di Marco Candida
[Un’intervista a Cynthia Collu autrice del romanzo Sono io che l’ho voluto, Mondadori. Ringrazio Cynthia Collu].
Descrizione. Se è vero che ogni famiglia infelice lo è a suo modo, quella di Miriam si potrebbe definire “normalmente” infelice: qualche discussione, la scontentezza del marito per il modesto stipendio da insegnante, a volte delle litigate furibonde ma sempre, dopo, la riappacificazione, la felicità del sesso, una cena fuori, un piccolo viaggio. Sebastiano ritorna premuroso, gentile, e a Miriam questo è sufficiente per tirare avanti. D’altra parte gli deve pur essere riconoscente, lui “la mantiene”, permettendole di stare a casa a occuparsi del loro bambino di tre anni, Teodoro. Un giorno, sistemando gli abiti di Sebastiano, Miriam vede uscire dalla tasca una traccia inequivocabile lasciata da un’altra donna. Inizia la lenta discesa agli inferi del sospetto, del bruciore per il tradimento, del tentativo di parlarne e dell’acuirsi della violenza di lui: maltrattamenti psicologici, all’inizio, destinati a trasformarsi presto in violenza fi sica. Un romanzo che narra con straordinaria intensità la “normalità” della violenza domestica, e i meccanismi per i quali tante donne non riescono a riconoscerla, tanto meno a ribellarvisi. Miriam, risalirà dal suo inconfessabile inferno solo quando riuscirà a guardarsi con occhi nuovi, a ritrovare l’autostima che, come lei, tante donne hanno smarrito.
1) La trama di “Sono io che l’ho voluto” è già riportata all’inizio di questa intervista. Ma ti chiedo lo stesso: di cosa parla, questo libro? Parla di violenza domestica o di sottomissione? Già il titolo “Sono io che l’ho voluto” è la tipica frase di chi sembra recitare un mea culpa trovandosi nel bel mezzo di un pantano.
Il romanzo affronta il tema di quelle che vengono definite “molestie morali” o anche “violenza domestica”. La protagonista è una donna, Miriam, bella, intelligente e colta, ma incapace di liberarsi dalla soggezione psicologica del marito, o meglio, incapace di difendersi dalle continue denigrazioni che ledono a dosi progressive la sua autostima. Il romanzo, quindi, parla soprattutto di violenza psicologica all’interno della coppia, violenza sommersa, che coinvolge famiglie di qualsiasi ceto sociale, violenza ancora più pericolosa di quella fisica in quanto meno riconoscibile.
Per quanto riguarda il titolo mi è capitato di sentire diverse interpretazioni da parte dei lettori. In effetti, il titolo ha più chiavi di lettura. Leggendo però il romanzo mi sembra alla fine risulti chiaro che la frase è tutt’altro che un mea culpa, bensì è il grido liberatorio di una donna che si riappropria della sua autostima e dignità. Ma, come si sa, una volta pubblicato un libro non è più tuo, è del lettore, e quindi che ognuno interpreti il titolo come meglio preferisce.
2) Sei in grado di dirci quali sono, dal tuo punto di vista, le caratteristiche del carnefice ideale?
Non credo esista un carnefice ideale. Tra le tante storie che ho sentito e raccolto, i cosiddetti “maltrattanti” hanno in comune soprattutto la volontà di esercitare dominio e controllo sul partner. Tutti i carnefici, indistintamente, dai più colti ai più abbrutiti, mettono in atto strategie per distruggere l’autostima della vittima, per metterla in uno stato di paura, colpa, vergogna, confusione, impotenza. Certo, i carnefici più temibili sono quelli che sanno sedurre, che dopo ogni violenza chiedono scusa, regalano fiori e promettono mille cambiamenti. Quelli che sanno parlare bene, che sanno dare la carezza giusta al momento giusto, che, in definitiva, mettono la donna in uno stato di confusione e di colpa per non aver compreso che l’atto violento del loro uomo era dovuto solo a stanchezza, a una “giustificabile” stanchezza. Sebastiano, il protagonista maschile, è uno di questi. Bello, intelligente, affascinante, vuole avere il dominio sulla sua compagna, e ci riesce con strategie all’inizio subdole e man mano sempre più devastanti. Ho cercato di cogliere il suo punto di vista, il “perché” del suo comportamento, di rendere comprensibile la sua aggressività e il suo desiderio di annientare Miriam. E forse è questo il torto di una donna, cercare sempre di capire.
3) Quali sono, invece, le caratteristiche della vittima?
Di solito sono persone fragili. Fragili, non deboli; questa è una differenza importante in vista di un possibile riscatto. Alcune hanno la sindrome della crocerossina (io ti salverò), di certo sono persone insicure, con scarsa autostima, incapaci di valutarsi e darsi un valore se non attraverso gli occhi e il giudizio del partner. Spesso hanno alle spalle rapporti familiari sbagliati, per cui sono sempre alla ricerca di affetto e protezione. Il carnefice si sceglie con cura la sua vittima, sulla quale sa di poter portare avanti il proprio bisogno narcisistico di distruggere, e quest’ultima, martellata ai fianchi da continue denigrazioni e offese, alla fine pensa di non valere nulla, di non essere nulla. E’ un rapporto terribile, quello tra carnefice e vittima, dagli effetti devastanti anche per i figli. Miriam però non è così. Lei sa benissimo di essere oggetto di violenza e cerca di contrastare il marito, gli risponde, lo sfida, ma deve continuare a subire perché non ha un lavoro con cui mantenersi, e in più ha un bambino piccolo, di soli tre anni.
4) Non credi che vittima e carnefice, in casi come questi, fondino entrambe il loro morboso sodalizio nel patto: “Dobbiamo stare insieme”? Se la vittima recita continui mea culpa, l’aggressore infierisce con incessanti j’accuse. Ma entrambi non mollano.
