[Intervento tratto dal libro Se incontri Giulio Mozzi per la strada uccidilo].
Giorgio Falco ha pubblicato: Pausa caffè, Sironi 2004; L’ubicazione del bene, Einaudi 2009; La compagnia del corpo, :duepunti 2011; La gemella H, Einaudi 2014; con Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, L’orma 2014; Sottofondo italiano, Laterza 2015.
Immaginare la morte tutti i giorni, sempre e soltanto la propria, e dolersene; invece ci sono giorni in cui mi salvo, muoiono alcune persone che conosco, muoiono davvero. Una di queste è Giulio Mozzi. Giulio Mozzi è morto.Il modo in cui apprendo la notizia della morte di Giulio Mozzi.
Facebook, Twitter? No, lì non esisto, e poi uso il cellulare come facevo nel 1998, quando ho incontrato per la prima volta Giulio Mozzi. Mi telefona qualcuno? Uhm, ricevo pochissime telefonate, lo tengo spesso spento.
Giulio Mozzi è morto alle 3.35 del mattino e non lo so ancora. Esco, faccio un po’ di spesa, un giro in bicicletta, scrivo una pagina del prossimo libro. Poi verso il tardo pomeriggio, quando mi collego e controllo la posta, leggo un messaggio arrivato al mattino, da una persona che nemmeno conosco: Gian Alberto Volpecin.
L’oggetto è uno sbrigativo morte mozzi, che stride con il tono seguente.
Ciao a tutt*,
scusate, con alcuni di voi non ci siamo mai incontrati né sentiti e mi rincresce contattarvi per una triste evenienza. Ho l’incarico di comunicarvi, con grande dolore, che Giulio Mozzi è venuto a mancare stanotte, alle 3.35 del mattino.
Chi vuole salutare la salma per l’ultima volta può farlo domani, presso l’obitorio dell’ospedale di Padova, in via Cornaro 2. Il rito funebre, celebrato da don Mario Boatto, si svolgerà alle 10.30, presso la chiesa Ognissanti, in via Ognissanti (dieci minuti a piedi dall’obitorio). Da lì la salma verrà tumulata al cimitero Maggiore.
Un abbraccio fraterno.
Gian Alberto Volpecin
Telefono subito a Giulio Mozzi, ma il numero è occupato. È chiaro, è uno scherzo. Anzi, è una performance dello stesso Giulio Mozzi. Gian Alberto Volpecin è una specie di Carlo Dalcielo, Giovanna Melliconi, Franco Brizzo, artisti che Giulio Mozzi aveva inventato anni fa, assieme a Bruno Lorini. E poi don Mario era il prete ucciso nel primo brano di Fiction, uscito nel 2001; lì era don Mario B., e adesso Giulio Mozzi, o meglio, il sedicente Gian Alberto Volpecin, per rendere più credibile l’identità del prete, ha aggiunto il cognome a colui che, sebbene sia morto il 23 maggio 1998, dovrebbe celebrare il funerale di Giulio Mozzi. Ma sì, è una performance, Giulio Mozzi è Gian Alberto Volpecin, Giulio Mozzi non avrebbe mai scritto «è venuto a mancare», avrebbe scritto «è morto»; non avrebbe terminato nemmeno con «un abbraccio fraterno»; in verità, Giulio Mozzi non si fidava dei pezzi che avremmo inviato per questo suo nuovo progetto, intitolato Se incontri Giulio Mozzi per la strada uccidilo.
Riprovo a telefonare, il numero di Giulio Mozzi è ancora occupato, forse sta parlando con qualche direttore editoriale, con qualche idraulico che non gli cambia il sifone del bagno. Sono ormai le sei del pomeriggio. Gli mando una mail.
Ciao Giulio,
tutto bene? Allora per quel pezzo sulla tua uccisione, simbolica s’intende, d’accordo, lo scrivo. Volevo chiederti il numero delle battute. Fammi sapere.
A presto.
Giorgio.
