[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
E’ nota l’ammirazione del curatore di vibrisse, che Dio ce lo conservi, per un libricino qualche anno fa pubblicato, e più recentemente ripubblicato, dell’Ermanno Cavazzoni da Bologna; titolato: Gli scrittori inutili. Nella limpida casistica del Cavazzoni, l’illustre Mozzi si è riconosciuto – bontà sua – nella casella degli scrittori in disuso (e il Cavazzoni mai smentì): ed è forte di tanta spregiudicata autocoscienza che il vostro bibliofilo, umilmente, si azzarda a recensire questo torrido pamphlet, dovuto alla penna di un Anonimo (perché il nome, per tacer del cognome, nomina sia pur pudicamente fin troppo) che sicuramente l’intinse nel curaro; e confida che il padrone di casa non se la prenderà.
Della tesi, larvatamente avanzata fin dal titolo dell’opera, non val la pena di parlare. Essa è ciò che tutti pensano, ed è un’applicazione al campo specifico della letteratura di un luogo comune applicabile e comunemente applicato a qualsivoglia arte, mestiere o pratica: chi sa fare fa, chi non sa fare insegna. La scelta di parte dell’Anonimo esige, com’è ovvio che sia, che quanto fatto da colui che insegna sia sistematicamente ignorato o, ove non sia ignorabile, sia liquidato con sentenza sbrigativa e senz’appello. Così, con una prevedibilità che il lettore può immaginarsi, dei romanzi di Alessandro Baricco “non vale neanche la pena di parlare” e quelli di Raul Montanari sono “ciascuno la fotocopia dell’altro”; i racconti di Mozzi sono “la prova che la letteratura minimalista produce una letteratura minima” e quelli di Paolo Cognetti sono “l’imitazione dell’imitazione dell’imitazione dei racconti di Carver, minimalista (e minimo) imitatore di Hemingway”, nonché a sua volta “deplorevolmente compiaciuto della propria attività di insegnante”. Non ce n’è per nessuno, insomma; e gli unici scrittori dall’Anonimo considerati tali, o piuttosto considerati Scrittori, sono quelli che pubblicamente aborrono, o privatamente èvitano, i “famigerati” corsi di “scrittura creativa”. I nomi? L’Anonimo non fa nomi, si limita a definirela categoria: evidentemente terrorizzato dalla pura e semplice possibilità di parlar bene di qualcuno.
Più interessante di questa stanca e retriva ripresa di luoghi comuni potrebbe essere il tentativo, quasi filosofico diremmo, del nostro Anonimo, di dimostrare l’incompatibilità tra l’esercizio della vera arte e l’insegnamento della stessa. Ma l’argomento, ahimè, è tristemente freudiano, o spiritualista, e di un freudianesimo d’accatto, o di uno spiritualismo di terza mano. Eccolo qui, in tutto il suo splendore: se il vero scrittore è colui che “va significando”, ossia trasformando in segni, ciò che “amore” gli “ditta dentro”; ovvero, se il vero scrittore è l’invasato, il predato dalle muse, colui che lascia fare all’inconscio, e così via; è evidente che il vero scrittore non ha nulla da insegnare e non può insegnare nulla, perché nemmeno lui sa che cosa fa, come lo fa, perché lo fa, eccetera eccetera. Mentre, colui che insegna, o crede di sapere (reato gravissimo, a quanto pare, da Socrate in qua) o possiede un sapere meramente tecnico, estraneo all’arte e a ogni forma di vera conoscenza: e ognun vede come in questo ragionamento non vi sia altro che una bignàmica reminiscenza del Gorgia di Platone.
Non sarà certo il vostro bibliofilo ad assumersi la difesa d’ufficio della categoria alla quale appartiene anche colui che ospita questo articolo: qui si è voluto solo mostrare la pochezza e l’inoriginalità degli argomenti portati da chi l’attacca (la categoria, s’intende). Ma immagino che a tali attacchi il Nostro risponderà con un fragoroso silenzio.
Tag: Alessandro Baricco, Alessandro Oldeni, Dante Alighieri, Ernest Hemingway, Ernesto Bignami, Paolo Cognetti, Platone, Raul Montanari, Raymond Carver, Sigmund Freud, Socrate
26 marzo 2016 alle 07:52
26 marzo 2016 alle 07:58
…assordante! Giulio. Tanto che proprio non serve aggiungere altro. 😀
26 marzo 2016 alle 09:25
A mio avviso l’origine della diatriba nasce dall’aggettivo. I corsi di scrittura insegnano a scrivere e per farlo è necessario che l’insegnante lo sappia fare. Esiste una scrittura letteraria, il cui sapere può essere trasmesso. Ma non si può trasmettere la creatività.
