
Leopoldo Fregoli, celebre trasformista.
di giuliomozzi
1. Se vi hanno detto che fare dell’autobiografia non va bene, vi hanno detto una sciocchezza. Si può benissimo fare dell’autobiografia, purché non di sé stessi.
2. In altre parole: la parola “autobiografia” non designa un contenuto, ma una forma.
3. In alternativa, potete fare dell’autobiografia di voi stessi: purché a scriverla non siate voi (cioè non sia il medesimo soggetto che agisce nella storia).
4. Quasi tutti noi siamo a stento capaci di fare una o due cose. Ma se io mi immagino di non essere io, e di essere invece uno che sa fare altre cose, posso provare a farle.
5. La cosa di cui al punto precedente è replicabile: non è detto che, se mi immagino di essere un altro, debba essere sempre quell’altro.
6. Ciò di cui sto parlando non è esattamente l’imitazione (e, già che ci sono, dico che l’imitazione è una sana pratica). E’ piuttosto l’immedesimazione.
7. Diventare un altro, anche solo per immaginazione, libera da ogni bisogno espressivo.
8. Dell’altro che diventiamo, sia chiaro, non sappiamo niente. E’ tutto da scoprire: tutto il suo essere sta nell’opera.
9. A forza di allenarmi ad essere Carlo Dalcielo o Mariella Prestante, forse un giorno diventerò capace di essere Giulio Mozzi.
10. L’altro è il luogo dove si costituisce la nostra possibilità di parlare.
7 gennaio 2016 alle 21:49
Se vuoi, nel frattempo, ti faccio un’autobiografia provvisoria. Così mi esercito un po’. Se non mi verrà proprio bene, tutta di mio, ne commissionerò parte a un amico.
7 gennaio 2016 alle 22:09
“A tre anni volevo fare il cuoco. A cinque volevo già essere Napoleone. La mia ambizione ora è di diventare Salvador Dalì.”
– Dalì, appunto
“quello che dite dovrebbe essere non solo comprensibile e interessante ma anche avvincente, stimolante, il che […] vi obbligherà a costruirvi un personaggio riconoscibile, i vostri commenti dovranno colpire l’ascoltatore come se venissero da un essere umano, qualcuno con una personalità vera e sentimenti veri riguardo al tema di cui state parlando. […] Poi, man mano che continui a farlo, un giorno dopo l’altro, c’è una cosa che ti diventa assolutamente chiara. Quando sei alla radio in realtà non stai recitando. Sei tu.”
– DFW
7 gennaio 2016 alle 22:22
“ 9 novembre 1994 – « Quanto io sia restato poi con afani e dolore, pensi chi legie, che in verità averia desiderato la morte per usire de tanti afani, considerato che in questo anno quanto la casa nostra aveva patito, che veramente si può chiamare anno de tribulatione e affanni, che in quatro mesi essere morto tre persone de questa qualità e io restato con questi vecchi solo con la Vitoria, quale non era molto sana per uno catarro che li scendeva da la testa e si spargieva per dosso. A mi non restò altra consolatione che la Giulia, la quale veramente era comunamente amata da tutti e tutti cie ne satisfacessimo assai. » (Giovanni Battista Belluzzi, Diario autobiografico 1535-1541) “ [*]
[*] Lsds
7 gennaio 2016 alle 22:32
…mi sono incastrata tra la 9 e la 10, perché non sono certa di aver capito bene. Vediamo: è bene scrivere immedesimandoci senza metterci del nostro, ma siccome siamo noi a scrivere rischia di uscire “del nostro” nel quale identificandoci ci permetterà di scoprirci e quindi alla fine siamo esattamente chi fingiamo di essere? Ok, vado a dormire così ci penso.
7 gennaio 2016 alle 22:42
Riflettevo su questo argomento proprio ieri… Noi siamo fatti di molti aspetti diversi, quindi possiamo scrivere un’autobiografia inerente alla vita sentimentale, un’avventura in Africa, la professione ecc… però ho notato che se si ha qualcosa di veramente importante da dire, ma lo si dice a persone che stavano pensando a un altro argomento, per qualche strano motivo diventa tutta fuffa. Non so se mi sono spiegata bene, forse no. Le persone recepiscono solo un argomento per volta e deve corrispondere a cosa si aspettavano, ed è un grosso limite, proprio se si vuole scrivere un’autobiografia. Quel che è peggio poi è quel che viene dopo.
