
Mario Pomilio nel suo studio. Fine anni Sessanta
di Tommaso Ottonieri
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].
In un paio di occasioni, non troppo tempo fa, m’era occorso di addentrarmi, per l’onda di certi domestici ritrovamenti (semi-miracolose riemersioni di cartelle e fogli sparsi, in doppia copia o in fotocopia, ultime seppur riprodotte tracce d’una scrittura nel luogo proprio, in cui era potuta lievitare), nel palpitante intrico dei laboratori di mio padre, specie di quelli meno finalizzati a progetti che avessero trovato infine compimento; ne era risultata, quasi mesmerica, una sorta, potrei dire, di impreveduta avventura fantasticamente-filologica, voglio dire al quadrato (per riflettere qui la celebre espressione che, a caratterizzare il suo metodo e la sua opera, coniò Pietro Gibellini).
Da quelle brevi, ma per me intense incursioni, emergeva a risalto uno scrittore in parte imprevisto (imprevisto, cioè, solo per chi senza saperne si fosse arrestato all’etichetta incrostatasi attorno al suo nome); un Pomilio meno conosciuto, ma affatto spinale: quello “emblemista” o forse (meglio) contemplatore di emblemi, emblemi da disserrare e che pure si ostinano a racchiudere, come un’ostrica, la compattezza irriducibile del loro pulsante mistero, in bilico fra spirale della rivelazione e la vertigine del non-senso.
È questa insomma la ragione supernamente “metafisica” (al modo che fu dei lirici secentisti), la quale avvolge come un tenue-invisibile, persistente diaframma la musica mentale della sua scrittura, tutta vibrante, sempre, nei più abissali chiaroscuri dell’evidenza (e cioè della indiscernibilità, che dal cuore stesso dell’evidenza, in quella musica si irradia). Come nelle pagine, che trovo sublimi senza ombra di riserva, del Racconto interrotto ovvero (fu poi questo il titolo, non però scelto da lui) Una lapide in via del Babuino (dove: “Chi avesse voluto studiarsi qualcuna delle sue pagine manoscritte, vi avrebbe riconosciuto, dai pentimenti, dalle cancellature, dagli indugi intorno a una frase che non si lasciava completare, dai vocaboli annotati sui bordi del foglio a mo’ di segnali e rimasti inutilizzati o utilizzati solo più tardi, la traccia dei suoi lunghi appostamenti per sorprendere la rapida scia di un’idea, delle gallerie scavate per offrire una nicchia semantica al balenio delle sue intuizioni, delle sue sofferte vittorie espressive, dei suoi molti naufragi di fronte alle cose che non si lasciavano scrivere”); e dei suoi dintorni (in un appunto non datato, ma credo da far risalire allo stesso, destrutturato corpo di fabbrica: “Mi pare che la realtà mi sfugga se non riesco a fissarla in parole. Perciò scrivo per strada, arrestandomi: montagne di appunti che poi non sfrutto. Parole strane, idee subito dopo indecifrabili”).
Di fatto, e a giudicare dalle sue sparse note (dilaganti di taccuino in taccuino, di cui rinvenivo tracce risalenti già ai primi anni ’50), quel che sembra incistarsi nella ricerca di Mario, è una esigenza di definizione di quella “materia allo stato fluido”, per cui fin dalla vigilia dell’esordio narrativo (in un appunto, per la cronaca, della fine del ’53: quando ormai l’esperienza in versi, le liriche dei mai più da lui raccolti Emblemi, era prematuramente archiviata), egli con una certa giovanile baldanza si interrogava (lui, già allora incessante invisibile diarista) sulla “differenza tra diario e romanzo”, in alcune righe che – alla luce radente (orizzontale, anarrativa) dei tempi della Lapide, – appaiono stranamente premonitorie, ormai accendendosi di una modernità diversa… vi si sottolineava l’eccellenza del romanzo in cui “è già tutta materia finita, assurta a coscienza presso l’autore”, eppure è alla forma-diario – che Mario allora (non riconoscendo in esso alcuna “evidenza assertiva”) qualificava come “un lavoro di scoperta, un esercizio su una realtà ancora in fieri”, emersione appunto, in pagina, di quella “materia allo stato fluido, e quindi incomunicante”, – è alla metafisica del diario, che Mario darà forma, nella fase estrema e inconclusa del suo lavoro, la più consustanzialmente “interrotta”…
(A citare dal Cane sull’Etna, che apre vertiginosamente questa fase: “La sua ambizione più forte […] era […] un libro assolutamente non dominato e assolutamente irresponsabile, che catturasse anche le scorie della sua vita mentale senza affatto curarsi di riorganizzarla o reinventarla: un romanzo potenziale, che non narrasse una vicenda, ma fosse un repertorio d’eventi occasionali o, appunto, una deriva d’indizi metaforici”).
