
Ho detto banale, non banane!
di giuliomozzi
1. La moltiplicazione degli “io” narranti è diventata addirittura una moda: circa una su sette delle opere che mi vengono proposte in lettura prevede la presenza di almeno due “io” narranti o un’alternanza tra uno (o più) “io” narranti e una narrazione in terza persona. Personalmente trovo curioso che venga spesso citato come modello il Faulkner di L’urlo e il furore (o, più raramente, di Mentre morivo), però per sentito dire (cioè senza averlo letto o avendolo letto parzialmente). A nessuno viene mai in mente, invece, il romanzo epistolare.
2. L’adozione da parte del narratore in prima persona di un parlato stilizzato secondo il modello di Paolo Nori, ma assunto ideologicamente: ovvero come se (a) fosse sbagliato e deprecabile non far adottare al narratore in prima persona una lingua “parlata”, (b) l’unico modo reale di scrivere un “parlato” fosse quello definito dalle opere di Paolo Nori, (c) il “parlato” definito nelle opere di Paolo Nori non fosse una stilizzazione bensì una restituzione del parlato reale.
3. La distopia. Ormai non c’è romanzo che non sia distopico, almeno secondo chi l’ha scritto. Il guaio è che per fare una distopia non basta dire a pagina 2 che Milano è stata distrutta dai bombardamenti argentini, e poi raccontare la solita storia d’amore brianzola come se niente fosse (Due cuori e una fabbrichetta, o giù di lì).
4. L’introduzione di alcuni elementi considerati, a ragione o a torto, “postmoderni”: canzoncine sciocche, animali parlanti, cose così.
5. Tutte le figure di ripetizione, usate in funzione enfatica.
6. Il romanzo nel romanzo. Che talvolta diventa il trattato nel romanzo, il poema nel romanzo, il saggio nel romanzo, l’opera d’arte visiva nel romanzo (raramente però si trovano poemi, saggi, opere d’arte visiva ecc. che contengano romanzi). Purtroppo non si tratta quasi mai di “opere interne” che il protagonista legge (come avviene a es. nel Lupo della steppa di H. Hesse), bensì quasi sempre di “opere interne” che il protagonista scrive. E chi non coglie la differenza è perduto.
7. I personaggi che si chiamano solo C, o al massimo C. (intendendo che tutti i personaggi sono così smaterializzati che solo una lettera, al massimo una lettera e un punto, li rappresentano quanto basta). Rimando per questo al saggio L’abominevole tendenza dei personaggi misteriosi a rivelarsi per quello che sono fin dalla loro prima apparizione in scena, ça va sans dire, di Ennio Bissolati.
8. La frase monocellulare (soggetto, predicato, complemento, punto). Quasi mai però il risultato è paragonabile, che so, a quello de Il dipendente di Sebastiano Nata. In alternativa, la frase iterante alla Gertrude Stein, che è ancora più difficile.
9. Tutto questo insieme, più o meno confusamente.
10. L’incrocio tra tutto questo e materie narrative desuete: la saga di famiglia che prende quattro generazioni, le lotte partigiane, la storia dell’industria nazionale del caffè, il partito comunista, e via dicendo. In questo caso può anche succedere che salti fuori qualcosa di davvero buono.
Tag: Gertrude Stein, Hermann Hesse, Paolo Nori, Sebastiano Nata
15 gennaio 2016 alle 15:53
Non sono d’accordo sul punto 6. Sul resto invece si. Diciamo che, anche se banale, inserire questo tipo di elementi, può essere un condimento curioso.
15 gennaio 2016 alle 16:03
Devo dire che ogni volta che lei pubblica un post di consigli ha sempre la capacità di farci sentire dei cretini. 😦 Meno male che non la ascoltiamo (poco) e continuiamo a scrivere altrimenti sai certe depressioni…
15 gennaio 2016 alle 16:05
attenzione ai refusi (“confusmente”, paolo nordi”)
poi volevo chiederti, a proposito del romanzo nel romanzo, ma se il protagonista sta traducendo un epistolario, vale come opera interna che il protagonista legge?
