di Antonella Cilento
[Il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio si è concluso. Nel corso del convegno abbiamo tuttavia ricevuto ulteriori contributi, che volentieri pubblichiamo. Questo articolo di Antonella Cilento apparve nel quotidiano di Napoli Il Mattino il 7 dicembre 2014].
Di Mario Pomilio, in Italia, pochi si ricordano, e fanno male. Peggio ancora, pochi hanno letto oggi Il quinto evangelio, che, uscito nel 1975, si stagliava allora, come adesso e anche di più, fra i capolavori assoluti della seconda metà del secolo e come un anticipazione di narrazioni che si sarebbero tradotte in fenomeno, che avrebbero fatto gridare alla rinascita del romanzo dopo la stagione del saggismo, gli anni Settanta, e che in realtà erano più centoni di ottima fattura che autentiche avventure letterarie, ovvero Il nome della rosa di Umberto Eco. Ma forse era di questa grande stagione di fini autori, come Pomilio era, anticipare in silenzio, come in fondo accadeva – e ne parleremo – al Giuseppe Patroni Griffi di Scende giù per Toledo, diretto antesignano dell’opera innovativa e amata di Pier Vittorio Tondelli. Sarà che a Napoli persone, cose e scrittori si nascondono e si dimenticano benissimo, come sapeva Gustaw Herling, il solo che fra i contemporanei penso vicino all’opera di Pomilio sia pur su basi del tutto diverse, che, come Pomilio, a Napoli venne a vivere e a morire, quasi in silenzio. Ma Pomilio scelse anche un’altra condizione, molto rara: da napoletano d’adozione, era nato in Abruzzo e a Teramo avrebbe dedicato lo sfondo di altri suoi romanzi, della città non parlò mai e non la fece mai protagonista di alcun suo scritto. Dunque, oggi, dovendo scegliere un luogo da connettere a questo romanzo lo farò in totale arbitrio, non pensando alle scuole pubbliche dove pure insegnò, da via Foria a via Andrea D’Isernia, ma al senso del nascosto, del cancellato, di quella menzogna che in fondo è verità manipolata, come si legge in questo romanzo, e cioè da Santa Restituta, ovvero da quel che resta della grande chiesa bizantina, la più antica della città e ai tempi la più grande, da oltre un millennio nascosta e divorata dal Duomo.
Di Santa Restituta, che ha resistito sotto una navata della chiesa maggiore, l’aspetto bizantino è del tutto svanito: Costantino la fece costruire, qui governarono la città i duchi-vescovi, uno dei quali, Atanasio, la riempi di mosaici e decorazioni facendola bellissima. Quel che vediamo, però, è uno splendido caveau barocco – una traccia delle opere secentesche è anche nella bellissima mostra su Tanzio da Varallo a Palazzo Zevallos, un Giuda inquieto ci osserva dai frammenti trasportati a Capodimonte – ed il passato, la verità di un’altra Napoli, di un tempo sommerso, ce la possiamo solo immaginare.
Qui, come dalla Colonia bombardata da cui prende le mosse Il quinto evangelio, qualcosa è andato perduto e qualcosa torna sempre a chi lo cerca, come la versione ignota del vangelo che si cerca in questo romanzo – ecco la pur ovvia somiglianza con la ricerca dei perduti libri di Aristotele in Eco – poiché, scrive Peter Bergin, primo narratore del libro, “la filologia, proprio come il romanzo, non è altro, in fin dei conti, che un’esegesi del possibile, presuppone in larga parte il contributo dell’immaginazione”. Peter Bergin, in gioventù, quando ancora non sapeva che “si può ridere accanto a un morto”, sconvolto dalla tragedia della guerra, dall’enorme massa di morte e distruzione che lo circonda, trova per caso in una canonica abbandonata un’informazione: il prete che l’abitava aveva rintracciato l’esistenza di un Quinto evangelo, oltre i quattro riconosciuti, e non uno dei mille apocrifi esistenti, ma proprio una nuova autorevole scrittura. Ma la traccia, come compare, scompare e il ricercatore, ora che è molto vecchio e sta per morire, rievoca i tentennamenti, le parziali scoperte, i viaggi fra monasteri, chiese e biblioteche che lo hanno condotto, inaspettatamente poiché altro era il suo destino, per tutta la vita.