7 gennaio 2016 alle 23:13
condivido senza riserve. ma non sono io a dirlo 🙂
ps: ho recentemente scritto dei versi, sulla questione. posso postarli (non so come si usa, qui)?
7 gennaio 2016 alle 23:59
L’immedesimazione mi ha sempre portato bene. Immedesimandomi in un altro più intelligente, sono effettivamente diventato più intelligente. Ma, stranamente, immedesimandomi in un altro più cattivo sono poi diventato più buono.
Cioè, mi pare che al di là dell’oggetto, l’immedesimazione prodotta per un certo scopo buono (e scrivere un’opera di finzione può essere scopo buono) abbia sempre un effetto catartico. (D’altra parte, anche diventare più intelligenti cos’è se non la liberazione dalle meschine concrezioni della falsa stupidità – cioè la liberazione dalla quotidiana immedesimazione in un altro più stupido?).
8 gennaio 2016 alle 04:47
Amanda, o pensiamo che il nostro discorso abbia una certa forza, o è meglio che stiamo zitti.
Franca fi: se sono pertinenti, mettili qui; senon sono pertinenti, non metterli qui.
Daniele (dm): non è detto che si diventi un altro migliore.
Roby: c’è già pieno di ghostwriter qui, non preoccuparti. Grazie.
8 gennaio 2016 alle 08:19
“ Venerdì 19 settembre 2008 – « E romanzi? “ Niente romanzi. Vorrei tentare un’autobiografia, ma libera dalle date, legata alle esperienze. È soltanto un progetto. Non ho mai parlato di me stesso. L’io è una cosa orribile. A Gide che gli parlava delle proprie memorie, Proust disse: « Potete raccontare quel che volete, ma a una condizione: che non diciate mai io ». “ » (Giulio Nascimbeni, Macchia: « Come vivo fra trentamila libri », in «Corriere della Sera», giovedì 18 novembre 1982) “ [*]
[*] Lsds / 653
8 gennaio 2016 alle 11:34
La forza (e la bellezza) del raccontare sta nella possibilità di passare dalla solitudine egocentrica dell’ “Io sono” alle possibilità dell’ “essere”, esteso nel suo senso di infinito o, appunto, inteso come infinite possibilità di essere, di poter essere. Se l’autore scompare tra le pagine dei suoi libri, per lasciare spazio ai personaggi latenti del suo essere, allora sì che leggerlo è bello, profondo, costruttivo e utile per noi lettori. Ma in fondo anche per lui. Meglio che il reale lasci spazio all’immaginario, al possibile (o, perché no, all’impossibile); è preferibile che dal noto si tenda verso l’ignoto, e non vicerversa.
8 gennaio 2016 alle 13:16
(Be’, sì, teoricamente è possibile anche autodistruggersi. Attraverso l’immedesimazione e la scrittura. Ma secondo me in quei casi l’autodistruzione è anche lo scopo evidente (cioè col senno di poi) che guida la mano che scrive. Se si scrive con uno scopo buono, che so, raccontare una storia che è giusto sia raccontata, guardare da vicino un dolore senza procurarne al prossimo, o procurandone al prossimo solo l’indispensabile, raccontare per dare speranza, eccetera, forse non è così facile autodistruggersi. È un’idea di poca esperienza, forse un preconcetto, o magari mi illudo. Certo, ci si può far del male anche senza autodistruggersi. Ci si può peggiorare anche di poco, o un poco alla volta, per abrasione.)
