Spritz / Giovanni Fiorina

by

di Giovanni Fiorina

[Intervento tratto dal libro Se incontri Giulio Mozzi per la strada uccidilo].

Giovanni Fiorina ha pubblicato: Masnago, Marsilio 2015.

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La stanza è bianca, senza finestre. Giulio si avvicina con quella sua camminata corta e veloce, un po’ zoppicante. Indossa un kimono rosso con la cintura nera e mi fissa serio, senza espressione. In mano ha una pistola.

Verso le sette di sera di sabato 14 settembre 2013 mi trovavo in piazza Bra a Verona, seduto a uno dei tavolini del bar Liston, uno spritz ormai finito davanti a me e una scatola portagioielli, piccola e scomoda, nella tasca dei jeans. La serata era fresca e leggera e magnifica, proprio come due anni prima, quando avevo deciso di portare a cena a Verona la mia futura moglie per il nostro secondo appuntamento. Dovevo farla innamorare, subito e senza riserve, visto che a me erano bastati pochi minuti per perdermi in quel sorriso, e speravo che la piccola Roma mi avrebbe aiutato. Una ragazza nata e cresciuta a Ipanema e che dell’Europa conosceva fino a quel momento solo Milano, infatti, non poteva resistere di fronte alla bellezza di Verona. E la serata fu davvero indimenticabile, così splendida da riprometterci di riviverla.
Ma i ricordi andrebbero lasciati lì, senza tentare di replicarli. Infatti ora, mentre aspettavo Lucia tornare dalla toilette per andare verso il Ponte di Castelvecchio dove le avrei chiesto di sposarmi, ero tutto fuorché rilassato. Voglio dire, da lì a pochi minuti avrei cambiato la mia vita in un modo reale, definitivo. Erano soprattutto due le cose che mi avevano terrorizzato nei mesi precedenti e che ancora non avevo del tutto accettato, a essere sinceri. La prima erano i preparativi del matrimonio: mesi e mesi trascorsi a fare ciò che un pigro come me non vorrebbe mai fare, prendere decisioni. L’altra era il dubbio – che rasentava la certezza – che con il matrimonio se ne sarebbero andate per sempre le mie quattro o cinque partite di pallacanestro settimanali in tv, sdraiato sul divano in una splendida solitudine sportiva. Ma, soprattutto, Lucia mi avrebbe detto sì? O era troppo presto? O forse troppo tardi? Il mio nervosismo aveva raggiunto livelli ormai insostenibili, così per evitare di alzarmi e iniziare a camminare da solo attorno alla piazza per cercare di calmarmi, decisi di correre il rischio e di riprovare la triade di movimenti estrazione scatola dalla tasca – apertura scatola – esibizione contenuto scatola che avevo provato più volte a casa negli ultimi tre mesi e che avevo ormai rifinito fino alla perfezione in entrambe le varianti: quella a due mani con scatola grande per pantaloni di tela e tasche larghe e quella a una mano per scatola più piccola destinata ai jeans che avevo alla fine deciso di indossare. Così, dopo aver controllato che non si vedesse nessuna futura moglie all’orizzonte, mi ritrovai con la prescelta tra le mani, pronto a gustarmi il frutto delle mie peregrinazioni tra le gioiellerie di Milano e di mezza provincia: ma quell’ingrata era vuota.

Non so dopo quanto tempo Lucia tornò dalla toilette, quel che è certo è che mi trovò bianco come un cadavere a fissare il vuoto, ancora indeciso se svenire o scoppiare a piangere dopo aver sprecato l’occasione che aspettavo da mesi nonché quattrocento chilometri di viaggio tra andata e ritorno perché mi ero dimenticato di prendere l’anello dall’altra scatola, quella maledetta e lontana e più grande altra scatola. Io, giovane uomo normalmente ben organizzato e mediamente angosciato di fronte a impegni e scadenze, mi ero appena dimenticato l’anello di fidanzamento il giorno della proposta di matrimonio, coglione che non sono altro.
Ora, quel che deve interessare a te, aspirante romanziere, non è tanto ciò che ne è stato della mia vita sentimentale (comunque salva, fortunatamente), ma che cosa era successo poche ore prima da avermi mandato in uno stato di una tale euforica confusione mentale, tanto da decidere nel giro di cinque minuti di improvvisare una cena a Verona con consegna dell’anello incorporata e poi così miseramente fallita. E la risposta è: Giulio Mozzi.

È bianco anche il pavimento, così come il soffitto, vuoto di qualsiasi elemento, e mi chiedo come possa esserci questa luminosità tanto piena e uniforme. Mi accorgo di non proiettare nessuna ombra, proprio come Giulio, che è ormai a pochi passi da me. Sorride, mentre mi punta la pistola contro.