Cerco in rete Gian Alberto Volpecin. Google dice: forse cercavi Gian Alberto Volpin. Stavolta Giulio Mozzi ha scelto un nome che dia l’idea del Veneto, per rendere plausibile il fatto che a Padova ci sia davvero il cadavere di Giulio Mozzi. Del resto anche una delle ultime performance di Marina Abramović consiste nel pianificare alla perfezione il proprio funerale. Ma qui, almeno per il momento, si tratta solo di un annuncio. E poi Giulio Mozzi non è così vanitoso. Nemmeno schermandosi dietro Gian Alberto Volpecin. Il telefono è sempre occupato. Mi viene il dubbio che Giulio Mozzi sia morto davvero.
Verifico i blog letterari. Su Vibrisse ci sarà di sicuro qualcosa, se Giulio Mozzi è morto alle 3.35 di stamattina. Vibrisse è aggiornato da lui o anche da altri?
Trovo soltanto uno dei decaloghi di Giulio Mozzi.
10 modi di morire in letteratura.
In fondo al decalogo, compare un commento in bianco, a nome Gian Alberto Volpecin, e il link al Testamento biologico, di giuliomozzi, pubblicato il 27.02.08.
«Ho quarantotto anni e, sinceramente, spero di arrivare alla morte in condizioni decenti (…) Vorrei morire come una creatura…».
Gli sarà servito il testo pubblicato sette anni fa? Che cosa ha pensato Giulio Mozzi in queste settimane? Ha lasciato un quaderno di appunti? O era troppo debole per scrivere? O non voleva più scrivere, benché conservasse appieno le facoltà fisiche e mentali per farlo? Che cosa vedeva, guardando fuori dalla finestra?
Il testamento biologico a quarantotto anni. L’età che dovrei compiere alla fine dell’anno.
Anche gli altri siti non riportano alcunché. Se Giulio Mozzi fosse morto, ci sarebbe qualcosa. Userebbero vecchie fotografie, immagini di quando Giulio Mozzi aveva trentatré, trentasette anni, era in compagnia di amici, o era solo e aveva quarantasette anni, l’anno prima che pubblicasse il suo testamento biologico.
Ci sarebbero articoli, frammenti, dichiarazioni di scrittura, di poetica, brani tratti da video.
Se Giulio Mozzi fosse morto, il sito de il mattino di Padova scriverebbe:
«È morto Giulio Mozzi. Lutto nella cultura».
Il gazzettino: «La scomparsa dello scrittore padovano».
Anche i siti on line dei quotidiani più importanti dedicherebbero un piccolo spazio – sotto a un evento di cronaca avvenuto due giorni prima – alla morte di Giulio Mozzi.
Corriere della Sera: «Mozzi addio. La scomparsa prematura dello scrittore veneto».
la Repubblica: «Addio Mozzi. Scrittore, talent scout infaticabile».
Forse il giorno seguente, nella versione cartacea, i principali quotidiani dedicherebbero spazio a uno dei migliori scrittori italiani della fine del Novecento e dei primi anni del nuovo millennio. Ma su Repubblica si troverebbe l’anticipazione di un giallo francese in uscita per Einaudi Stile libero e lo spazio pubblicitario per un romanzo italiano uscito nei Supercoralli; invece sul Corriere della Sera, oltre alla recensione di un libro Bompiani, ci sarebbe una pagina intera dedicata a brevi dichiarazioni di scrittori interpellati sul tema: «Quali, tra i recenti romanzi, porteresti sotto l’ombrellone?».
Giulio Mozzi è identificato con il Nordest, e per quanto ormai il Nordest, più che un’area geografica ed economica sia un genere letterario ancora vivo, non interessa più alle redazioni: troppo malessere e mais, troppo alcol e asfalto.
Il nulla, nessuna notizia sulla morte di Giulio Mozzi, Giulio Mozzi infatti non risponde alla mia mail, è normale, stava parlando al telefono, cos’è questa mania di pretendere una risposta immediata? Io a volte rispondo dopo tre giorni, dopo una settimana.
Allora lo richiamo, ma stavolta il telefono è spento.
E se invece fosse vero? penso mentre mi giro nel letto, inquieto, incapace di richiamare Giulio Mozzi di sera, e soprattutto terrorizzato dall’eventualità di rispondere a Gian Alberto Volpecin per chiedergli se è tutto reale. Che cosa poteva avere, Giulio Mozzi? Non sapevo che fosse malato, malato di qualcosa, ci sentivamo poco, una, due volte all’anno, è probabile che si sia ammalato in quel lasso di tempo, tra una telefonata e l’altra, basta poco per morire, lo avevo visto una volta negli ultimi quattro anni. Forse è il caso che domani vada a Padova.