Una traccia per similitudine arriva da una piccola città italiana, Vergato, che è sul Reno, come Colonia, dove tutto inizia, è sul Reno (compaiono gli Appennini, che sono lo sfondo di un grandissimo racconto di Silvio D’Arzo, Casa d’altri, dove una vecchissima guardiana di capre chiede il permesso di suicidarsi a un prete e la verità che a tutti sfugge ma a volte, impensata, balena somiglia tanto a questa di Pomilio; e come Pomilio, anche D’Arzo non è fra i più ricordati della nostra letteratura). La ricerca del libro, anzi di un Libro con la maiuscola, la ricerca di una verità perduta – o, forse, come scrive Emma Giammattei, anche della Letteratura perduta, anche questa con la maiuscola – che, al suo ritrovamento, spezzerà la separazione fra Dio e l’uomo.
“Parole strappate al silenzio”, scrive Bergin al segretario della Pontificia Commissione, sono quelle che compongono, dopo la prima lettera l’intero romanzo, ricostruzione di documenti inventati (meravigliosamente inventati) e raccolti da Bergin e dai suoi allievi fra la Calabria e l’Anatolia, in giro per l’Europa. “Se io non l’ho trovato”, ripete Bergin, “dev’essere perché non ho saputo cercar bene”: eterna metafora della nostra ricerca spirituale o di verità e senso, religiosa o laica che sia (perché un altro danno subito da Pomilio è quello di essere stato identificato, come certo voleva, fra gli scrittori d’area cattolica e questo porta in Italia ad un’automatica damnatio memoriae: e siccome chi scrive di certo non appartiene all’area cattolica, insisto che un capolavoro è un capolavoro e le idee sono una misera cosa rispetto alla riuscita nell’arte). E così, sempre seduta su questa panca (umida) di Santa Restituta, rientro nel magnifico capitolo intitolato Il manoscritto di Vivario – Vivarium fu uno dei fulcri culturali calabresi, che conservò manoscritti e li trascrisse durante i primi secoli delle invasioni barbariche, come e prima di Montecassino – lettere che vanno dal VI al XIV secolo: un monaco greco arrivato da Efeso con un vangelo scritto da Giovanni prima dell’Apocalisse dove si dice che il battesimo era dato dagli apostoli e non da Gesù; l’arcivescovo di Canterbury che dice: “convinto com’ero che la Parola fosse già tutta detta, non avevo compreso che più la si penetra, tanto più si fa parlante,, più ci appare manifesta, più procede a manifestarsi, sicché basta indefinitamente alla nostra sazietà e alla nostra fame (…) Ma ci hanno proprio trasmesso tutto?” e che narra la leggenda secondo la quale ogni anno arrivi dal mare calabrese un monaco con un libro e dei pesci e vada a depositarli, rinnovo di verità, sull’altare del Vivario; e poi il manoscritto conservato a Bobbio (“cercate le cose grandi e le piccole vi verranno in dono”).
Il romanzo procede per frammenti, quelli ritrovati dalla segretaria di Bergin, come questa antica leggenda armena (“analoga”, scrive Bergin, “a una indiana registrata da J.L. Borges, che, scrittore di scritture ipotetiche e cieco, non poteva non essere fra queste pagine di Pomilio, meglio e più discretamente rappresentato che nel monaco cieco e rigido di Eco): “Si dice laggiù che ciascuna generazione conti quattro uomini giusti che custodiscono il quinto vangelo. Ciascuno però ne possiede solo la quarta parte e conosce unicamente quella senza sapere delle restanti. Si dice pure che quando il libro sarà stato ricomposto tutto sartà giustificato e la carità sarà perfetta. Perciò essi non cessano d’andare di luogo in luogo. Ma come trovarsi, se nemmeno sanno di cercarsi?”. O come l’epistolario intorno a un altro monaco greco, Atanasio, (vedi che Santa Restituta è il posto giusto? Gli Atanasi, monaci e duchi s’incontrano) arrivato in Abruzzo a correggere i Vangeli con il Quinto o quello fra vescovi e papi. Ma l’umanità, scrive ripetutamente Pomilio, è impegnata ogni giorno a redigere il quinto vangelo e ogni notte perde la luce, come l’apostolo Nicodemo in una delle leggende narrate nel romanzo, in una delle leggende narrate nel romanzo: così, attraverso i secoli, il professor Bergin scopre chi si rivela testimone e chi ritrova il vangelo, storie riscritte davvero dalle cronache, come quella di Fra Michele Minorita, e quelle inventate sul modello delle cronache, come la professione di fede di Pietro d’Artois, la vita del cavalier Du Breuil o quella del sacerdote Domenico De Lellis, e giù nel tempo, fino alla morte del professore e al dramma teatrale ambientato nella Germania della guerra, che tira in campo anche Giuda e Pilato, oltre al Quinto Evangelista.