15 gennaio 2016 alle 16:11
Nella mia proposta c’è una canzoncina sciocca, questo è certo. Forse anche delle figure di ripetizione. Forse anche loro.
15 gennaio 2016 alle 16:29
Non c’è niente di tutto questo nel mio romanzo, ma magari esce fuori ugualmente banale!
15 gennaio 2016 alle 16:30
Invece io lo trovo bello come post. Volevo approfittare per fare una domanda, è una cosa in parte personale ma sulla quale mi ci sto arrovellando.
“La storia ha elementi di forte interesse, ma la scrittura è debole”
Cosa vuol dire “la scrittura è debole” ? Avevo pensato che non è coinvolgente… Non è che GM in persona mi saprebbe dare una dritta ?
15 gennaio 2016 alle 16:57
Grazie, Sergio. Ho corretto. Rispondo: direi di sì.
Amanda: ciò che è diventato banale (e non lo era, mettiamo, vent’anni fa) non può essere “curioso” se non per il lettore, diciamo così, poco aggiornato.
Per esempio, il cosiddetto “monologo interiore” reso con una prosa priva di punteggiatura era un’innovazione ai tempi di Ulisse, è diventato banale in Italia negli anni Ottanta (e lo si trovava dunque anche in opere di intrattenimento e consumo), e oggi non si porta più.
Letterando: questo non è un articolo di consigli.
Ho dimenicato – cosa abbastanza grave – di avvisare che ho scritto l’articolo pensando alla letteratura inedita più che a quella edita.
15 gennaio 2016 alle 17:19
Per non sbagliare (e tra non sapere né leggere né scrivere) mi limito a scrivere la canzoncine sciocche senza mettere il romanzo intorno. Un po’ anche perché sono pigro.
15 gennaio 2016 alle 17:43
Interessante che tu dica: nella letteratura inedita. Vuol dire che questi vezzi risultano banali per i lettori di inediti ma potrebbero risultare non banali per i lettori di editi (la maggior parte di noi )?
15 gennaio 2016 alle 18:58
Essendo ormai diventata una fan dell’amabile Ennio Bissolati, vorrei sapere dove si può trovare il saggio “L’abominevole tendenza dei personaggi misteriosi a rivelarsi per quello che sono fin dalla loro prima apparizione in scena.”, anche se mi sembra di averne sentito menzione nell’ultimo fascicolo di Belfagor (quello del 30 novembre 2012), però non ne sono certa. Riguardo il punto 10, il risultato de La circostanza è stato ottimo.
15 gennaio 2016 alle 19:22
“A nessuno viene mai in mente, invece, il romanzo epistolare.”
…forse perché non esistono più gli epistolari?
(e non so se sia concepibile un romanzo di e-mail, o di sms; invece c’era una che, ricordo, disse di voler scrivere un romanzo con i post-it che si lasciavano due amanti, ma non so se poi l’abbia mai fatto)
15 gennaio 2016 alle 19:43
“ Giovedì 25 novembre 2004 – Stamani penso che la letteratura è epistolare, o, almeno, la mia lo è. Io infatti non ho mai fatto altro che scrivere lettere, dico almeno negli ultimi quarant’anni, perché prima non so, forse prima scrivevo in un altro modo. Le lettere le scrive chi non c’è, chi è lontano. Le scrive perché non c’è, perché è lontano. E non può avvicinarsi. Almeno non prima di avere scritto le lettere. C’è addirittura il sospetto che stia lontano per poterle scrivere. “ [*]
[*] Lsds / 661
15 gennaio 2016 alle 19:46
Ok. Ragionissimo come sempre. Però pensa a Paulo Coelho, lui utilizza i romanzi come mezzi per aiutare le persone a riflettere sulla vita. Creare un monologo interiore che riguarda l’umanità in generale, può creare lo stesso effetto ripescando quel sistema.