Cosa si può dire di uno che muore a 55 anni? penso mentre, in pantaloncini e maglietta, mi alzo dal letto e controllo gli orari dei treni per Padova. Se voglio essere lì presto, devo prendere il Frecciabianca delle 6.35, non era poi tanto giovane, a 55 anni non si può dire di essere giovani, eppure hai ancora tante cose da fare, è inutile svegliarsi così presto per andare a vedere un cadavere, o solo la cassa da morto, dovrei arrivare alle 8.42 e salire su un autobus, il 5, il 6 o il 24, scendere alla fermata Ospedale, ma non ho mai preso un autobus a Padova, benché ci abbia vissuto alcuni anni, e poi in ogni caso arriverei lì tardi, con la cassa da morto già chiusa, e allora forse, contravvenendo a tutte le mie abitudini, dovrei prendere un taxi, e dire al tassista: andiamo all’obitorio, grazie.
Alla destra del finestrino –cullato dalle tastiere di un paio di computer, da chiacchiere aziendali sparse con generosità in tutta la carrozza – il sole illumina l’autostrada Brebemi deserta, che per un tratto corre parallela ai binari.
Quanti chilometri avrà fatto in treno Giulio Mozzi? Proprio in uno dei suoi spostamenti ferroviari, aveva rischiato di morire nel 2005, prima che compisse quarantacinque anni. Era su un treno regionale della linea Verona-Bologna. Il regionale, all’altezza di Crevalcore si era scontrato con un treno merci proveniente da Bologna. C’era molta nebbia, la linea Verona-Bologna era a binario unico, i due treni si erano fusi, il merci trasportava barre di ferro, la motrice del regionale era deragliata, il merci aveva squassato i vagoni dell’altro treno. Giulio Mozzi era in fondo al regionale. Sceso dal treno, era finito in una scuola, in attesa che i soccorsi riuscissero a salvare i numerosi feriti, a estrarre i cadaveri per disporli lungo i binari, penso mentre guardo l’inizio del Veneto, le prime lievi colline di vitigni veronesi sullo sfondo sinistro.
Ho iniziato a scrivere grazie a Giulio Mozzi, ho frequentato per qualche tempo la Lanterna magica, un circolo Arci di Padova, dove Giulio Mozzi insegnava; andavo lì con lo spirito del dopolavorista, soprattutto per stare lontano dagli spritz; mi ha incoraggiato con discrezione, controllandomi a distanza senza che me ne rendessi conto; scrivevo poco, qualche raccontino per piccole riviste, antologie invisibili, la rubrica di un sito curato dal suo amico Giuseppe Caliceti. Non avevo mai pensato a un libro, così ero rimasto sorpreso quando nel 2002, quattro anni dopo il nostro primo incontro, Giulio Mozzi mi aveva chiesto se fossi interessato a fare un libro. Non mi aveva neppure fatto firmare un contratto, ero andato a Ricercare, la rassegna di scritture a Reggio Emilia, avevo letto un paio di raccontini, ma a quel punto come avrei potuto firmare un contratto per qualche altra casa editrice, anche grande, e tradire la fiducia di chi mi aveva incoraggiato?
Così qualche tempo dopo avevo accettato 250 euro di anticipo da Sironi, e mi sono sempre chiesto perché 250 euro, e non 1000, o 200, o 50, oppure 0.
Giulio Mozzi è morto, penso stravaccato nel sedile del Frecciabianca, fermo alla stazione di Vicenza. È morto, altrimenti non sarei in viaggio per vedere la salma di quell’estremista a cui devo molto. A dispetto dell’apparire dimesso, del suo vezzo di definirsi democristiano, Giulio Mozzi era un vero estremista, innanzitutto estremista in quanto ossessionato da quella sua intransigenza che diveniva un gesto politico, e la sua visione letteraria si esprimeva nella quotidianità, nelle azioni; tra tutti gli scrittori che ho conosciuto, Giulio Mozzi è stato il più politico, il più estremista, pur essendo effettivamente un democristiano, e per di più un democristiano veneto, ma sembrava uscito da una pagina di Péguy; Giulio Mozzi, al posto dei vestiti di qualche grande magazzino italiano degli anni Novanta del Novecento, era come se indossasse abiti francesi di fine Ottocento, una collezione di sài sformati, con cui diventare inafferrabile. Giulio Mozzi è sempre stato sfuggente in quanto vero estremista, non è mai stato come quegli scrittori che recitano la parte dei letterati militanti, dei rivoluzionari impegnati, e invece sono piccoli manager di se stessi, e credono così tanto alla rappresentazione che l’industria cuce sulla loro pelle da non voler capire, per opportunismo, cosa gli hanno impacchettato addosso.