Non è più possibile cioè appellarsi a nessuna materia finita: il romanzo cede alla deriva dei suoi embrioni, alla sua cartografia di schegge; per dar luogo ad altra natura del narrare: tanto più sconcertata, per un autore formatosi su una tradizione classico-assertiva: e tanto più decentrandosi, per andare incontro, ma sempre altrove, alla scintilla d’una rivelazione la quale dovrà restare rimandata: “sempre addosso la sensazione d’essere andato a cercare se stesso in paesi sconosciuti: la sua produzione era la metafora d’un continuo espatrio” (è scritto in un altro appunto inedito, risalente a quel periodo).
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Ora. Le cartografie labirintiche e senza possibile o sia effettivo fine (in entrambe le accezioni del lemma – esito e scopo), caratterizzanti l’iter che avrà esito nell’Interrotto, trovano (trovavano?), di fatto, il loro punto di sapientissimo, e bruciante e sidereo dis/equilibrio, nel Quinto evangelio, proprio (e v. la lunga intervista RAI del ’78, ora al link www.youtube.com/watch?v=trfzy9qTzco, precisamente al ventunesimo minuto del programma, quando Mario annuncia il progetto di quel suo libro da farsi – sicuramente già abbozzato ma che, Racconto interrotto, sarà destinato a restare direi programmaticamente inconcluso, – quale un “libro del congedo” e congedo non di lui inteso biograficamente, ma d’un narratore “classico” o che tale s’era creduto, il quale interroga i suoi interdetti, le strade interrotte, i labirinti del non-finito, che si estendono dai taccuini della sua immaginazione come una sconfinata topografia potenziale…) – Nessuna materia finita, nell’Evangelio, infatti; solo immateria infinita, cioè infinitamente da non-concludere; paradigma indiziario d’una interminabile rivelazione – le cui luminescenze discontinue ogni volta sembrano dissolversi, ingoiate dalle polveri della storia.
La questione, che ci si pone al cospetto di un lavoro come questo (che è altro dalla pura e semplice fabbrica, il tormento del formarsi soggiacente all’opera, ogni opera, di quel che si offre finito senza dichiarare, se non nelle pieghe, l’incertezza del suo tragitto, il reticolo delle possibilità intraprese e di quelle abortite nel nome d’una finzione o del finire, o della finzione del finire), la questione insomma che vediamo porsi, e in modo tanto più centrale nel Quinto evangelio, è (così a me sembra) quella relativa alla sua identità di testo. O meglio: di cosa, per testo, sia da intendere veramente. Perché nel suo nome si riassume certo il punto fermo d’una ferrea, autorevole, persino inscalfibile oggettività. Ma insieme, la sua semantica rimanda ad una serie pressoché infinita di realizzazioni. Se vogliamo, a questo mondo, tutto è testo; e ogni singola realizzazione testuale (in definitiva, ogni atto espressivo singolarmente preso) non è che variante di un testo anteriore, incombente e invisibile, posto al di là di ogni discorso, o retroproiettato, forse, dall’altezza di un futuro che geloso lo cela e non gli consente di snidarsi.
