giuliomozzi intervista Gilda Policastro
[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm].
Hai detto più volte che consideri Cella la parte finale di una sorta di trilogia, iniziata con “Il farmaco” e proseguita con “Sotto”. In che senso e in che modo queste tre opere, secondo te, costituiscono una trilogia? Che cosa è che è finito, per te, con Cella? E che cosa immagini (o già sai) che comincerà?
Sicuramente più nel senso della Città di K che delle Sfumature: questo va da sé. Ho cominciato a lavorare sul tema del dolore e della costrizione, in connessione l’uno all’altra, a partire da un’esperienza di condivisione degli spazi dei malati, di rifiuto iniziale della loro condizione, di rabbia verso tutto ciò che stravolgeva la vita loro e altrui soprattutto sul piano materiale, dal corpo ai bisogni. Ho cercato risposte nei libri, nelle considerazioni sulla malattia di Foucault e dei foucaltiani e ho provato a razionalizzare la reazione nervosa trasformandola in narrazione. Qualcuno ha detto “scrittura-terapia” qualcun altro ha trovato elusivo il racconto della morte. Io però ero abbastanza soddisfatta, perché Il Farmaco iniziava, lo sentivo distintamente, un periodo nuovo per me, a partire dal fatto che avevo pubblicato un “romanzo”. Avevo scritto poesia e critica, prima, ma col romanzo comincia un percorso diverso, perché uscendo da ambiti più di nicchia, si fanno inevitabilmente i conti con l’orizzonte d’attesa. Quando presentavo Il Farmaco mi s’imputava un’eccessiva cupezza, un orizzonte malato e senza speranza (la vita?). E non da parte dei critici, capitava soprattutto con gente a me sconosciuta, lettori comuni, diciamo. Una volta ho aggredito una signora del pubblico, chiedendole se per caso la sua vita fosse tutto un cinguettare di uccelletti, perché la mia proprio no. E non serviva tirar fuori Svevo, la malattia della materia, Leopardi e l’ossimoro della vita mortale: no, nessuno sembrava volerne sapere di sfighe e di sventure e allora perché, provò a suggerirmi il mio editore, non spingi un po’ il pedale dell’ironia, che pure è nelle tue corde? Racconta qualcosa che abbia a che fare con la tua vita, lascia perdere i morti.
Mi misi all’opera e cominciai a scrivere la storia di due studentesse amiche che finiscono per darsi battaglia a un concorso. Ma poi comunque si ammalava qualcuno, qualcun altro viveva una condizione di imminenza della morte. Non riuscivo a sottrarmi alla malia della catabasi, che era stata la mia prima materia di studio: soprattutto, mi avevano ispirato gli studi di Enrico Testa sull’interposta persona, sulla voce che ci parla dentro, e che poi parla al posto nostro nei testi che scriviamo, e che spesso è la voce degli scomparsi, col carico di sensi di colpa che produce. Il senso di colpa. Il senso di colpa di essere rimasti qui, di non aver potuto far nulla, di non poter più dare un’esistenza materiale, a partire dalla voce, a chi non c’è. Nel frattempo tutto questo era diventato poesia, il mio libro Non come vita, uscito in concomitanza col secondo romanzo. E quindi, di fronte allo schermo bianco e alla nuova sfida del quando esce il tuo prossimo libro, mi sono detta che se proprio volevo chiudere con i morti dovevo dare di quella condizione l’unica rappresentazione che mi fosse dato immaginare: un travestimento. Dei morti quello che colpisce è l’immobilità, la cessazione del movimento e del pensiero. Allora ho iniziato a scrivere una sorta di loop e in una condizione di autocostrizione, ogni giorno alla stessa ora cominciavo a scrivere e lo facevo per lo stesso numero di ore. Poi una pausa, come l’ora d’aria di una prigioniera. Così è nata l’idea di Cella, oltre che dalla prigionia amorosa che mi portavo dietro da Proust, mentore della seconda parte di questa ideale trilogia. Sì, perché dietro l’esperienza che raccontavo c’era e c’è la letteratura che leggo o che pratico, proprio: ci sono certi libri che diventano totem e che quando ne parli sono come la lettera, il verbo che orienta o legittima i tuoi comportamenti, così agli amanti che mi rimproverano la gelosia eccessiva a mia volta rimprovero di non conoscere Albertine. Dietro il primo libro c’era più filosofia o psicanalisi che letteratura, infatti l’epigrafe è da Groddeck e dice, più o meno, che è insito nell’amore il desiderio di voler fare del male all’amato. Nel secondo ci sono i fantasmi proustiani e l’idea che tutto quello che viviamo sia per lo più frutto di proiezioni e di attese frustrate, nel terzo l’idea barthesiana della tristezza come condizione conseguente a una perdita. L’amore stesso è una sorta di prigionia, una condizione in cui si vuole restare, malgrado tutto, senza aprire spiragli alla ragionevolezza. Già nel Il Farmaco si parlava d’amore (“se esistesse”, come aggiunse nella bandella con una felice intuizione Mario Desiati, il mio editor di allora): l’amore come malattia e possibilità di cura, con la stessa ambivalenza del sostantivo scelto come titolo. Nel secondo la percezione dell’amore è sdoppiata, associata com’è a una negazione (l’anoressica) e a un eccesso (la procace e voluttuosa). Con Cella si compie una parabola perché l’amore, se lo posso dire con una metafora molto violenta presa in prestito dall’immaginario della mia protagonista, è un’inculata, o detto meno volgarmente una condizione di inevitabile squilibrio delle tensioni, di sperpero da una parte contenimento dall’altra, anche solo nei diversi tempi, scambiandosi i ruoli: in questo senso non ci sono volontà precise e deliberate, ma accadimenti, scosse, spinte, fughe, ritorni, il tutto senza nessuna possibilità di controllo da parte di chi si trova accidentalmente a subire. Uso con difficoltà questo lessico perché è facile cadere nell’equivoco del sadomasochismo come categoria interpretativa di queste dinamiche: ecco, non so esattamente in che direzione mi muoverò da adesso in poi, anzi, aspetto che qualcuno, come in passato, mi dia un input (dovresti scrivere un libro su questo o quel tema, personaggio, argomento), ma so con certezza che non voglio più affrontare questo tema dell’intercambiabilità dei ruoli, che è stato un po’ il fil rouge dei tre libri e anche dei miei studi, da Pasolini in giù. Adesso non so, potrei occuparmi di (segue vuoto, buio, sensazione di mare aperto).
3 novembre 2015 alle 09:42
a me interessava di questa trilogia soprattutto il progressivo allontanarsi di Gilda da un fattore “biografico”, nel senso che mi pare che nei primi due testi ci siano luoghi e situazioni più strettamente legati al vissuto dell’autrice, mentre in Cella questa distanza dal “vissuto biografico” si fa maggiore e paradossalmente nel romanzo attuale ci si decide per l’uso della “prima persona”. Ecco a me piacerebbe chiedere a Gilda qualcosa proprio sui “diversi modi di dire Io”, sull’uso della “terza” e della “prima” persona nei romanzi.
3 novembre 2015 alle 14:48
Che obiettivo di vendite si è posto Marsilio per un libro sostanzialmente letterario come Cella? Grazie. Saluti.
3 novembre 2015 alle 15:25
Giuseppe: diciamo che, di questi tempi, un paio di migliaia di copie sarebbero assai apprezzate (e sono anche difficili da raggiungere). Ma, in realtà, è raro che nelle case editrici si fissino obiettivi specifici e precisi per le vendite di questo o quel libro.