E’ inevitabile osservare che con il romanzo magistrale di Pomilio dialoghi l’opera di Diego Fabbri (Processo a Gesù) e quella di Carlo Coccioli (Davide, uscito per lo stesso editore di Pomilio, Rusconi, proprio l’anno dopo “Il Quinto Evangelio”, nel 1976), un altro grande dimenticato della nostra letteratura, oggi più famoso in Messico e in Francia che in Italia, o un libro riscoperto da poco e edito da Rogiosi di Bruno Lucrezi, La dannazione di Giuda. Tuttavia, la straordinaria scrittura di Pomilio, che pure in vita ottenne grandi riconoscimenti, fra cui lo Strega per Il Natale del 1883, riscrittura di un tragico episodio della vita di Manzoni, squilla su tutti dell’assoluta bellezza della verità dell’arte. L’anno che sta arrivando, il 2015, conterà il quarantennio dall’uscita di questo romanzo, edito nel 1975 – e oggi rintracciabile solo tramite librerie antiquarie, vedi il destino, proprio come certe fonti introvabili che Bergin pesca dai fondi delle biblioteche. Giusto sarebbe fare un Meridiano dell’opera tutta di Pomilio, ma sento dire che non accadrà, forse per la sua famosa appartenenza cattolica o forse, il che mi sembra più probabile, perché i soldi mancano e, allora, oggi chi leggerebbe Pomilio, deve chiedersi qualcuno nelle case editrici? Dunque, cominciamo da qui, come per Compagnone, come per Ramondino: che i lettori s’incuriosiscano e chiedano!
Tag: Antonella Cilento, Aristotele, Atanasio, Bruno Lucrezi, Carlo Coccioli, Costantino, Diego Fabbri, Emma Giammatei, Fabrizia Ramondino, Giuseppe Patroni Griffi, Gustaw Herling, Jorge Luis Borges, Mario Pomilio, Nanni Compagnone, Pier Vittorio Tondelli, Silvio D'Arzo, Tanzio da Varallo, Umberto Eco
4 novembre 2015 alle 19:35
Ma un po’ d’aria fresca, umilmente?
4 novembre 2015 alle 20:23
Puoi provare a spiegarti meglio, Nicola?
5 novembre 2015 alle 09:57
Antonella cara, sei riuscita a inserire nel pezzo Patroni Griffi, e D’Arzo e Tondelli: sei speciale! Io non ho letto Pomilio, e non ho in programma di farlo per ora, ahimè. Ma ti son grato per questi accostamenti.
5 novembre 2015 alle 13:36
Non conoscevo Pomilio e da quel che leggo merita senz’altro, sia chiaro. Però insomma.. mi chiedevo se non fosse possibile spezzare un attimo il Pomilio con qualcosa di spassoso, breve, che invogliasse i commenti. Tutto qui.
5 novembre 2015 alle 14:26
Tipo questo?
5 novembre 2015 alle 17:07
Non so che dire.. Mi stavo chiedendo una cosa: ti è mai capitato di ospitare, qui, un autore, un brano che giudichi divertente? Che ti ha fatto davvero ridere?
5 novembre 2015 alle 17:14
Sì. Ma che c’entra? (E: il mio scopo non è certo quello di “invogliare i commenti”).
5 novembre 2015 alle 18:00
Ho solo detto che dopo Pomilio mi sarebbe piaciuto qualcosa di fresco che desse adito a un po’ di commenti, no? Il tuo scopo non so qual è ma questo blog è bello e lo frequento volentieri in ogni caso.
La mia domanda non c’entra nulla con le cose prima, ed eventualmente me ne scuso, non so.
E’ nata perché mi sono accorto che in questi mesi di letture del blog non ho incontrato nulla che avesse a che fare con la comicità (a parte i decaloghi, ok), credo. E te ne chiedevo conferma, e mi chiedevo: “Qual è un autore, un’opera che Giulio considera divertente, che lo ha fatto ridere? L’avrà segnalata?”. Se ti va di rispondermi, mi fa piacere. Se no, amen!