15 gennaio 2016 alle 19:46
> (e non so se sia concepibile un romanzo di e-mail, o di sms; invece c’era una che, ricordo, disse di voler scrivere un romanzo con i post-it che si lasciavano due amanti, ma non so se poi l’abbia mai fatto)
Eheh… acabarra59 sta facendo un romanzo con i suoi commenti laterali su vibrisse, questo e’ certo. Ma i miei dodici anni di commenti infervorati sui lit-blog? Un miracolo se un Mozzi se ne sorbisce cinque pagine, figuriamoci non tanto pubblicarli ma eventualmente venderli. “La lettura” del Corriere della Sera sta spianando tutto: discorsi ed anche opere a misura di Battista & Polito, mica di Mozzi & Bissolati.
15 gennaio 2016 alle 20:18
Anche a me piacerebbe sapere da Giulio Mozzi se ritiene che la forma del romanzo epistolare elettronico possa avere oggi (e in Italia) un suo appeal editoriale, tralasciando in prima battuta la questione essenziale e cioè il contenuto e la qualità del tutto.
Che si corrisponda molto via mail è un dato di fatto, per cui quanto meno la forma non risulterebbe estranea (senza contare che darebbe modo di descrivere una serie di dinamiche e patologie legate all’uso del computer e di Internet).
Se ci fosse, per la curiosità io correrei a comprarlo, e forse come me farebbero numerosi critici rampanti che non vedrebbero l’ora di recensire il Laclos postmoderno, il Foscolo postmoderno, ecc. ecc.
15 gennaio 2016 alle 20:26
Non sono sicura di aver capito bene tutto. Ma ci rifletto. Grazie, Giulio.
15 gennaio 2016 alle 20:57
un romanzo costituito tutto da uno scambio di email è stato scritto, al momento non ricordo il titolo poiché ho smesso subito di leggerlo.
15 gennaio 2016 alle 21:19
“ Giovedì 8 settembre 2005 – « Alessandro Perissinotto è nato a Torino nel 1964 e si laurea in Lettere nel 1992 con un tesi in semiotica. Inizia quindi un’intensa attività di ricerca, occupandosi di semiologia della fiaba, di multimedialità e di didattica della letteratura. È docente all’Università di Torino. Alla narrativa approda nel 1997 con il romanzo poliziesco L’anno che uccisero Rosetta (Sellerio), storia di un’indagine condotta negli anni ‘60 in un remoto paese delle alpi piemontesi, al quale fa seguito, nel 2000, La canzone di Colombano, un “ noir “ ambientato tra Val di Susa e Delfinato all’inizio del Cinquecento. Treno 8017 (2003), è ancora una storia con delitto che prende le mosse da un fatto vero, la morte di oltre cinquecento persone in un incidente ferroviario del 1944, un incidente poco noto e mai chiarito. Il suo ultimo romanzo Al mio giudice è un’originale storia epistolare via posta elettronica. Perissinotto collabora inoltre con il quotidiano La Stampa, per il quale scrive articoli e racconti che appaiono sul supplemento TorinoSette. Infine è terzino destro (non sempre titolare) nell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale di calcio degli scrittori italiani. Con Al mio giudice ha vinto il Premio Grinzane Cavour 2005. » (Dal web) “ [*]
[*] Lsds / 662
15 gennaio 2016 alle 21:47
Ecco, sono arrivato al punto 6) e mi sono ricordato di avere imprestato Il maestro e Margherita a qualcuno che ancora non me lo ha restituito. Mo’ provvedo al sollecito. Grazie Giulio per l’innesco mnemonico.
15 gennaio 2016 alle 22:28
Da un po’ mi diverto a lasciare in giro commenti banali. Forse perché penso che la banalità esista solo nel cercare di non essere banali, nel cercare di scrivere la cosa corretta, la cosa adeguata. Penso che l’unico modo per non scrivere banalmente sia scrivere la cosa vera.