Per intenderci. Lo stile di Doblin è stato a suo tempo creativo. Un insegnante può raccontare, spiegare e sviscerare tutto su come scrive Doblin. Ma l’allievo che impara a scrivere come Doblin non diventa creativo.
Quindi, meglio sarebbe definirli corsi di scrittura letteraria e non di scrittura creativa. Anche se ormai il secondo nome identifica più chiaramente del primo di che cosa si tratta!
26 marzo 2016 alle 09:25
Sui giudizi negativi dell’autore non mi esprimo.
26 marzo 2016 alle 09:53
No, Massimo: l’origine della diatriba nasce qualche secolo fa, quando di “scrittura creativa” nessuno si sognava di parlare.
Possiamo segnare come punto d’inizio formale la Querelle des anciens e des modernes (pieno Seicento).
La troviamo dispiegata, la diatriba, in epoca romantica. Quando si cominciò a pensare “che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti” (formula di Giambattista Vico, da considerarsi precursore: e che peraltro insegnò retorica per tutta la vita); e che la poesie consistesse in un “cuore messo a nudo” (formula, poi abusatissima, di Baudelaire).
Il passo successivo è quello dei surrealisti, che escludono (o pretendono di escludere) la razionalità dal processo di creazione di un’opera d’arte.
La versione pop di tutto questo è che l’importante è la “spontaneità”, eccetera.
(Tutto questo è tagliato con l’accetta, sia chiaro).
26 marzo 2016 alle 10:09
(Ah: è tutto da dimostrare che uno scrittore-insegnante sia capace solo d’insegnare a scrivere come scrive lui).
26 marzo 2016 alle 10:30
Sulla poesia: quella, la diatriba. E la tua opinione?
Sullo scrittore-insegnante: ho sempre pensato che fosse il contrario. Io stimo chi ha la capacità di aiutare a “migliorare”, a “trovare” a “far uscire” quel che “è” o che “ha da dare” l’allievo? Sarebbe triste se venissero generate schiere di potenziali scrittori tutti uguali. (E, se posso permettermi – anche se non sono nessuno per giudicare – mi sembra proprio che questo agire non sia assolutamente il tuo, Giulio 🙂 Anzi! Averne di capaci scrittori come te in grado di insegnare indicando la via e non plagiando).
Non da ultimo aggiungo che a me infastidisce parecchio quando il testo di un aspirante assomiglia troppo per stile e/o contenuti a quello dell’insegnante. C’è qualcosa che mi urta. Mi sembra una piaggeria e nel contempo genera l’effetto che mi fa un articolo copiato e firmato da un altro: di solito mi cade la stima per questi aspiranti o giornalisti. Anche se il testo è bello e/o interessante.
26 marzo 2016 alle 12:38
Io non ho detto che un maestro sia in grado di insegnare all’allievo solo il suo modo di scrivere. E se l’ho lasciato intendere non mi sono spiegato bene. Riformulo in maniera più chiara.
Essere guidati attraverso le tecniche e le forme della creatività, in ogni campo, è un passo forse non necessario, ma senza dubbio utilissimo per chi ha l’aspirazione di esprimere sé stesso in un determinato settore. Che possa essere inutile, paradossalmente, è opinione che riguarda solo la scrittura.
Nella musica e ancor di più nelle arti figurative “andare a bottega” per imparare la tecnica è stato ritenuto per secoli cosa normalissima.
Tuttavia per quanto si possa imparare la tecnica, non si può imparare l’alchimia che crea la magia…
Per limitarci al suo corso di scrittura, Giulio, io ho seriamente pensato di frequentarlo perché ho trovato straordinariamente interessanti le sue lezioni on-line. Ma per lo stesso motivo (per i contenuti di quelle lezioni e per la rilettura dei miei testi) sto anche pensando di abbandonare l’ambizione di fare di me stesso uno scrittore. Sono abbastanza convinto che un corso non possa darmi ciò che mi manca. E lo dico valutandomi oggettivamente, per quanto la cosa mi bruci…
Bello l’excursus storico. Mi ha dato molti spunti di approfondimento.
26 marzo 2016 alle 13:58
Massimo: anche nella scrittura, “andare a bottega” è stato ritenuto per secoli cosa normalissima. Le prime scuole di retorica delle quali si abbia qualche notizia sorsero qualche centinaio d’anni a.C.; per tutto il Medio Evo e il periodo umanistico la retorica era la spina dorsale di tutta la formazione; eccetera.
Cerchi dunque un corso che ti dia ciò che hai già?