Sì che la testuralità del testo, insieme chiude e smaglia, a ciascun giro, ogni pronunzia o gesto in cui si ri-presenta. Più che opera finita, in questo senso, è testo ciò che si produce per innumerevoli e difformi atti di lettura, e ad ognuno di questi passaggi: quando, assumendo in sé, intiera, la testualità, traslando lingue (o altre forme) sulla propria voce, nelle proprie cellule, colui che si fa testimone di un testo perviene ogni volta a rompere l’unità di esso e così la pur oggettiva quasi plumbea consistenza, mutandola in interrogazione, dialogico snodo (intreccio, o textum) da cui ricominciare: sciogliendo. Perché poi ogni esecuzione traslitterazione interpretazione di un testo presunto originario e per così dire “autorizzato”, costituisce un grado a sé di testualità, che, per transfert, quel testo reinvera, diciamo, ma soprattutto, asimmetrico ad esso, stratifica ed espande: ogni versione, riesecuzione (foss’anche la “semplice” lettura), ogni variante, rientra nella storia di quel testo che ipotizziamo originario, ma insieme se ne discosta; in una dialettica senza fine fra lettera (archetipa e forse ipotetica) e sua ulteriore realizzazione (perlopiù unicamente performativa – lettura, esecuzione, interpretazione insomma – e cioè immediatamente pronta a scomparire). Un testo, vorrei dire, è ciò che resta infinitamente da ricostituire, ossia reinverare, proprio nella deriva da cui il suo silenzio si sporge nell’atto dell’ in/concludersi (ossia, nella disparizione della voce, dio/autore, che lo aveva tramato proprio per potersene astrarre: staccandolo da sé per giungere a oggettivarlo…)… un testo, è ciò che attende di ricostituirsi, certo, dal punto di vista di ciascun singolo atto di lettura: ma non meno, appunto, e giusto qualche terrazzamento più a monte, da quello, pur ormai dimissionato, silente, di colui che lo aveva rilasciato: di chi, suo emittente e responsabile, non aveva potuto fare a meno di chiuderlo o forse arrestarlo: ma sapendo l’inanità, l’effettiva impossibilità, del suo atto, e di fondo, dell’intero iter di testualizzazione, l’inevitabilità del suo impatto col non-dicibile o forse appunto con l’Impossibile… (ma questo è poi già, nel fondo, un tema – o forse il tema, – portante, abissalmente metafisico, – del Natale del 1833). – Oltre che, naturalmente, del Tempo (è anche questa la “malinconia della Storia”, su cui proverbialmente Mario focalizzava). – Non è a caso, d’altra parte, che fra i grandi novecenteschi, un privilegio fosse da lui accordato (più volte dichiarandolo oralmente, ma non saprei quanto nella sua pubblicistica) al fantasma di Borges.
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Ma, ecco: ormai, per (non) concludere… La straordinaria e insieme quasi straniante modernità (sempre avvenire; sempre da compiersi) del Quinto, è anche, mi sembra, nella sua rinunzia a una compattezza di opera, a una definitività di monumentum: la quale si disintegra o meglio si moltiplica – e disseminata, per paradosso si compatta – nell’infinità delle sue singole realizzazioni. È necessaria un’assenza, un’impronta sottratta e silente, per dar luogo al riverberarsi reticolare, dialogante delle voci. “L’idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell’Apocrifo degli Apocrifi che prolunga e reinvera perpetuamente il messaggio, l’idea del libro perpetuamente inseguito e perpetuamente nascosto […] il quale soggiace alle Scritture già note e di continuo ne modifica e ne amplifica il senso, trasformandone le verità in una specie di meta mobile” (così scrisse Mario, in Preistoria di un romanzo), ci pone dunque nella sfera, piuttosto, del testo come testura, sistema instabile il quale (non troppo diversamente dal Manganelli del Nuovo commento, poi – commento a un testo che non c’è perché, riassumeva inossidabile Calvino, questo testo è Dio e l’Universo…) ruota intorno a un testo ipotetico, un testo impossibile, il quale non si dà, non si rivela, testo forse nascosto e comunque mai rivelabile del tutto, proprio perché la voce multiversa del Dio… e che solo consiste, nel fondo, delle sue innumerevoli e discontinue incarnazioni, enunciate nei sovrapposti reticoli del tempo da serie di testimoni (di carne, di carta) al modo delle voci di tanti uomini-libro, per citare da un romanzo assai amato da Mario.
Secondo il senso inverante e impossibile, che l’orma di Mario c’induce a inseguire (immancabilmente fallendolo), ciò che è testo (la meta mobile stessa, che nel nome di testo si spalanca) rivela una radicale natura – diciamo – performativa; se un testo è assente, se esso sfugge alla presa, alla definizione, se può trasmettersi solo vivendolo ogni volta di nuovo, ogni volta ex-novo, risalendo il tragitto verso un’origine (una Lettera) che è ormai e da sempre scomparsa, e che solo riaffiorerà dai suoi nuovi e lontanissimi riverberi, ciò è perché (se veramente è Testo) è insaturabile, la sua metafisica è la sua stessa immanenza. Solo appartiene all’aperto. E quel che rivela è l’insondabilità del suo vivente segreto.
