Gilda Policastro: intervista su “Cella” / 8

by
Fëdor Dostoevskij

Fëdor Dostoevskij

giuliomozzi intervista Gilda Policastro

[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm].

E dunque, Gilda: in realtà, quella che io mi ero figurato come “costellazione di opere da te lette che stiano in qualche modo intorno, o vicino, o lontane ma come le stelle che ci orientano, a Cella” era, è, molto ridotta. E in realtà, me ne accorgo, è più una “costellazione di opere” che stanno nella mia mente, che mi hanno guidato nella mia comprensione (sempre che l’abbia compresa…) di Cella. E al Memoriale di Volponi devo aggiungere due opere brevi, brevi ma importantissime, di Dostoevskij: Le memorie dal sottosuolo e, soprattutto, La mite (o La modesta, secondo le traduzioni; preferisco La mite). Non l’una e/o l’altra opera, ma tutte e due insieme. Perché nella mia memoria di lettore c’è questo: che mentre più o meno quattordicenne leggevo per la prima volta La mite non credevo a una sola parola dell’uomo che parlava, parlava, e parlava, e raccontava di quanto aveva voluto bene alla moglie suicidatasi; e mentre leggevo sempre più o meno quattordicenne per la prima volta Le memorie del sottosuolo non facevo che credere a quest’altro uomo che anch’esso parlava, e parlava, e parlava. Quando invece rilessi entrambi, da più o meno adulto, con un certo sgomento mi accorsi che la voce d’uomo della Mite mi pareva sincerissima (ed era in questa sincerità la tragedia), mentre la voce d’uomo del Sottosuolo mi sembrò impostata, falsa, da non credere. Le due opere, entrambe secondo me bellissime, mi apparvero in tutt’altra luce.
E così, siamo tornati all’inizio della nostra conversazione, o quasi…

GildaPolicastro_CellaGrazie, Giulio, per avermi dato occasione di leggere e rileggere due grandissimi classici. Classici, appunto: ne La mite, in particolare, il racconto si sviluppa con una modalità piuttosto tipica di attivazione della suspense: il protagonista anticipa l’evento fatale (la morte della moglie) e poi ci tiene incollati alla pagina procrastinando il disvelamento delle modalità di questa morte. Tale tecnica si replica nel corso della narrazione, a proposito del misterioso progetto di riscatto del protagonista (e inevitabilmente della sua causa: riscatto da cosa, non ci viene rivelato subito, ovviamente). Perché dici di non credere a quest’uomo? Non ci sono segnali che possano mettere in crisi la credulità del lettore: il narratore non si nasconde, non si presenta migliore di quanto non sia, manifesta, anzi, i suoi propositi biechi (quello di mantenere il ménage familiare in un regime di ristrettezze non giustificato, o non subito) senza cercare la comprensione del lettore. Ecco, questa mancanza di complicità è forse il tratto che vagamente potrebbe far pensare a un’ascendenza simile: in fondo anche se non hanno lo statuto tragico dei personaggi negativi dostoevskijani, i miei non sono personaggi simpatici o che richiedano lettori simpatetici. Di mezzo c’è effettivamente la psicanalisi e la scrittura come terapia: se serve anche a liberarci dal negativo, la scrittura, è giusto e fatale comprometterla col vissuto meno appassionante e meno eroico. Io non ho mai fatto niente di eccezionale, nella mia vita, a condizione di non dover considerare eccezionali le sciagure di varia natura (familiare, professionale), come le morti di persone care o la perdita di speranza in un posto sicuro. Ma non è su questo che si fonda la mia visione negativa. Io una visione negativa delle cose me la porto nel dna chiamiamolo culturale, dalla scoperta di autori come Leopardi o dello stesso Dostoevskij.

E torniamoci, allora: perché ti è venuto in mente? Solo per un discorso di verosimiglianza della voce o di focalizzazione sul personaggio? Mi è stato fatto notare che la mia narrazione, pur svolgendosi in momenti diversi e inserendo episodi del passato in un presente che è il tempo prevalente del narrato, di fatto livella la percezione temporale del lettore, per cui quel passato e quel presente hanno un impatto analogo sulla fiducia che questi ripone nella voce che narra. Mi spiego: non è in questione un narratore che è inattendibile nel momento stesso in cui dice io, ma, caso mai, la coerenza interna. È a questa che devo, nella memoria che ho della stesura di Cella, l’inserimento dell’ipotesi posta a conclusione. Io che non mi curo dei fratelli e delle sorelle che compaiono o scompaiono dal libro, probabilmente perché la mia attitudine compositiva si articola in sessioni di scrittura e perciò si confà più al racconto, come ispirazione, che al romanzo, ho poi però bisogno di giustificare, all’interno del testo, le eventuali incongruenze. E lascio questo compito al personaggio meno in vista della storia, al fantasma che riappare e sistema tutto: nel mondo dei fantasmi non ci sono, credo, problemi a macchiarsi le piante dei calzini a strisce. Ma qui mi fermo un momento perché potrei non aver capito cosa intendevi, accostandomi a quei due testi: puoi reindirizzarmi, ora che li ho rinfrescati alla memoria?

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