(Qui non è in questione il mio lavoro d’insegnante. Ho avuto allievi soddisfatti e allievi insoddisfatti. Mi par di capire che il libro di Oldeni, posto che esista davvero – con Bissolati non si sa mai – spari a zero su tutto e tutti).
26 marzo 2016 alle 14:18
Obiezione condivisibile. Non cerco un corso che mi dia ciò che ho già, sarebbe stupido!
Però sarebbe altrettanto sciocco per una capra, notoriamente erbivora, seguire un corso di formazione per diventare cacciatrice!
Comunque ci penso ancora un po’… è molto vicino a casa mia…
p.s.: ma dove li trovo gli emoticon???
26 marzo 2016 alle 14:34
Io facevo questo errore: nel tessere tutte le obiezioni possibili quanto all’utilità dei corsi di scrittura, trascuravo l’aspetto di relazione. Molto dell’insegnamento per quanto ho potuto vedere passa per relazione. Quella che Massimo chiama “magia” io la chiamo: relazione.
26 marzo 2016 alle 15:26
Ogni qual volta, specie dopo una passeggiata, una marcetta, persino di quelle blande, o una corsa nel bosco, gli inguini dirimpettai fanno bizze e dolorini e così e cosà e si atteggiano come fa l’attore principale sulla scena, ma la caratteristica principale degli inguini è quella di tacere. Sono spassosi quando tacciono. Hanno l’odore del sottobosco ma anche della sabbia in riva al mare. E se, con gran pazienza, te ne stai lì, senza bisbigliare o far baccano, li puoi ascoltare mentre parlano tra loro, alzandosi di continuo a colpi di reni come fossero tra i migliori portieri di calcio, ma anche di portierato condominiale, perché sbirciare oltre i nasi in fondo è la loro maniera per auscultare attraverso se stessi il dolore dell’umanità sulla faccia della terra e della terra stessa. Eh sì, gli inguini parlano con la terra e sono molto seri. Eppure, non si muovono mai di lì e certuni nell’accomunarli li chiama bilaterali. A volte succede* che gli inguini, insieme, vanno sotto i ferri. E parlano come bambini con il muso sporco di cioccolata. Ecco, gli inguini per farsi sentire, devono andare sotto i ferri, altrimenti sono sconosciuti.
Silenziosi.
*Mi ricordo che il presente e il passato, per vivere il futuro, flettono, di qua e di là, come gli specchietti laterali in plastica e ferro delle auto.
I ricordi sono come le autostrade:vanno avanti e indietro con l’ausilio coercitivo del citato ferro, anche se i ricordi o chi li maneggia, a volte dimenticano la loro natura al settanta per cento acquosa, seppure di carne, cartilaginea, muscolare e ossea il restante trenta. Considerando che due più due non fa mai quattro al 100% come una quantità di polvere di terra non è solo tale, ma nutrita dei ricordi del pianeta. Un officina di scrittura creativa deve affondare le mani nella farina del mondo cioè i ricordi e la polvere. E per non ingannare, l’autobiografia propria e altrui, per scrivere sui baratri quotidiani, anche quando tutto si mostra ripetuto e scontato.
26 marzo 2016 alle 15:54
Il cavallo di battaglia da non confondere con il cavallo di ritorno o il cavallo basso dei pantaloni, pure perché ci sta quello a vita alta tiene a che fare con i laboratori, le officine e le botteghe di scrittura creativa.
Mi ricordo. M’arricordo. Tengo ott’anni. Enzina sette e miezzo. Stammo pazzianno a nasconnere. Filumena, faccia a muro, inizia a cuntà. Il resto s’annasconne a ccà e a llà. Enzina me zennea e, fujmmo dint’o palazzo a 19. Dint’o vascio, sotto ‘o lietto, di sua zia Fortuna ‘a Ciaccessa (la chiacchierona). Me ienche di baci vavusielli ca sanno di fragolelle. Ciuciunea ‘ntrechessa. E, mette le mani miezzo le cosce. Miracolo! ‘o pesce s’ ‘ntosta comme ‘na mazza. E, ce mettimmo a ridere, mentre essa dice: Tuoccame ‘a pagnuttella.
M’arricordo il primo giorno di scuola ‘lementare. Dopo dieci minuti già stongo fujenno giù per le scale, miezz’a via. Aggia fa ambresso. Dint’e sacche arrepezzate si stà sciuglienno ‘o ghiaccio.
Mi ricordo criaturo. Giocavo con i pensieri, e i giocattoli, rari: scappavano da tutte le parti.
Ricordo l’asilo e a pranzo il piatto caldo e fumante.