Tommaso Ottonieri (1958) ha pubblicato: in prosa, Dalle memorie di un piccolo ipertrofico (Feltrinelli, 1980, prefazione di E. Sanguineti), Coniugativo (Corpo10, 1984), Crema acida (Lupetti-Manni, 1997), L’album crèmisi (Empiria, 2000), Le strade che portano al Fùcino (Le Lettere, 2007, con scritti di E. Ghezzi, G. Policastro, e A. Cortellessa); in versi, Elegia Sanremese, (Bompiani, 1998, prefazione di M. Sgalambro), Contatto (Cronopio, 2002), Geòdi (Aragno, 2015); in critica-teoria, La plastica della lingua: stili in fuga lungo un’età postrema (Bollati Boringhieri, 2000). Innumerevoli inoltre, a partire dagli anni dell’esordio, i contributi su riviste, volumi antologici, opere collettive (fra queste ultime: Bassa Fedeltà: l’arte nell’epoca della riproduzione tecnica totale, a sua cura, Bollati Boringhieri, 2000), oltre che via radio.
Nel suo ortònimo (Tommaso Pomilio) svolge attività di ricerca e didattica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, nel settore di letteratura contemporanea, con ulteriore, densa bibliografia.
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30 ottobre 2015 alle 07:35
“ Senza data [1994] – « Un uomo, un diario. Atti del convegno di studio su Adriano Barra / Avezzano, Palazzo dei Lancieri, 23-24 novembre 1994 / 1a giornata / Saluto dell’assessore alla cultura del comune di Avezzano Alfonso Impallomeni / Introduzione del professor Giovampaolo Cardi, preside della Facoltà di Lingue e Letterature moderne dell’Università di Chieti. / Relazioni / * Cosimo Scatacchio, Barra fra confessione e denuncia. Le due anime della MDZ. * Mariolina Frullini Donner, La recherche impossibile di Adriano Barra: temi e suggestioni nella MDZ. * Frank Lo Giudice, Barra’s Meditation: how to write without writing. * Annabelle Druot Vigevani, Le zéro di Adriano Barra ou l’inépuisable proliferation du “ je “. * Fedele Mazza, Barra com’era. Una testimonianza. * Gisello Pistoni, “ Perché mi chiedi il voto? “: Adriano Barra e la “ porta stretta “ della politica. * Wolfgang Klingshoffer, Die Meditation von die Null: Adriano Barra als Tontechniker. * Zoroastro Fedelmann, La passione del copiare. Barra e l’ultimo Flaubert. * Walter Zani, Barra e i giornali: una relazione pericolosa. * Edmonda Palombelli, L’infra-ordinario di Adriano Barra. / 2a giornata / * Giuseppa Curcio Pajetta, Diario falso e falso diario. Barra e la verità scomoda. * Cinzia Borromini, L’” udire sottile “ di Adriano Barra: la MDZ come perlustrazione del Rumore. * Alba Quiroga Beccacci, “ Tènere le distanze “. L’” universo orrendo “ di Adriano Barra. * Odoardo Fiaschi, Les mots di Adriano Barra. Memoria e diffidenza nella MDZ. * Benedetto Bollati, Barra e il cinema. L’ossessione del bidone. * Filiberto Manzi, Adriano Barra e Porta Portese: la contemplazione dell’usato. * Samantha Bauer Ciocci, “ Copio diari “: il narratore azzerato della MDZ. * Ludovica Barra, Adriano com’era. Un ricordo. * Peppino Refoli, Barra ad Avezzano. Storia di un equivoco. » “ [*]
[*] Lsds / 572
30 ottobre 2015 alle 11:43
“Cioè in altri termini, ho voluto proporre a quel concetto di Quinto Evangelio non solo la ricerca di un libro scritto, sotteso ai Quattro Vangeli della tradizione, ma questo bisogno continuo di reinfrangere il già-dato, il già-codificato”
(dalla conferenza intitolata “Il quinto evangelio: Confessioni d’autore”, tenuta da Pomilio presso il Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli 13 febbraio 1976, a un anno dall’uscita del romanzo; il testo, ancora inedito, fu raccolto e trascritto dagli organizzatori dell’evento)
31 ottobre 2015 alle 10:27
(p.s.: “proporre a”?? Lo “sbalzo” nella sintassi corrisponde precisamente alla trascrizione dell’intervento orale nello splendore del Teatrino di Corte, visitabile qui: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2012/01/16/foto/riapre_il_teatrino_di_corte_dopo_il_restauro-28227127/15/ Va da sé che la trascrizione non era stata ricontrollata da Pomilio)