di giuliomozzi
Padova. Autobus 3, direzione stazione. Sei e trenta del mattino.
Davanti a me due ragazzette, a occhio diciassettenni. Maglietta, braghette di jeans, infradito. Capelli legati. Un piccolo trolley per ciascuna: uno rosa, uno blu.
A una suona il telefono. Risponde.
“Cazzo vuoi?”.
[…]
“Cazzi miei”.
[…]
“Cazzi tuoi”.
[…]
“Senti, isteria, vedi di calmarti”.
[…]
“Che coglioni”.
[…]
“Senti, mamma, chiama la nonna”.
Stop.
L’altra ragazzetta:
“Ma era tua mamma?”.
“Sei sorda?”.
2 luglio 2015 alle 07:27
Scene di vita ordinaria
2 luglio 2015 alle 08:45
il “Sei sorda?” è bellissimo.
2 luglio 2015 alle 12:27
Non ci sono commenti da fare. La realtà degli adolescenti è davvero sotto gli occhi di tutti. Ma non solo degli adolescenti. Dietro questa che parla così, che madre c’è?
2 luglio 2015 alle 13:15
Adesso, dietro due righe scritte da Giulio Mozzi, è già arrivato il giudizio – definitivo – sulla mamma, sconosciuta, di una ragazza, sconosciuta.
Manco a dirlo, anche il giudizio sugli adolescenti è talmente scontanto che non serve parlane perchè “…è davvero sotto gli occhi di tutti”.
2 luglio 2015 alle 13:33
Dev’essere quel nuovo abbonamento: cazzate illimitate contro tutti.
2 luglio 2015 alle 13:36
Non c’è alcun giudizio, ma solo una domanda. Appunto perché “scontata” ,ripeto, la domanda, potresti dare una risposta assolutamente originale tu stesso.
2 luglio 2015 alle 14:02
Alle 6.30 del mattino è probabile che molti facciano così quando gli arriva una chiamata … Per me comunque non si può generalizzare troppo. Il modo di comunicare non dipende dall’età o da altro ma da come è fatta la persona. Le ragazzine in questione magari erano leggermente “tamarre”, succede…
2 luglio 2015 alle 14:06
Non ho risposte originali. E’un fotogramma, me lo leggo e non riesco a cavar su giudizi su nulla.
Il tono del tuo commento mi è sembrato definitivo, ho interpretato la domanda come una domanda retorica, cioè come una affermazione, e la frase “sottto gli occhi di tutti” come altrettanto definitiva. Se non è cosi ti chiedo scusa, ma penso che dedurre qualcosa da queste due righe sia assurdo e sbagliato.
2 luglio 2015 alle 14:27
Andrea, non è invece un bel paradosso?
Un raccontino sulle insidie della comunicazione che genera palese incomprensione sul senso dello stesso.
2 luglio 2015 alle 14:38
E don Rodrigo, Maria Concetta? Che mamma ci sarà stata, dietro quel mostro di don Rodrigo? (Per tacer del conte Attilio).
2 luglio 2015 alle 15:06
Don Rodrigo aveva un mamma? Proprio come me e te? Questa mi è nuova.
@dm. Hai ragione. Forse il paradosso è il miglior commento possibile al racconto di Giulio Mozzi.
2 luglio 2015 alle 15:07
: – )
2 luglio 2015 alle 16:12
Daniele (dm), ti correggerei. Direi piuttosto:
Un breve testo che per mezzo dell’ambiguità della sua natura (pagina di diario? notazione di costume? exemplum morale? “raccontino” finzionale? esercizio di stile? ecc.) tenta (as usual, nel mio caso) di mettere in crisi la ricezione del testo stesso (posto che, nel recepire un testo, per prima cosa dobbiamo decidere qual è la sua natura, ovvero che razza di testo è).
Riesco a spiegarmi?
2 luglio 2015 alle 16:17
La memoria è una cosa strana. Io ho un chiaro ricordo di avere ascoltato un dialogo simile quasi trent’anni fa. Intendiamoci, quando dico simile voglio dire che era tra due ragazze, su di un autobus, e il vocabolo più usato era cazzo, nelle varie declinazioni. Naturalmente non c’erano cellulari, io avrò avuto tredici, quattordici anni e le due interlocutrici qualche anno in più. Non mi sono mai considerata particolarmente pudica, però evidentemente qualcosa di questa alta concentrazione di affricate dentali sorde deve avere lasciato un segno, visto che questo episodio me lo ricordo ancora. Le due ragazze erano sedute verso il fondo del bus, io ero in piedi verso metà bus, e sedute vicino a me c’erano due donne forse di sessant’anni: una diceva all’altra “eh ma cazzo qui, cazzo là, chissà come parlano i genitori a casa…”
Ripensandoci adesso, sono per lo meno sollevata dal pensiero che per le benpensanti di cinquant’anni fa la responsabilità dell’educazione fosse a carico anche dei padri e non solo delle madri…
2 luglio 2015 alle 16:24
Eh, P. O.: ma i padri non erano a casa, erano a lavorare (intendo: nell’immaginario delle due signore che avevano sessant’anni allora).