5 novembre 2015 alle 21:18
Nicola, io ultimamente ho riso tantissimo con La dissoluzione familiare di Enrico Macioci, libro conosciuto grazie a Giulio.
6 novembre 2015 alle 09:01
Ripeto, Nicola: il mio scopo non è “dare adito a un po’ di commenti”.
A me sembra, per esempio, che il romanzo di Michela Fregona Quello che verrà sia pieno di fine ironia. E che abbia momenti di esplosiva comicità.
6 novembre 2015 alle 12:10
Grazie per l’indicazione, cercherò qualche informazione qui sul blog.
E scusami se ci ritorno, ma: io non ho mai detto che il tuo scopo sia/debba essere quello di dare adito a un po’ di commenti!
6 novembre 2015 alle 14:09
Nicola, hai scritto, a due riprese:
E io ho precisato, due volte, che il mio scopo non è quello di “invogliare” o “dare adito” a commenti. Dal che consegue che non mi metto a pubblicare qualcosa solo per provocare commenti. Tenendo conto, tra l’altro, che le discussioni interessanti, quando càpitano, sono in genere su argomenti serissimi.
6 novembre 2015 alle 17:08
Se sono il DJ di una radio indipendente che cerca di promuovere gruppi di nicchia, il mio scopo non è certo mandare pezzi dei Clash, ma se un ascoltatore me lo richiede posso comunque decidere di accontentarlo, no?
Mi sembra lampante, che ciò che sta a cuore al curatore di questo blog non è promuovere i commenti pubblicando cose frivole, ma che ne sapevo io che non era assolutamente disposto a fare un’eccezione?
“Il mio scopo non è” non significa “Non ho assolutamente intenzione di”, mi pare.
E quindi, insisto: non so quale sia il tuo scopo, io ho solo detto che dopo Pomilio mi sarebbe piaciuto eccetera eccetera (sì, ho capito: non lo farai).
Per quanto riguarda la tua opinione sulle discussioni interessanti che riguardano solo argomenti serissimi: se parlavi di questo blog mi fido, naturalmente. Ma nella vita non mi pare proprio, se dio vuole.
7 novembre 2015 alle 06:16
Nicola, l’hai detta giusta: vorrei che questo blog fosse un po’ diverso dalla vita. (In particolare, da quella parte della vita che incontro al bar).
Quanto alla tua affermazione:
puoi renderti conto facilmente che è falsa. Basta qualche esempio. Il tuo scopo nella vita, è forse andare di corpo? Presumo di no. Ciò significa che non hai assolutamente intenzione di andare di corpo?
7 novembre 2015 alle 16:29
Secondo me ti sei un po’ incasinato, Giulio..
Io ho scritto:
“Il mio scopo non è” NON significa “Non ho assolutamente intenzione di”.
E continuo a crederlo, e -mi pare- adesso lo credi anche tu.
E ora sotto con gli esempi: la cacca.
Il mio scopo è cagare? No: il mio scopo non è cagare. Questo significa che non ho assolutamente intenzione di cagare? No, anzi: cagherò.
Secondo esempio: il DJ di nicchia (te l’avevo messo apposta!). Il mio scopo è mettere brani dei Clash? No. Questo significa che non metterò brani dei Clash nemmeno su esplicita richiesta? Beh, non esageriamo: qualcuno lo metterò.
Se non hai capito questo, cosa hai capito del mio ultimo commento? Era proprio sulle basi di quanto sopra che continuavo a ripeterti “Non so quale sia il tuo scopo, TUTTAVIA vorrei..”!
E finalmente veniamo all’ultimo esempio: tu.
Il tuo scopo è incoraggiare i commenti fra i frequentatori di questo blog? No. Questo significa che non pubblicherai nulla che possa incoraggiare i commenti neanche su esplicita richiesta? Sì: significa proprio questo (“Dal che ne consegue..”, parole tue). Giusto?
Per quanto riguarda i bar, a me piacciono molto e li frequento assai. Non mi sembra che ci siano più persone insulse nei bar che nei cinema, o nelle scuole, o nei blog. Direi che il problema delle “chiacchiere da bar” si verifica quando qualcuno ha la pretesa di trattare questioni serissime come se fossero noccioline: non il contrario, mai il contrario. E questo accade ovunque.
8 novembre 2015 alle 20:30
Chiedo scusa, Nicola: una svista. Non ho letto il “non”.
9 novembre 2015 alle 19:53
Vai tranquillo. A me importa solo non venir frainteso.