yoshimoto) sono talmente conosciuti che non mi pareva di far gran peccato, astenendomi dal citarli. E comunque, fra gli illustri assenti (con sole dieci sedie, che parecchi finiscano col restare in piedi è inevitabile), avrei privilegiato Yasunari Kawabata, Natsume Sōseki e Kenzaburō Ōe. Un testo che realmente manca? Un libro di cucina: importantissimo per capire l’estetica giapponese (molto belli quelli di Graziana Canova Tura). [scusate, forse, la pedanteria]
8 Maggio 2016 alle 20:53
Nicola: su Okakura e Tanizaki sono assolutamente d’accordo.
9 Maggio 2016 alle 07:33
[…] di letture e scritture a cura di giulio mozzi « Dieci libri giapponesi veramente indispensabili (anche per chi non abbia intenzione di diventare&nbs… […]
10 Maggio 2016 alle 08:16
Questa è la lista più bella che ha scritto (finora), Mozzi. Grazie
10 Maggio 2016 alle 08:19
Aggiungo che di “Note del guanciale” (ovvero “I racconti del cuscino”) esiste un bel film di Peter Greenaway del 1994.
10 Maggio 2016 alle 08:33
“ 14 settembre 1994 – « Scrivo il diario perché lo scrivere m’interessa di per sé. Non perché altri lo legga. Avendo la vista paurosamente deteriorata non posso leggere quanto e come vorrei. Non ho altri modi di passare il tempo. E per colmare questo vuoto mi viene continuamente il desiderio di scrivere. Per poter rileggere facilmente, scrivo con il pennello a caratteri grandi. Non volendo che altri li legga, ho rinchiuso i diari in una piccola cassaforte portatile. Ce ne sono già cinque, di queste casseforti. Alla fine penso che sia meglio bruciarli tutti, ma non è male nemmeno lasciarli. Di tanto in tanto tiro fuori i diari precedenti ma leggendo mi stupisco che la mia memoria sia diventata così corta. Gli avvenimenti d’un anno fa mi sembrano completamente nuovi e leggendoli provo un piacere infinito. » (Junichiro Tanizaki, Diario di un vecchio pazzo, 1962) [*]
[*] Lsds / 73…
10 Maggio 2016 alle 16:53
(Altri) Dieci libri giapponesi veramente indispensabili 🙂
– Ihara Saikaku, Storie di mercanti
– Isoda Dōya, Chikusai il ciarlatano
– Endo Shūsaku, Silenzio
– Murasaki Shikibu, Diario di Murasaki Shikibu
– Kojiki
– Utamaro, Il canto della voluttà
– R. A. B. Ponsonby-Fane, Studies In Shinto & Shrines
– Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico
– I Racconti di Ise
– Daniele Sestili, Musica e danza del principe Genji: le arti dello spettacolo nell’antico Giappone
15 Maggio 2016 alle 20:33
Questo elenco mi pare un piccolo scrigno socchiuso. Certamente contiene punti di arrivo e non di partenza. Intanto lo leggerò più volte perché già così mi affascina. Poi credo che partirò da Matsuo Basho che conosco per gli haiku. O Giulio, grazie. Matta
25 luglio 2016 alle 11:44
[…] https://vibrisse.wordpress.com/2016/05/08/dieci-libri-giapponesi-veramente-indispensabili-anche-per-… […]