Mario Pomilio, uno scrittore né apocalittico né integrato

by

di Giuseppe Lupo

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

1. Ammettiamo che sia esistita, dagli anni Cinquanta ai Settanta, una linea di scrittori non riconoscibili nella divisione fra apocalittici e integrati, individuata da Umberto Eco nel 1964. Ammettiamo pure che le questioni della modernità, così come sono state declinate in Italia prima e dopo il boom, abbiano generato piste alternative sia alla cosiddetta letteratura del rifiuto, sia all’utopismo urbano che fa capo a Calvino. Se qualcosa del genere è stato prodotto, di sicuro avrebbe avuto in Mario Pomilio il suo capofila. I tratti distintivi non mancano e sono da rintracciare, oltre che nei pronunciamenti di un cristianesimo a forte vocazione laica, anche in quella particolare nozione di dissenso con cui egli si è posto di fronte ai paradigmi della Storia, certo non per chiamarsi fuori, per negarla o esautorarla, ma per travalicarne i risultati, per rifondare su altre regole il sentimento del vivere comunitario e dare azione compiuta alla voce inascoltata del Vangelo. In altre parole, per varcare la Storia e vincerne “la malinconia”, come avrebbe affermato egli stesso negli Scritti cristiani (1979).

Sottolineare la natura profetica e politica dei libri di Pomilio, a venticinque anni dalla morte, dunque in una stagione ormai aperta ai bilanci, non significa sminuire i vincoli di parentela con l’entroterra religioso (che sono infiniti, inossidabili e fino a qualche decennio fa addirittura facile pretesto di ghettizzazioni culturali), semmai rileggerli quale manifesto di una lontananza da tutto ciò che si definisce civiltà contemporanea. Non condividere i caratteri di un’epoca vuol dire scegliere una strada di implicita disobbedienza, svolgere un’azione corrosiva nei confronti del momento in cui tocca vivere. A suo modo, disobbediente e corrosivo Pomilio lo è stato (come non ricordare almeno nel titolo il suo Contestazioni) e, senza ricorrere ai clamori della protesta e della rabbia, ha fatto suo il protocollo delle responsabilità morali che gravano sugli intellettuali e si è impegnato a cercare non il “senso dell’essere” ma il “senso del fare”, a seguire non tanto la “tentazione mistica” quanto l’“esigenza di razionalità”.

In ciò risiede la complessità e il fascino di una proposta affidata a romanzi e saggi, che ci dicono di una persona inappagata, probabilmente in conflitto latente con il tempo presente, pur avendo contribuito a edificarlo come partigiano e come esponente del Partito d’Azione. Pomilio non si è mai mostrato troppo propenso ad accettare i segni di un quotidiano costellato da miti effimeri, né ha mai consegnato il proprio lavoro alla dimensione della testimonianza. Anzi, trovando appigli nella tradizione francese dei Bernanos e dei Maritain, ha preferito dimenarsi tra colpa e innocenza, tra male individuale e catastrofe collettiva. Questo dato, che vanta una parentela d’elezione con Manzoni (a cui dedica Il Natale del 1833), spiega anche le ragioni per cui fare letteratura equivale a indagare nei territori della speranza, cercare un progetto alternativo ai limiti e alle inadempienze dentro cui nascono e si cancellano i destini degli individui. Pomilio va scovato lì, dove la delusione della Storia sconfina nella tensione al futuro, dove i singoli uomini erigono un altare al Dio prossimo a farsi conoscere. E così come ha raccontato il fallimento delle ideologie con un piglio ora incline al paradosso (nel romanzo Il nuovo corso, 1959, recentemente ristampato da Hacca), ora in funzione morale (nella Compromissione, 1965), in eguale misura non ha fatto mistero sul travaglio di una Chiesa preconciliare, aspettando e sospirando i segni di un rinnovamento che in dimensione narrativa avrebbe trovato risposta nel Quinto evangelio (1975), uno dei rari capolavori ereditati dal Novecento. Basterebbe osservare le forze genetiche di questo libro per confermare la matrice controcorrente della scrittura di Pomilio: romanzo e antiromanzo, esplorazione apocrifa e ricognizione di una sacralità nascosta, summa teologica ed esperimento di filologia sognante. Troppo banale stimarlo soltanto una verifica di fede o, come più di frequente, il vessillo di una verità. Più opportunamente, potrebbe essere inteso come un esame di coscienza che attraversa mille anni, il lascito di una rivelazione non ancora conclusa, alla luce del fatto che Dio, per tutti noi, non è la soluzione, ma un problema.