Giulio Mozzi, accessibile per finta, era inafferrabile, distante, come la sua salma adagiata nella bara, adesso, quel corpo da ragazzino invecchiato con addosso una faccia da rugbista.
Arrivo in orario alla stazione di Padova. Diciotto anni fa mi ero trasferito qui per tre anni. Non riesco proprio a salire su uno degli autobus che mi porterebbero all’obitorio, tantomeno prendo un taxi. Ho bisogno di camminare. Mi difendo dal sole sotto il lungo porticato di via Belzoni e proseguo in via Ognissanti, ho abitato per alcuni mesi proprio di fronte alla chiesa dove si svolgerà il funerale. Vivevo in un piccolo monolocale al primo piano, una casa – chiamiamola così – che aveva due finestre pur essendo di venticinque metri quadrati: la superficie delle finestre era più grande della superficie della casa. Non esisteva l’allacciamento al metano, usavo la bombola per cucinare, l’acqua calda era generata da un vecchio scaldabagno, quando facevo la doccia chiudevo gli occhi non per lo shampoo, credevo che da un momento all’altro sarei morto fulminato. Non c’era spazio, mangiavo sullo stesso tavolino che utilizzavo per i tentativi di scrittura.
Prima di andare all’obitorio mi dirigo in direzione della chiesa, se Gian Alberto Volpecin esiste davvero ed è attendibile, ci saranno già i paramenti funebri, che effettivamente sono lì, immobili nell’afa estiva. Cammino dall’altra parte della strada, non ho il coraggio di attraversare, di andare a leggere il nome. Un’anziana spazza l’ingresso con una scopa di saggina; c’è qualcosa di molto antico in quel gesto, un rispecchiarsi che ipotizza il funerale di una novantaduenne, però sarebbe plausibile anche la morte di un uomo di cinquantacinque anni, di Giulio Mozzi, perfino quella di un bambino. Una piccola rotonda modera la velocità delle auto dirette a piazzale Stanga; giro a destra, passo davanti all’ex macello pubblico, dove ho speso le ultime serate di quella che non consideravo più la mia giovinezza; avevo già trent’anni, mi sentivo a disagio ad ascoltare musica là dentro, guardare film nelle serate estive, lì dove erano morti migliaia e migliaia di esseri viventi, ma per lo meno era un ex macello non ristrutturato, potevo pensare in ogni istante al suo precedente utilizzo, a me stesso.
Sono davanti al cancello grigio dell’obitorio, è spalancato. Sulla sinistra un muretto dall’intonaco grigio, la scritta Ospedale Civile, Obitorio, gli orari di apertura. Alcune auto sono parcheggiate lungo il piccolo viale che conduce alla camera mortuaria. Devo solo entrare, abbassarmi per superare la sbarra, o passare lateralmente, camminare ancora per poco.
Giorgio Falco. Fotografia di Sabrina Ragucci.
Tag: Giorgio Falco, Sabrina Ragucci
26 luglio 2015 alle 15:14
Fuori tema: partiture della Marche funèbre d’une marionnette ne trovate a iosa qui. Però non una per quintetto di fiati! In compenso una decentissima esecuzione, da quintetto, la trovate qui. Che c’entra? Niente, è ovvio.
26 luglio 2015 alle 16:33
Ciao Giorgio. Tutto bene? Tu si che sei vivo e sempre in forma.
Stefano
26 luglio 2015 alle 19:26
a proposito di fuori tema : La gemella H è il più bel libro che abbia letto negli ultimi tempi (per il momento l’ho letto due volte). La sbalordente tremenda calma piatta della sua scrittura.
27 luglio 2015 alle 11:11
Sempre per restare fuori tema: grazie RobySan, per il link al pezzo di Gounod.