Nella relazione vittima e carnefice, entrambi i partner si completano portando avanti dinamiche malate. Le donne, come ho già detto, sono spesso persone fragili alla ricerca di partner maschili forti, che le sappiano sostenere; questi ultimi a loro volta sono attratti da compagne sottomesse sulle quali esercitare la propria superiorità e il proprio (anche se a volte inconscio) desiderio di dominio e di controllo. Sono dunque atteggiamenti che collimano: ogni vittima esiste perché c’è un carnefice e viceversa. Si crea così un equilibrio patologico, difficilissimo da scardinare. Forse solo un intervento esterno (un percorso psicoterapeutico) può aiutare entrambi.
5) Te lo chiedo direttamente, credi che la violenza domestica possa essere esercitata anche da una donna nei confronti di un uomo?
Sicuramente. Esiste una casistica sorprendente in questo senso. La donna diventa carnefice e l’uomo vittima. E’ lei che offende, che maltratta, che picchia. E’ lui che subisce, che è spaventato, che rimane comunque nella relazione di coppia. I ruoli “classici” si ribaltano. Devo dire però che questi casi sono decisamente inferiori rispetto alla norma.
6) La prosa del libro è molto bella. Basta leggere anche solo il primo capitolo per rendersene conto. Che riconoscimenti sta avendo “Sono io che l’ho voluto”?
Da quello che mi scrivono i lettori, dagli articoli di giornali interessati al discorso della violenza sulla donna, ma anche dalle presentazioni che sto tenendo in varie regioni d’Italia, mi sembra che i riconoscimenti siano decisamente buoni. La cosa che più mi fa piacere è che tanti uomini mi hanno ringraziata dicendo che in ognuno di loro, seppure in piccola parte, esiste un Sebastiano, e il riconoscerlo li ha aiutati nel rapporto con la loro compagna.
7) Stai scrivendo altre storie su questo argomento?
No, credo di aver concluso col ciclo violenza sulla donna. Il nuovo romanzo che sto scrivendo parlerà di una storia d’amore e, come sottotesto, del rapporto dell’artista con la propria opera. Ma preferisco non dire troppo per scaramanzia.
8) Questa tematica mette i brividi. La conosco attraverso Dolores Claiborne e Rose Madder di King. Anche attraverso “A letto col nemico” con Julia Roberts. Non posso dimenticare la scena dove Julia Roberts viene rimproverata dal marito per aver appeso gli asciugamani in bagno non alla stessa altezza. Quasi demenziale come scena – soprattutto se uno non è uno psicopatico; ma rende lo stesso l’idea. Hai qualche autore che ti sentiresti di consigliare – di libri, film…
Per quanto riguarda i film mi viene in mente “Pomodori verdi fritti” di Jon Avnet ma anche “Thelma e Louise” di Ridley Scott o “Lanterne rosse” di Zhāng Yìmóu. sull’abuso sui minori, senz’altro il meraviglioso “Nastro bianco” di Haneke.
Per i libri, il grande Dostoevskij ne “La mite”, perfetta rappresentazione di rapporto vittima carnefice.”Questo non è amore” di autori vari, edizione Marsilio, e i bellissimi racconti della prima Tamaro “Per voce sola”. Assolutamente da leggere.
9) Secondo me la questione sta tutta nel rendersi conto delle proprie reazioni. Se si sta con una persona e dopo un po’ questa persona ci infastidisce, dobbiamo prendere atto che quella persona non fa per noi. Se invece proseguiamo, diventeremo sempre più cattivi. Io penso che il partner che usa violenza sull’altro pensi: “Prima o poi mi passerà. La smetterò di maltrattare. E’ solo un brutto periodo e non mi so dominare”. L’altro pensa specularmente: “Prima o poi smetterà e tornerà la persona che amo”. La vittima di un sopruso non reagisce perché minimizza il sopruso oppure è già abituata a riceverne – magari fin da piccola, da altre persone. Cosa ne pensi?
Si tratta del gioco dell’ autotortura, il gioco vittima-persecutore . Il persecutore minaccia e la vittima si giustifica, si scusa, scusa il suo aguzzino. Ti lascio cin un pezzo tratto dal mio romanzo, che spiega bene queste dinamiche. E grazie a te.
“Ma poi passavano i giorni e i mesi e lui non la toccava più, e ogni volta Miriam pensava che ormai non sarebbe più successo, di certo era stato un momento di nervosismo e poi, chissà, magari lei se l’era anche un po’ cercata, sempre il suo vizio di rispondere, in fin dei conti era lui che aveva sulle spalle la responsabilità della famiglia, era comprensibile che ogni tanto esplodesse. E poi, a parte quelle tre volte, non l’aveva mai picchiata forte, era piuttosto uno strattonarla, magari le tirava i capelli o un calcio ma senza cattiveria, senza convinzione, ecco, piuttosto voleva farla smettere, era il suo modo di dirle basta! stai zitta non mi rispondere non lo sopporto. Sul momento, quando lui la toccava, lei si sentiva impazzire dalla rabbia, ma poi, col passare delle ore, ridimensionava tutto, vedeva la cosa da un altro punto di vista, era stati solo momenti di nervosismo, un po’ eccessivi, niente di più. Così si ritrovava dopo qualche giorno a rivolgergli la parola come se non fosse successo niente e lui le rispondeva come se non fosse successo niente, e finalmente la vita riprendeva il suo corso normale, era la cosa che lei desiderava di più, la normalità, niente tensioni, niente silenzi, un po’ di respiro, finalmente, sì.”
Ti ringrazio, Cynthia. Complimenti.
Tag: Cynthia Collu, Marco Candida
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