2. Che Il quinto evangelio sia un capolavoro del Novecento è un dato ampiamente acquisito. Lo è dal 1975, quando si è presentato in una veste tra le più originali e innovative, guadagnando subito un vasto consenso di critica e di pubblico. Ma è bene sottolinearlo anche oggi, alla luce dei sondaggi nel campo della filologia che accompagnano la nuova edizione, uscita pochi mesi fa. In effetti, il lavoro svolto da Gabriele Frasca e Wanda Santini ha il senso di un’operazione che rende più prezioso il paradigma delle forme genetiche e sposta verso nuove ipotesi interpretative la prospettiva che finora aveva conferito al romanzo un’immagine un po’ monocorde: dove collocarlo, se non dentro un’aura cristiana? Certo sarebbe un azzardo dimostrare il contrario. Il libro di Pomilio è e rimane un unicum nel panorama letterario del secolo scorso, non solo in quello a interrogazione morale: lo è naturalmente per il suo alto tasso di problematicità in materia di fede, ma anche per il suo presentarsi come teorema indimostrabile o ragione di una poetica, lascito di uno scrittore che alla verità contrappone la ricerca della verità, che alla tradizione della Chiesa risponde con l’idea profetica del mondo a venire, cioè con l’ipotesi che la Storia possa mutarsi in utopia.

Il quinto evangelio, insomma, è molto più che un esempio di letteratura scaturita dalla penna di un credente e l’avventura in cui s’imbatte Peter Bergin (l’ufficiale dell’esercito statunitense, protagonista-matrioska secondo la definizione di Frasca), il suo interrogare carte e appunti nella cattedrale di Colonia, uno dei luoghi-chiave di una Germania bombardata, sono specchio di un presente destinato a estendersi ben oltre il tempo breve del dopoguerra nazista, vanno al di là della cronaca, al di là della religione. Pomilio reinventa il passato così come uno scienziato farebbe con un fossile mai scoperto; non fornisce ai lettori lo scarnificato resoconto di un’indagine che procede a strati – dal VII secolo dopo Cristo all’Età dei Lumi –, assommando notizie a notizie, documenti a documenti, ma intreccia frammenti catturati qua e là, nella Storia e fuori dalla Storia, riproducendoli con un’eccezionale capacità mimetica.

Ne vien fuori un’opera multilingue (di cui Pomilio appare nel ruolo di traduttore più che di scrittore, così suggerisce Frasca), una corsa lungo i secoli alla ricerca di prove mai certe, forse inesistenti, forse inventate dalla fantasia dei profeti e dei poeti, ma che hanno qualcosa di acrobatico e di itinerante e alla fine conducono lì, al Vangelo che non c’è (forse dovremmo dire: al libro che non c’è), dentro il vissuto di ieri e nell’invenzione del domani. È possibile che una materia così eterogenea, proprio perché assume le parvenze della cronaca, delle leggende popolari, dei cantari religiosi, possa ridursi a un immenso groviglio di simulazioni fino a perdere la sua vocazione narrativa. Il paradosso sta qui: nell’imponente scommessa filologica che sorregge da cima a fondo l’assunto del libro e pur tuttavia accarezza la vertigine della mistificazione, riproduce “un’industria del falso”, come si trovò a confessare l’autore in un articolo su “Studi Cattolici”, ora accolto in appendice a questa riedizione. Ma Pomilio si guarda bene dal concepire la letteratura sotto la specie della menzogna. La sua è piuttosto una forma di disobbedienza al paradigma dei generi letterari, a quella particolare forma-romanzo che i decenni precedenti avevano restituito al Novecento e che il Novecento ha poi smarrito o annientato. Ammesso che sia eversione o rifiuto, l’effetto è duplice: da un lato accende il sospetto di anacronismo (è Pomilio in primis a manifestare perplessità già mentre lavorava al testo), dall’altro identifica i segni di un’“opera totale”, una delle più inconsapevoli testimonianze di quello sperimentalismo apparentemente lontano dall’humus in cui affondano le radici di questo autore. Su un tema così affascinante e controverso il saggio di Gabriele Frasca investe gran parte delle sue energie e, pur non intendendo accreditare l’idea di un Pomilio rispolverato in chiave di neoavanguardia, riesce a far traslocare Il quinto evangelio dentro l’alveo di una letteratura che pone a vessilli modelli e autori finora mai accostati: per esempio, Horcynus orca di Stefano D’Arrigo (ugualmente edito nel 1975) o, sullo sfondo, le teoresi di un Umberto Eco ancora distante dal Nome della rosa [vedi anche l’intervento di Gabriele Frasca pubblicato qui ieri]. Alla stregua di un classico, il libro non ha ancora smesso di significare e chiede di essere riletto sotto nuova luce.