Ricordo lei, il suo nome no. Mamma sua la prendeva per mano e io con gli occhi l’accompagnavo fin dove svoltava il vicolo. Poi, di nascosto dalla mamma di lei e di mia sorella Tellina d’o mar’, che non so perché si faceva il pizzo a riso, con le labbra arricciate, le mandavo un bacio nell’aria. Poi, non la vidi più. Era di maggio, il mese in cui le famiglie cambiavano casa, e anche la sua famiglia cambiò quartiere. Era la prima volta che piangevo per una femmina. Avevo pianto per il latte, il pane, le scarpe e ‘o cazone di colore cocozza.
Ho fatto cadere il piatto con i piselli e, lei è venuta faccia a faccia vicino vicino a me. Poi, si è messa a ridere. – Ca ridi a ffà -, l’aggio ditto. Il mucco appiso, sugo e lacrime salate, e lei pulendomi la bocca ha fatto il pizzo a riso. Mi ha offerto il suo e mi ha azzeccato le sue labbra sulle mie. Bell’e bbuono ‘o munno ha cagnaie culore.
28 marzo 2016 alle 08:14
penso che un corso di scrittura creativa possa aiutare chi scrive a risolvere i problemi che va via via ponendosi quando scrive e anche a vedere in modo problematico cose che per lui non lo erano (c’entra questo con la relazione di cui dm?)
29 marzo 2016 alle 22:43
gentile massimo. “Valutarsi oggettivamente”, lo credi possibile? Un corso o laboratorio di scrittura creativa lo dice, implicitamente, impossibile. Un allievo si espone. Cerca. Ha dei compagni di viaggio e uno che lo aiuta, a cercare intendo. La soggettività è all’inizio e alle fine dell'”opera”, del percorso. Si sa, alla fine che cosa si è trovato? Platonicamente quello che era “implicito” e che è stato “tirato fuori”? Oppure una pista del tutto nuova, qualche svelamento inatteso di talento? Diciamo, tutto è possibile. Conta l’energia che l’allievo ci mette, ci dedica (anche, soprattutto forse). Ah, le muse dell’Oldeni. Evidentemente lui le ha incontrate. Buddhisticamente ha forse travalicato l’ego (o pensa che qualche “genio” l’abbia fatto, senza esercizio, tecnica, investimento di tempo e impegno, senza mal di schiena, e ricerche a tentoni, nel buio). Beato lui, beati i geni. Noi, quaggiù, siamo “obbligati” a fare i conti con le ricerche e il lavoro concreto della nostra soggettività, i suoi smarrimenti, le sue piccole ebbrezze…
30 marzo 2016 alle 11:12
Enrico, penso che se si è onesti con se stessi ci si può valutare senza paraocchi. Ho scritto un libro e l’ho mandato in giro. Il signor Mozzi non mi ha ricontattato, una piccola casa editrice (Nativi digitali), dopo l’incipit, ha voluto leggere l’opera completa. Mi ha detto che scrivo bene ma non ha voluto pubblicarmi, nel concorso Calvino mi hanno detto che scrivo bene, ma hanno liquidato la valutazione del testo in due-tre righe, Stesso esito con Fazi e Sellerio, ne hanno elogiato lo stile, ma non l’hanno pubblicato. Ho quarant’anni… se tutti mi dicono che so scrivere, ma nessuno crede davvero nelle mie potenzialità ho due possibilità. O mi comporto come uno sciocco e accuso il mondo cinico e baro di avercela con me, oppure giudico le cose con maturità e distacco.
A volte si arriva ad un punto dove è necessario avere un riscontro. E se il riscontro è negativo, bisogna accettarlo e prenderne atto!
Auguro a lei e a tutti quelli che credono ancora nelle loro potenzialità di avere successo. Io per proseguire (complice una vita piuttosto piena) avrei bisogno di una spintarella, anche solo emotiva…
1 aprile 2016 alle 13:15
… capisco Massimo, quello che dice. Come lei racconta quindi quel “giudizio oggettivo” è un giudizio altrui, peraltro sembrerebbe non del tutto negativo. E diavolo da un quarantacinquenne si faccia dire che, nel secondo millennio, il quaratesimo anno è una quasi giovinezza.
Se non poprio per ottenere il successo o la gloria, ci sono tanti modi per avere riscontro, a parer mio, e farsi leggere… e penso che considerare la propria opera come una meritoria dignitosa via per approfondire la conoscenza di sé e del mondo sia anche non un “refugium” della (dalla) sconfitta, ma una realistica considerazione del senso del fare letteratura… penso tra l’altro che questo processo di consapevolezza sia (come l’analisi freudiana) “interminabile”… non molli dunque! e torni a voler dare al mondo il fiore della sua evoluzione personale…