15 gennaio 2016 alle 22:43
E quali sarebbero invece le cose non banali da scrivere?
15 gennaio 2016 alle 23:40
“ Lunedì 12 febbraio 2007 – « Sentiamo che cosa ne dice il professore. “ Com’è che suo padre cominciò a scrivere? “. Dopo qualche esitazione, viene fuori che l’origine del Tozzi scrittore è epistolare. » (Carlo Coccioli, Tozzi diventò artista / scrivendo a una sconosciuta, in «Corriere della Sera» [?], 9 dicembre 1963) “ [*]
[*] Lsds / 663
16 gennaio 2016 alle 09:14
Qualche precisazione.
1. Il fatto che una determinata pratica o tecnica sia col tempo diventata “banale” non comporta che le opere che ne fanno uso siano scadenti. Al massimo, non saranno particolarmente originali.
2. E’ perfettamente normale che una pratica o una tecnica “di successo” a un certo punto si “banalizzino”. Quando Jacopo da Lentini inventò (così si dice) il sonetto, fece una cosa nuova. La genererazione successiva approfondì la forza di quella forma; Petrarca la portò a una sorta di stilizzata perfezione; un secolo dopo chiunque era in grado di cacare un accettabile sonetto. Secoli dopo, in “A Zacinto” Foscolo cerca di rivitalizzare la forma storcendola e stremandola; eccetera; ancora un secolo e passa dopo Zanzotto si concede un “ipersonetto”, un sonetto di sonetti; e così via. Nel frattempo, con la forma banalizzata del sonetto gioca e si diverte la Mariella Prestante; e così via.
3. Se dico che una certa pratica o tecnica è ormai diventata “banale”, mica la proscrivo. Certo: al giovanotto che mi si presenta tutto fiero con un romanzo con quattro “io” narranti, devo pur dire che non ha fatto niente di nuovo (se gli “io” narranti fossero centoventisette, allora forse, magari, per parossismo, qualcosa di nuovo ci sarebbe).
4. Se cito il romanzo epistolare come esempio piuttosto antico di romanzo con più “io” narranti, non dico che oggi dovremmo (o potremmo) scrivere romanzi epistolari.
5. Il fatto che oggi ci scriviamo lettere elettroniche o cartacee non è di per sé particolarmente rilevante.
6. E’ rilevante, invece, il fatto che mentre un tempo chi si scriveva lettere poteva solo scriversi lettere, ovvero non poteva telefonarsi, scambiarsi messaggini, chiacchierare con Skype, eccetera, e magari aveva anche consistenti difficoltà a viaggiare (piedi, cavalli, carrozze…) e consistenti difficoltà a superare le barriere sociali (a es. oggi scrivere a una persona famosa è più semplice che cent’anni fa; dal che consegue che cent’anni fa le persone famose ricevevano poche lettere e rispondevano sempre, oggi le persone famose ricevono grandi quantità di messaggi e fanno quello che possono – o non fanno nulla). Un romanzo fatto di sole lettere elettroniche, oggi come oggi, avrebbe bisogno dell’invenzione di un contesto che renda lo scambio di lettere elettroniche, se non l’unico mezzo di comunicazione tra due (o più) persone, almeno il mezzo di comunicazione principale. A es. si può concepire (scusate la trivialità dell’esempio) che due amanti scelgano di comunicare solo via posta elettronica, essendo questo un mezzo più sicuramente proteggibile rispetto alle telefonate (metti che uno dei due lavori insieme col coniuge…); ma sarebbe difficile giustificare una scelta analoga per due legittimi fidanzati. A meno che non vivano molto lontani tra loro, e contingenze varie rendano difficili le telefonate, lo Skype eccetera.