Poche ore prima del mio quasi svenimento, Giulio si era presentato con il suo cappello da pescatore a casa mia a Milano per discutere del romanzo su cui stavo lavorando in bottega da più di un anno. Non solo, finalmente, lo aveva letto, ma lo vedeva, è tutto lì, diceva. E quando Giulio Mozzi ti dice che è tutto lì, significa davvero, che è tutto lì. Non è solo una questione di scrittura: voglio dire, quando mai è solo una questione di scrittura? Per quanto uno sia bravo a travestirsi, c’è sempre una parte di noi in ciò che scriviamo e che viene così giudicata ogni volta che viene letta. Per questo in quel momento non era tanto il mio romanzo, ad avercela fatta, ma io, con tutto quello che c’era stato e tutto quello che sarebbe venuto. In quella frase c’erano i miei primi tentativi di scrittura, c’erano i weekend passati a fissare lo schermo bianco del computer in attesa di chissà quale illuminazione, c’erano le lettere di rifiuto delle case editrici alla mia raccolta di racconti di un paio di anni prima. Ma erano già presenti anche la firma che sarebbe arrivata da lì a pochi mesi con la ALI, la successiva telefonata di Giulio per dirmi che Marsilio aveva accettato il romanzo, la scatola con il nastro adesivo RCS con dentro le mie copie di Masnago. Probabilmente c’era già anche questo pezzo, in quella frase di Giulio. Per questo quando l’ho ascoltata ho vissuto un momento di estasi che sognavo da tempo e che avevo paura di non vivere mai, per questo quelle parole mi hanno dato l’energia e la convinzione che mi mancavano per superare la paura dell’anello, ma anche la confusione e l’eccessiva sicurezza che mi hanno portato a dimenticarmi di controllare la scatola prima di uscire di casa.
Il fatto è che io di Giulio mi fido ciecamente. È stato così sin da subito, perché basta ascoltarlo una volta parlare di letteratura per capire che possiede un dono che vale più di ogni altro insegnamento: è capace di vedere tutto il potenziale – o l’assenza, di potenziale – che una storia ha. Ed è questo il punto, con lui: Giulio ascolta e valuta le storie, non gli scrittori o aspiranti tali. Le aspetta, le sfida, le accudisce, salvo abbandonarle quando vede che il vero proprietario della storia, cioè tu, non la segue, non la vede. È questo il difficile, con Giulio: ti mette davanti la tua storia e te la fa vedere nuda. E se questa nudità è oscena, o brutta, o semplicemente noiosa, puoi scommetterci che sarai anche tu a vederla insieme a lui, perché grazie a lui.

Alzo un braccio per proteggermi il viso, ma continuo a non muovermi. Potrei farlo, ma non ci riesco. Giulio sorride – sorride a me! – e tanto basta. Ho paura, certo. Ma provo anche un senso di liberazione. La mia non era una storia, ma una banalità degna al massimo di qualche seduta di psicoterapia, altro che romanzo.

La prima volta in cui mi sono proposto alla Bottega di narrazione sono stato respinto: mi ricordo ancora l’email di rifiuto, spedita alle 6 del mattino del 1° gennaio 2011: Buondì, il suo progetto non è stato accettato. Cordiali saluti, Giulio Mozzi. Un bel modo di iniziare il nuovo anno. Ero davvero scoraggiato: ero sicuro di aver finalmente trovato qualcosa che mi avrebbe permesso di migliorare la mia scrittura e invece la mia scrittura era talmente scarsa da non meritare nemmeno un approfondimento.
La cosa più difficile dello scrivere è capire a che punto sei, acquisire consapevolezza, saper distinguere, cioè, tra il buono e il cattivo di un tuo testo. Questo perché nella maggior parte dei corsi di scrittura si lavora prima sulla teoria e poi ancora sulla teoria, analizzando testi di autori tipo Hemingway o Carver dai quali si dovrebbe magicamente capire come scrivere un dialogo degno di Addio alle armi: che è un po’ come pretendere di imparare a giocare a pallone guardando la Champions League in tv il mercoledì sera. Avevo la sensazione, invece, che la Bottega di narrazione fosse qualcosa di speciale, perché al centro di tutto c’eri tu con la tua storia e non qualche premio Nobel con il suo capolavoro. E infatti, dopo essere stato accettato circa un anno e mezzo dopo quel primo rifiuto di Capodanno, potete immaginare la mia soddisfazione quando mi resi presto conto di non essermi sbagliato, quando capii, cioè, di essere davvero finito nel posto giusto. Il mio progetto era sul palcoscenico, vivisezionato in lungo e in largo in primis da Giulio e Gabriele (Dadati) e poi dai miei compagni di bottega: e, come dicevo, non è detto che ti piaccia, quello che sentirai.