3. Il quinto evangelio è un libro da mettere in correlazione con gli Scritti cristiani che Vita e Pensiero ha appena ristampato in una versione notevolmente ampliata rispetto alla princeps, uscita nel 1979 presso Rusconi. Un medesimo vento soffia sulle pagine di entrambi, sia pure con forme e linguaggi diversi. Come nel romanzo del 1975, anche negli Scritti cristiani Pomilio si consegna ai posteri quale testimone di un sentire profondamente vicino al magistero di chi si pone in ricerca anziché di chi proclama. I capitoli, infatti, non sono una bandiera di fede, piuttosto un terreno di esplorazione e, pur se eterogenei per natura (dalla riflessione ad alta voce alla lettera in pubblico, dall’elzeviro al saggio), si fanno manifesto di un’eccezionale volontà di gettare luce sui tormenti della Storia. Come non pensare al Quinto evangelio, per esempio, quando leggiamo: “Altra volta è accaduto di dire, metaforicamente, che a ciascuna generazione spetta scrivere un suo vangelo”? Il che potrebbe anche significare: al vangelo narrato per figure segue un vangelo narrato per idee.

Il problema non è tanto verificare il grado di parentela fra i due libri, quanto sottolineare i pregi di un’edizione accresciuta come questa allestita da Vita e Pensiero. Dei nuovi materiali entrati a far parte soltanto uno è completamente inedito: La responsabilità dell’uomo di cultura, che risale ai primi anni Settanta. Tutti gli altri provengono da giornali o volumi miscellanei, eppure non danno l’impressione di essere un recupero forzato ed estemporaneo, né di un’appendice composta da testi minori. Anzi, proprio perché redatti tra il 1955 e il 1983, coprono quell’ampio segmento di anni in cui germina non soltanto la primitiva versione degli Scritti cristiani (di cui quest’ultima viene a completare il discorso), ma l’intero corpo narrativo, ai cui estremi si posizionano L’uccello nella cupola (1954), l’esordio, e Il Natale del 1833, il congedo. In questo allargare la base cronologica si può cogliere un cambio di prospettiva. Se l’edizione del 1979 rappresentava un exemplum indicativo del valore di Pomilio, ma sostanzialmente inserito in un lasso di tempo più circoscritto (a volte si ha perfino la sensazione di scritture nate in margine agli “anni di piombo”), questa di Vita e Pensiero fornisce al lettore una cornice di idee assai più vasta, in un certo senso diventa un sillabario di poetica e, complici i puntigliosi interventi di inquadramento tematico con cui Marco Beck, il curatore del volume, accompagna ciascun testo, ne fa un modello di riferimento.

Tutto ciò accredita l’ipotesi che i nuovi Scritti cristiani siano uno strumento indispensabile non solo per prendere coscienza che la riflessione sul cristianesimo è stata e rimane una sorta di palinsesto a cui ricondurre ogni pagina creativa e saggistica di Pomilio (tanto da farne – scrive Giuseppe Langella nella prefazione al volume – il “nostro maggiore scrittore cattolico dell’età postconciliare”), ma anche per addentrarsi nella sfera intellettuale di un uomo che non ha mai smesso di interrogare il proprio tempo, ben consapevole dei limiti imposti alla parola umana, eppure convinto come pochi della necessità che la letteratura debba costituire una sfida lanciata all’epoca in cui si vive, nel tentativo di essere, come lo è stato il Vangelo, sia territorio di inquietudine, sia lievito della Storia.

Giuseppe Lupo (Atella, 1963) insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato diversi saggi, tra cui ricordiamo: Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta (Vita e Pensiero, 1996), Il secolo dei manifesti. Programmi delle riviste del Novecento (Aragno, 2006), Vittorini politecnico (Franco Angeli, 2011) e Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale (Laterza, 2013). Ha esordito come scrittore di narrativa con il romanzo L’americano di Celenne (Marsilio, 2000) che è stato vincitore del Premio Mondello opera prima 2001. Tra le sue pubblicazioni successive: La carovana Zanardelli (Marsilio, 2008), L’ultima sposa di Palmira (Marsilio, 2011), Atlante immaginario. Nomi e luoghi di una geografia fantasma (Marsilio, 2014) e L’albero di stanze (Marsilio, 2015).

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Una Risposta to “Mario Pomilio, uno scrittore né apocalittico né integrato”

  1. turi torore Says:

    Parrebbe dunque impossibile non mettersi a leggerlo. A natale?

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