7. Quanto al “descrivere una serie di dinamiche e patologie legate all’uso del computer e di Internet”, come suggerisce Ornella Tajani, be’: non credo proprio che sia sensato legare questo intento (che è un intento come un altro) all’adozione della forma epistolare elettronica. Fare della forma scelta l’oggetto stesso dell’opera è spesso suicida. Abelardo ed Eloisa, nelle loro lettere, non parlavano certo delle dinamiche e delle patologie legate all’uso della pergamena e dei corrieri…
8. A Gian Marco Griffi faccio notare che il mio articoletto non parla di contenuti.
9. Quella specie di eroe che si firma Acabarra ha trovato una forma che è una forma, per quanto la si possa trovare strampalata. Giuseppe C(ornacchia) no. Questa è la differenza. (Io, però, il libro nel quale Cornacchia raccoglie i suoi commenti sparpagliati nella blogosfera italiana, l’ho – per dovere – letto).
10. Per Donatella: il saggio di Bissolati è inedito.
16 gennaio 2016 alle 09:33
È vero.
Riformulo: quali sono, se ne hai idea, le pratiche o le tecniche di scrittura non banali?
16 gennaio 2016 alle 10:15
“ Martedì 12 novembre 1996 – Se c’era un cosa che non volevo fare nella vita era l’impiegato [*]. E invece lo faccio. Come è successo? Per non fare l’impiegato potevo fare il professore, ma io, siamo sinceri, ho sempre avuto troppa voglia di imparare. Oppure il turista, ma io, siamo sinceri, ho sempre avuto troppa voglia di vedere. Oppure il regista, ma io, siamo sinceri, non ho mai né saputo né voluto fare ridere. Oppure il commercialista, ma io, siamo sinceri, detesto i numeri, e quello che è peggio anche i soldi. Potevo fare il medico, ma io, siamo sinceri, non ho mai acquistato quadri. Potevo fare il terrorista, ma io, siamo sinceri, non sono mai stato abbastanza stupido. Potevo fare il militare, ma io, siamo sinceri, non sono mai stato abbastanza furbo. Potevo fare il sindacalista, ma io, siamo sinceri, non sono mai stato abbastanza furbo. Potevo fare il musicista, ma io, siamo sinceri, ho sempre pensato che il babbo avesse più orecchio di me. Potevo fare il giornalista, ma io, siamo sinceri, non sono mai stato un mascalzone. Potevo fare il tassista, già: il tassista, il taxi driver, e scrivermi addosso, e fare il pazzo, e sparare a un pappone, e diventare un eroe, ma io, siamo sinceri, anche se scrivo non sono il tipo da scriversi addosso. Chissà quante altre cose potevo fare. Ma non le saprò mai. Un impiegato non sa mai niente. Anche per questo fa l’impiegato. “ [**]
[*] Sostituire, vent’anni dopo, con “ pensionato “.
[**] Lsds / 664
16 gennaio 2016 alle 11:39
Esatto, il letterario o la forma ha un valore diremmo atemporale, si può leggere acabarra59 fra cento anni in un contesto del tutto mutato, magari sulla Luna dopo un turno fuori in scafandro, e ritrovarlo integro, non avrebbe perso un’oncia. Molto più modestamente, le robe senza forma propria vanno a scadenza o nascono già scadute: non hanno anima.
16 gennaio 2016 alle 12:03
Gian Marco: quelle innovative.
Risposta fin troppo banale.
Il guaio è che non si sa bene quali siano le cose davvero innovative finché non si comincia a notare che, anziché restare bizzarrie isolate, cominciano a diffondersi… ovvero a banalizzarsi.
Paradosso.
16 gennaio 2016 alle 12:05
Io non lo leggerei mai, però un romanzo di due single con due vite completamente opposte, che si raccontano tramite email per confrontarsi, troppo insicuri per passare al passaggio successivo (l’incontro) me lo vedrei benissimo. Poi potrebbe finire con l’appuntamento risolutore. Perfetto. Però in quelle email dovrebbero esserci scritte cose veramente coinvolgenti. Praticamente due romanzi in uno in prima persona.