La pistola è puntata sui miei occhi. Ora la paura sta lasciando il posto al nervosismo. In fondo, non ho mai saputo aspettare, e questa è solo un’ulteriore conferma. Spara Giulio, cristo santo! Ma lui niente, se ne sta lì fermo, il viso di nuovo senza espressione. Sto per tirargli uno schiaffo – l’ultima soddisfazione prima di morire –, ma è allora che Giulio prende la mia mano e mi mette la pistola in pugno, stringendolo tra le dita.

Dopo pochi mesi di lezione, una domenica pomeriggio di febbraio fredda e soleggiata, Giulio mi aveva demolito, o meglio, aveva demolito il mio Masnago: non sapevo come riassumere la storia in poche parole, e se non sai come riassumere la tua storia in poche parole, non hai una storia. Io avevo un insieme di luoghi comuni anche abbastanza noiosi, senza nessuna idea di conflitto.
«E la scrittura?», provavo a reagire io.
«La scrittura non è neanche un problema, a questo punto», rispondeva lui, tranquillo.
Giulio mi diceva queste cose con la calma più inesorabile del mondo, senza nessun accenno di fastidio o di noia, stando ben attento a non offendere me, ma solo a demolire la storia, con la sicurezza di chi si ritrova a fare qualcosa che ha già fatto migliaia di volte nella sua vita. Il fatto è che, mentre Giulio mi spiegava le sue critiche, io ero completamente d’accordo con lui: capivo cosa voleva dirmi perché li vedevo già io, quei difetti, ero io, insomma, a riconoscerli per primo. Dopodiché ci siamo salutati come se nulla fosse successo – io in realtà ero devastato – e per quattro o cinque mesi non ci siamo più parlati, se non per salutarci. Lui non aveva nulla da dirmi perché aveva già detto tutto, io non avevo nulla da dirgli perché stavo decidendo cosa fare del mio progetto. Se abbandonarlo, oppure ricominciare dopo aver buttato ogni singola parola scritta fino a quel momento.
Credo di aver ripreso a scrivere per orgoglio, più che per altro: non sopportavo l’idea di fallire in qualcosa cui tenevo così tanto. Verso la fine della primavera ho rimandato a Giulio i primi cinque capitoli, e lui li ha criticati, ma un po’ meno, ci ha trovato anche qualcosa di buono. Così sono andato avanti a lavorare per tutta l’estate, senza più sentire nessuno, fino alla fine di agosto, per cercare di finire la prima stesura entro l’incontro di settembre e quello successivo con gli editori a metà ottobre. E mentre scrivevo, ero io il primo a sapere che Masnago ora funzionava. Poteva migliorare, certo, ma comunque – questo sì – ora avevo un qualcosa di concreto da cui partire.

Giulio mi alza il braccio e io lo lascio fare, come sempre. Ma quando si punta l’arma addosso cerco di liberarmi dalla sua presa, che però ora è forte, decisa.
«È tutto lì», mi dice Giulio, piano. «È tutto lì».
Poi mi cerca l’indice, e lo preme sul grilletto.

Martedì 22 giugno 2015, verso le 18, sono seduto a un tavolino di via VIII febbraio a Padova, a pochi metri dalla Feltrinelli in cui presenterò Masnago da lì a pochi minuti. Davanti a me uno spritz ormai finito e un Giulio Mozzi stanco dalla giornata trascorsa tra Padova e Venezia che ascolta l’idea di quello che dovrebbe diventare un nuovo romanzo. Sembra avvicinarsi un temporale, così ci alziamo in cerca di un bancomat prima di tornare in libreria. Mentre camminiamo continuiamo a parlare del romanzo, ipotizzando conflitti e collegamenti, ma quando ci troviamo di fronte alla Feltrinelli non abbiamo concluso molto. Senza quasi accorgermene mi ritrovo seduto di fronte a un pubblico formato per lo più da parenti e amici con la testa ancora nella nuova storia. Giulio inizia a presentare me e Masnago, facendo apparire entrambi più belli di quello che siamo in realtà. Un paio di ore dopo sono in macchina da solo verso Milano, la luce crepuscolare di uno dei giorni più lunghi dell’anno che mi accompagna insieme alla serenità che mi ha lasciato la bella serata. Ripensando a com’era iniziato il mio rapporto con Giulio – con quella email spedita all’alba di un nuovo anno – per certi versi oggi ho chiuso un cerchio, soprattutto con me stesso. Non c’è traffico, e passata Verona chiamo mia moglie per dirle che tra poco più di un’ora sarò a casa. Vorrei pensare al nuovo romanzo, ma la mia mente mi riporta a quattro anni fa, quando avevo incominciato a pensare a Masnago, alla sua trama e ai suoi personaggi proprio come vorrei fare ora con questa nuova storia. Ripercorro tutta la fatica fatta per arrivare a questa sera, e mi chiedo se davvero ho voglia di riprovarci un’altra volta. Ma so di non avere scelta, e infatti ho già cominciato a riviverla, quella fatica. E va benissimo così.

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Giovanni Fiorina

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