giuliomozzi intervista Gilda Policastro
[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm]. [La domanda precedente]
Ci puoi raccontare la gestazione di Cella? Sapresti ricordare il giorno e l’ora e il punto in cui ti è venuta in mente la prima cosa, in cui hai messo giù le prime parole? E, questo racconto che è una specie di grande citazione (dentro virgolette fino all’ultima pagina invisibili), e che contiene a sua volta un altro testo (un diario): da che parte l’hai cominciato? (Dico nell’immaginarlo, e nello scriverlo). E dopo aver cominciato, come hai lavorato? Con quali tempi? Con quali, eventuali, andirivieni?
Si tratta in verità di due momenti distinti. La parte che contiene il diario della terrorista è la prima che ho scritto, diversi anni fa, ancor prima del Farmaco. Mi era stato commissionato un racconto che avesse un’ambientazione storica o che si riferisse a un fatto preciso, a una data, addirittura, e allora mi tornò in mente questo episodio d’infanzia legato alla clinica del paese in cui abitavo e al medico che aveva curato la terrorista. Poi non se ne fece più nulla, di quell’antologia per cui era stato commissionato, e dunque lo lasciai lì. Nel frattempo avevo scritto due romanzi e il mio stile si era andato evolvendo, oppure involvendo, se consideriamo un’idea più tradizionale di narrazione: mi è stato fatto notare da Giorgio Falco durante una presentazione di Cella che la parte contenente il diario è anche l’unica minimamente descrittiva in un libro che altrimenti risulterebbe quasi del tutto privo di ambienti e luoghi. La mattina in cui ho iniziato a scrivere Cella me la ricordo perché anche in quel caso ero mossa da una sollecitazione esterna, un concorso letterario o qualcosa del genere. E dunque con atteggiamento tra la scolara diligente che fa i compiti e l’impiegato che deve timbrare il cartellino a fine lavoro, cominciai a studiare l’architettura del romanzo.
Scrissi un paio di pagine per chiarirmi le idee e poi sentii che era il momento di partire. Non sarà più millantabile dal romanticismo questa idea dell’ispirazione che ti visita a un certo punto però a me succede sempre di sentire distintamente qual è il momento di liberare le dita sulla tastiera. Succede che a quel punto scrivo per ore, di getto, senza un eccessivo controllo formale, quello viene dopo, a stesura ultimata e diventa estenuante perché posso passare le ore e le giornate a spostare punti e virgole o a cambiare aggettivi, purtroppo non sempre preferendo la soluzione migliore. Purtroppo, poi: la soluzione migliore per me che ho l’orecchio allenato in un certo modo dalla poesia è sempre quella che suona meglio, prosodicamente. Ci sono altri modi, spesso più ricercati o letterari, tanto sul piano lessicale che sintattico, ma quelle che consuonano col ritmo che seguo nella lettura o rilettura mentale sono le soluzioni che adotto con più scarsa disponibilità alla modifica successiva. Non è facile editarmi per questa ragione, che credo valga per molti scrittori, sicuramente per i poeti: quando un giro di frase ha assunto quella configurazione prosodica è impossibile disporsi ad ascoltare un’altra musica, meno che mai a farla propria. Un giorno, in un momento di impasse e anche di stanchezza verso questo personaggio che cominciava a girare un po’ troppo a vuoto finanche per la mia propensione all’introspezione o all’intorcinamento, pensai che era il caso di sdoppiarlo, di creare per questa donna-cella un alter ego, un personaggio che fosse però alla sua altezza, che potesse entrare in competizione con lei e spartirsi il campo d’azione (si fa per dire), almeno per un tratto. Mi tornò in mente la vicenda della terrorista e decisi che forse quel romanzo o racconto abortito che poi avrebbe inizialmente dovuto scriversi col “tu”, poteva diventare, mutando la persona e passando alla terza o meglio ancora alla prima, una parte del nuovo libro e la terrorista una coprotagonista. Ne aveva ogni diritto, di fatto. Nel momento in cui decidevo questo mi sentivo un po’ il contadino che fa un innesto e un po’ Pirandello che si vede comparire i personaggi davanti: qualcosa tra l’artigianato letterario spicciolo e il più novecentesco rovello d’autore. Tra l’altro il mio nuovo editor Giulio Mozzi (cioè tu) mi fece subito notare che questo documento era l’unico della vicenda e che forse cozzava un po’ con la natura prevalentemente psicologica e introspettiva di un narrato che tra l’altro si affidava interamente al monologo interiore. Però poi ne abbiamo parlato a lungo e attraverso qualche minimo aggiustamento siamo addivenuti a una soluzione che mi è parsa ottimale. Quella cioè di inserire un’interruzione della prosa diaristica a mo’ di chiosa o commento della voce principale. Poi su tutto c’è stata la difficoltà di inoculare nel lettore il dubbio che a parlare fosse davvero una donna e quel tipo di donna: a quanto apprendo dalle reazioni dei primi lettori, è un dubbio che sorge immediatamente, ma c’è anche, a fugarlo, un’abitudine a considerare che nella finzione narrativa si diano possibilità non mimetiche, e dunque l’eventualità che una donna semicolta o non colta si possa esprimere in maniera quanto meno avvertita. Rispetto ad altri miei scritti, Cella ha richiesto molto meno labor limae, curiosamente: la scrittura rispetto agli altri romanzi, in particolare, si è come liberata dall’obbligo della letterarietà che sentivo più vincolante in passato. Mi piace che la letteratura sia anche ipertestuale, come lo intendeva Genette, cioè che si nutra di altra letteratura (e non è mancata anche per questo libro la caccia alle criptocitazioni, con una nota di merito per chi ha riconosciuto i due passi quasi a calco di Flaubert), ma stavolta l’andamento monologante, oltre che la natura del personaggio, ha eluso quelle autocensure sui luoghi comuni o sugli aspetti più bassi dell’esistenza e dunque anche della lingua, al contempo frenandomi circa i vezzi a quanto pare troppo intellettualistici degli altri due libri. Insomma, sapere bene come scrivere male, come diceva quello.
[continua…]
5 novembre 2015 alle 12:29
È molto interessante quest’intervista, e soprattutto il “metodo” dell’intervistatore fa sì che i testi abbiano valore, interesse anche svincolati dall’opera (che io non ho ancora letto).