16 gennaio 2016 alle 12:18
I due corrispondenti non dovrebbero per forza essere due amanti. Potrebbero essere un padre che è in carcere e sua figlia, o due amici lontani, un fratello e una sorella, che “filtrano” attraverso il racconto/resoconto via email le loro esistenze. D’accordo che i primi avrebbero comunque i parlatori e i secondi potrebbero chiamarsi via Skype, ma non necessariamente la forma di comunicazione più veloce è quella che consente di dire il maggior numero di cose, o di aprirsi alla confidenza. Magari tra una email e l’altra i due protagonisti si telefonano o si vedono, e nelle lettere fanno riferimenti ai loro incontri (succede anche nel romanzo epistolare classico), ma il tutto è sporadico per qualche difficoltà esterna e la scrittura resta il terreno d’incontro privilegiato.
Ma capisco che l’ipotesi non la attrae.
Sul commento alla fenomenologia del mezzo (i social) è vero che ho associato due cose diverse, poiché il discorso non ha necessariamente a che vedere con la forma epistolare, che anzi potrebbe rivelarsi un ostacolo. Grazie per la risposta
16 gennaio 2016 alle 12:30
Nel film La casa sul lago del tempo, la corrispondenza è in tempi diversi, ovvero un protagonista scrive nel 2004, l’altro nel 2006, e trovano le lettere nella buca per qualche strano motivo. Essere due single che non hanno coraggio di incontrarsi ha senso, anche avere il carcere in mezzo, ovviamente. Insomma alla fine è tutto fattibile. Non credo che abbia importanza l’originalità, almeno nella letteratura di consumo. Alla fine penso che conti di più come si butta giù la cosa…
16 gennaio 2016 alle 12:50
> Non credo che abbia importanza l’originalità, almeno nella letteratura di consumo. Alla fine penso che conti di più come si butta giù la cosa…
Ma infatti non è un obbligo l’originalità letteraria in senso mozziano, anche perché poi venderla è un compito improbo nel 2016 occidentale secolarizzato. Il letterario resta oggi un orizzonte possibile (e localmente vendibile) solo a chi vive una qualche condizione di scacco permanente e si inventa una via d’uscita.
16 gennaio 2016 alle 13:29
“ Martedì 6 maggio 1996 – Avvertenza: questo diario, in cui compaiono in una intimità paradossale i nomi di Pietro Lorenzetti e di Pietro Pacciani, di Togliatti e di Tognazzi, di Tommaseo e di Tondelli, di Berlusconi e di Berlinguer, di Bartali e di Barthes, di Baudelaire e di Baudo, di Benjamin e di Benni, di Cacciari (Massimo) e di Caetani (Via), di Calogero (Dott. Guido) e di Calvino (Italo), di Casini (Pierferdinando) e di Cassidy (Butch), di Citati (Pietro) e di Ciuccio (Buffo cognome), di Cristal (Billy) e di Cristo (Povero), di Darvin (Carlo) e di Darwin (Charles), di De Libero (Libero) e di De Mita (Ciriaco), di Dossi (Carlo) e di Dotti (Avv. Vittorio), di Eco (Umberto) e di Edipo (Effetto), di Elio (E le storie tese) e di Eliot (Thomas Stearns), di Fini (Gianfranco) e di Finzi Contini (Giardino), di Fiorello (Rosario) e di Flaiano (Ennio), di Fortini (Franco) e di Foscolo (Ugo), di Gennaro (Collega) e di Genette (Gerard), di Gere (Richard) e di Gesù (Fa bene?), di Giulia (Valle) e di Giulietti (Giuseppe), di Lurio (Don) e di Luzi (Mario), di Manganelli (Giorgio) e di Mannoia (Fiorella), di Minoli (Giovanni) e di Minzoni (Don Giovanni), di Olga (Zia) e di Olivetti (Ditta), di Ottieri (Ottiero) e di Otto (Natalino), di Pacino (Al) e di Paciotti (Prof. Enzo), di Papini (Giovanni) e di Parietti (Alba), di Pivano (Fernanda) e di Pivetti (Irene), di Rattazzi (Urbano) e di Rauti (Pino), di Russo (Luigi) e di Rutelli (Francesco), di Schopenhauer (Arthur) e di Sciarelli (Federica), di Senofonte e di Serra, di Staino e di Stendhal, di Stibbert (Museo) e di Stone (Sharon), di Tamaro (Susanna) e di Tambroni (Fernando), di Van Gogh (Vincent) e di Veltroni (Walter), così come potrebbe comparire un giorno o l’altro accanto a quello di Bossi quello di Bossuet, o, accanto a quello di D’Alema quello di D’Alembert, è il diario pazzo di un pazzo. Che scrive mentre guida, mentre mangia, mentre dorme, mentre caca, mentre fotte, mentre parla, mentre tace, ma mai abbastanza. Che, non essendo sempre stato pazzo, pensa che, un giorno o l’altro, potrebbe rinsavire. “ [*]
[*] Lsds / 665
16 gennaio 2016 alle 23:27
Decisamente sto invecchiando: non ci ho capito quasi niente, e i commenti di acabarra li trovo assurdi. Forse è meglio che io e la letteratura ci prendiamo una pausa di riflessione. (eppure c’è ancora tanta narrativa che mi emoziona e con cui condivido begli spazi di tempo…..)
17 gennaio 2016 alle 09:33
Ornella: sei proprio sicura che i detenuti possano usare liberamente la posta elettronica?
Amanda, scrivi:
L’insicurezza è un motivo debole. Se due personaggi non riescono a vedersi perché uno sta in Alaska e l’altro a Nairobi, e sono tutti e due poveri in canna, ci sono degli ostacoli oggettivi che i personaggi stessi devono affrontare (se il loro scopo è entrare in relazione).
E poi: perché i personaggi dovrebbero “raccontarsi”, cioè parlare di sé? Non esiste forse tutto un mondo, attorno a loro?
Anche un fuso orario può essere un ostacolo.
17 gennaio 2016 alle 10:18
“ 2 ottobre 1988 – Sembra che Rousseau abbia « lasciato di proposito la sua amante per poterla sedurre per corrispondenza ». La questione delle lettere (cfr Proust). “ [*] [**]
[*] Lsds / 667
[**] In generale, non mi sento di escludere che abbia ragione il signor Mimmo.
17 gennaio 2016 alle 11:33
Credo che Acabarra59 abbia tutto quello che serve a un bravo romanziere e forse anche di più, a eccezione del senso della misura.
17 gennaio 2016 alle 11:50
Come figlia di una detenuta ho avuto una corrispondenza epistolare durata vent’anni solo via lettera, che veniva controllata ovviamente. Secondo me non si può avere accesso all’email.
I due single raccontano la loro vita perché così diventerebbero due romanzi dentro lo stesso libro scritti in prima persona a turni. Perché debole? Potrebbero essere dirimpettai, e scriversi per mesi.
17 gennaio 2016 alle 11:56
Eh: se sono dirimpettai, cambia qualcosa. Nel senso che aumenta la paradossalità dello scriversi: e questo potrebbe creare una tensione. Resto convinto comunque che esista tutto un mondo, là fuori.
17 gennaio 2016 alle 12:15
Si, per esempio lei potrebbe scrivere di un segno nel suo corpo, una cicatrice, mentre si racconta. E un giorno i due potrebbero incontrarsi in un piccolo suoermercato all’angolo, dove finalmente lui la riconosce, perché a lei cadono le cose per terra, magari mentre si scontrano di fronte a uno scaffale, e vede quel segno che è anche il simbolo di qualcosa di importante. Che americanata. Però funzionerebbe. Io non lo scrivo però 🙂
17 gennaio 2016 alle 14:36
665, 667: bella la sequenza!
17 gennaio 2016 alle 16:15
E’ ufficiale: è uscita la lista dei cento libri preferiti di David Bowie (da notare la traduzione “The leopard” del noto “Il gattopardo” di G.Tomasi di Lampedusa).