8 gennaio 2016 alle 13:21
secondo me, pertinenti. se secondo te no, cancella pure! eccoli:
dove sono io? mi cerco sempre, mi cerco anche tra una riga
e l’altra, non solo nelle parole arrampicate sui versi.
ah, che ardite costruzioni, che mano sapiente, mi dico,
nascondendo la delusione dell’essere ancora una volta
assente, programmaticamente dimenticata: io, io, io
la fulgida stella del non esserci. eppure non mi piego
alla distrazione. ci sarò un giorno, ci sarà un giorno.
questo mi dice la mia testolina bizzarra, così bizzarra
che spesso mi volto a guardarla e non la riconosco.
tutto è simpaticamente ordito in questo mondo
frammentato e minuscolo, il non messaggio, il non
desiderio, la non disillusione. d’altronde, cosa mai
avrà voluto dire, cosa avrò voluto dire? questo, non lo sa
nessuno, né tantomeno io, che se ne sta tranquilla
sulla solita poltrona, in un uggioso pomeriggio invernale.
8 gennaio 2016 alle 13:24
“ Lunedì 22 febbraio 1999 – Divertente poi è trovare sul frontespizio di «Paragone Letteratura» 140, 1961, un « Alberto Abrasino ». E non è un refuso, perché anche nell’interno, in calce all’articolo – la recensione di uno « spettacolo americano d’avanguardia » -, è ripetuto tale e quale: « Alberto Abrasino ». Sa di abrasione, scorticatura, leggera ferita: come refuso, o lapsus, o equivoco, mi sembra perfetto. “ [*]
[*] Lsds / 654
8 gennaio 2016 alle 13:28
@acabarra: è un lapsus limae.
8 gennaio 2016 alle 13:31
§: – )
8 gennaio 2016 alle 22:51
“Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato.” Fra i classici dei classici uno degli incipit più famosi, di un testo per nulla autobiografico, a parte quella lettera K seguita dal punto che molti lettori conoscono. Ma a proposito di punteggiatura: non è forse questo il punto. La semplicità, intendo, forse non basta ad esprimere e costituire un buon modello di scrittura. Ma il signor K. che genio, pur non parlando o cercando sempre chissà quale trama. E non lo dico semplicemente io (anonimus ego) quanto Milan Kundera in uno dei più bei saggi sulla scrittura che siano mai stati scritti, ovvero “I testamenti traditi”. Penso che la scrittura, per così dire “pura”, poco incline all’eccessivo raziocinio ma pur con ciò frutto di una sensibilità interiore e dunque in qualche modo di una follia interiore, sia una delle tante strade che è possibile percorrere. Alla fine, forse, (intendo dire proprio sul finale!) si finisce per fare i conti con questa famigerata interiorità e nella migliore delle ipotesi quel nostro personaggio è molto di più di una strampalata versione mutante del nostro residuale “ego”. Grazie, Giulio Mozzi, per il tuo ascolto, e per aver stilato questi interessantissimi tuoi dieci comandamenti sull’imperituro argomento “scrittura”. Alexander C. P.S. Sono d’accordo, specialmente con l’ottavo.
9 gennaio 2016 alle 05:31
Alexander, mi raccomando: “ipotesi”, non “comandamenti”.
Non farmi imperativo quando cerco di essere solo suggestivo.
9 gennaio 2016 alle 11:04
Comunque mi risulta difficile immaginare una scrittura che comprende una buona componente di sé stessi, soltanto perché credo che la capacità di uno scrittore sia soprattutto nell’attingere a una realtà parallela. Quindi anche scrivendo di sé stessi, probabilmente lo si fa raccontando necessariamente di un altro sé, che assomiglia a noi.
9 gennaio 2016 alle 16:53
Ok, Giulio Mozzi, “suggestive ipotesi”, ma un po’ d’ironia non guasta mai.
10 gennaio 2016 alle 11:05
Mi sorge un dubbio. Il romanzo ” To Jerusalem and back ” , per citarne uno, è un’autobiografia di Saul Bellow scritta in prima persona. Cosa ne facciamo, lo buttiamo ?
10 gennaio 2016 alle 21:11
Gianantonio: leggi il commento di Alexander, quello subito sopra al tuo.
11 gennaio 2016 alle 01:01
Sono d’accordo sulla 2, non sono d’accordo sulla 6 e la 7, sono parzialmente d’accordo sulla 10. Credo che non di immedesimazione si tratti, ma di un bisogno espressivo che trova infine una sua forma e cerca / media poi un suo spazio pubblico.