Vi pubblico la lista dei miei dieci più odiati (cento sarebbero troppi e ho paura che prima di finire di scriverli crolli la connessione!):
“Il tempo senza tempo” di Julius Ucron
“Dell’arte di defenestrare un peto (tutti possono farlo!)” AA.VV.
“Le civette allupate” di Francois De Beccamort
“Come togliersi dalle scatole il discepolo rompicoglioni” di Sensei Okyu Shiru
“Come togliersi dalle scatole” di aikidōka Eke Katsu
“Il romanzo-non romanzo nel romanzo” (autore scomparso)
“Su facebook semu tutti amici di l’amici” (anonimo siciliano)
“La narrativa non è un’opinione” di Albert Burlon
“Diario di un menscevico pentito” di Irina Vomitaskaja
“L’abominevole tendenza…” di eteronimo “tendenzioso”.
17 gennaio 2016 alle 22:14
Sul punto 1: immagino- anzi, ne sono quasi certo – che la moltiplicazione degli io narranti sia spesso accompagnata ad una differenziazione anche tipografica, nella scelta del carattere, dal tutto corsivo e quant’ altro.
Faulkner é certamente un esempio illustre ma non il solo: non trascurerei Irwine Welsh, che sará meno illustre ma sempre l’autore di Trainspotting rimane.
In ogni caso, il moltiplicarsi degli io narranti- che pur banale non é certamente negativo di per sé- deriva soprattutto da un altro fenomeno narrativo, che é quello delle serie TV americane.
18 gennaio 2016 alle 10:12
Articolo interessante. Per quanto mi riguarda voto il punto 10. A prescindere dalle scelte dell’autore, che possono essere originali o banali, superate o futuribili, se il testo possiede un suo equilibrio ne viene fuori comunque qualcosa di bello.
P.s.: non ho letto la circostanza, ma pare che debba assolutamente farlo!
18 gennaio 2016 alle 16:37
Il fatto che il numero 10 può funzionare non vuol dire che vale (parlo del contenuto). Potrebbe giungere comunque al lettore come “minestra riscaldata”. Sì, sì, è un po’ come dire (tirandolo fuori dal frigo) che buono il minestrone! Riscaldiamolo!
18 gennaio 2016 alle 16:44
… mi sono imbattuto quest’anno nel bel libro di Daniel Glattauer, “Le ho mai detto del vento del Nord”, Feltrinelli. Un buon esempio, a mio giudizio, di come “strizzare” suspence e persino poesia da un “causale” rapporto sentimentale tra un uomo e una donna (sposata) che si scrivono mail (senza essersi mai visti)… da considerare con attenzione… il libro che ha seguito questo e prometteva di dare ancora voce ai due personaggi mi ha “estenuato” quasi subito (mi pare “La settima onda”), e l’ho abbandonato…
18 gennaio 2016 alle 16:45
“casuale”… perdonate il refuso. Nessuno ha letto il Glattauer?
18 gennaio 2016 alle 18:32
Buonasera, forse intendeva “Le ho mai raccontato del vento del Nord”. Sembra interessante. Grazie del suggerimento.
19 gennaio 2016 alle 16:31
[…] Giulio Mozzi is a very experienced and well-reputed scout in Italy when it comes to literary writing. An author himself, his job nowadays is to read submissions from the general public and recommend the best to his employer, the mid-sized Marsilio publishers from Venice. He is probably the only professional in the upmarket to keep a fully public posture and, as such, his advice is in great demand. He likes and promotes literary grade (or beauty, as he calls it) in whichever written form it comes. Problem is literary doesn’t sell in Italy because the upper class has lost its soul and the lower just don’t catch it. Trying literary in secularised Italy is seen as splitting hairs. […]
21 Maggio 2016 alle 20:41
Solo al punto 10. Gli estimatori della minestra sanno che se non è riposata e poi riscaldata , non è godibile fino in fondo. Magari con una generosa grattugiata. Matta * di formaggio