😉
2 luglio 2015 alle 17:04
Giulio, sì, il discorso sugli esiti di quest’ambiguità lo davo abbastanza per scontato, perché riguarda tutti o quasi i testi tuoi pubblicati alla categoria diario.
Quello che mi incuriosiva e ancora mi diverte è il fatto che questo testo non è certamente focalizzato sul tema che qui è stato recepito. Cioè non è un testo che dovrebbe farti esclamare: ah, ‘sti adolescenti. Come Il processo di Kafka, per dire, prendo l’esempio più vicino a portata di sinapsi, non è un racconto che dovrebbe farti esclamare: ah, la malagiustizia!
Questa, mi pare, è l’incomprensione di fondo (alla quale contribuisce solo di squincio, secondo me, la natura ambigua di questo tipo di testo). Ma il testo tuo mette in scena, appunto, l’incomprensione tra persone che parlano su livelli diversi facendo affermazioni compatibili, e di qui l’ironia.
Insomma, la chiave di lettura è ovviamente quel “Sei sorda?”, che risolve la narrazione in risonanza col titolo, dando senso all’insieme. Poi viene la natura ambigua del testo, che giustamente ci ricordi.
2 luglio 2015 alle 17:54
(Se il finale del raccontino fosse stato una cosa tipo:
“Ma parli così a tua mamma…?”.
“Eh certo.”
La reazione “ah, ‘sti adolescenti” sarebbe stata una reazione scontata. E un titolo come “Adolescenti” sarebbe stato di sicuro più azzeccato rispetto a “Teoria e tecnica della comunicazione efficace”. E sarebbe stata proprio un’altra materia, non evidentemente “Teoria e tecnica della comunicazione efficace”.
Chiedo scusa per ovvietà e logorrea.)
2 luglio 2015 alle 19:11
Diventeranno donne come tutte le altre. So che è difficile a credersi ma è così. Bisogna avere un pò’ di pazienza.
2 luglio 2015 alle 21:34
…
Stop.
L’altra ragazzetta:
“Ma era tua isteria?”.
“Sei sorda?”.
3 luglio 2015 alle 01:01
GiulioMozzi: dietro don Rodrigo c’è stato tutto il suo secolo e tutta la società del suo tempo e , nella fattispecie, anche la sua famiglia di appartenenza, e soprattutto c’è stato Manzoni che non ci propone un flash di dialogo ma un intero romanzo da cui fare deduzioni formali e tematici.
Se il senso del dialoghetto che tu proponi è solo quello di far riflettere sull’aspetto della comunicazione efficace, beh, qui non trovo che ci sia nessuna comunicazione, visto che mancano le risposte dell’interlocutore. Quindi l’unica comunicazione possibile è quella indiretta tra l’adolescente in questione e chi , suo malgrado, è costretto a sentire. E allora cosa dedurre se non una riflessione sull’oggetto in sé, vale a dire sul linguaggio? La mia domanda sulla madre della ragazza (ammesso poi che tutto l’episodio sia realmente accaduto e non un’inventio letteraria), è giustificata dal fatto che, in questo caso, la ragazza sta parlando con lei e tuttavia si sente autorizzata ad utilizzare le espressioni riportate nel breve testo. Io, da lettrice, posso solo dedurre il non-detto del testo attraverso delle ipotesi, cioè: a) la ragazza sta partendo con una amica (ha un trolley) magari dopo avere litigato con la madre o contro il volere della madre; b) la madre la chiama al cellulare per esprimere la sua preoccupazione o per convincerla a tornare sui suoi passi ; c) la madre utilizza il lessico familiare condiviso che evidentemente produce le risposte di cui sopra.
E’ vero che gli adolescenti utilizzano tra loro questo tipo di comunicazione, ma anche con i genitori ? Ho solo esercitato quello che , nella teoria della lettura viene chiamato processo cognitivo bidirezionale top-down bottom-up. Ne parla anche Umberto Eco in Lector in fabula, nel saggio“la cooperazione interpretativa nei testi narrativi”, 1979, quarta di copertina.
Di certo non ho voluto esprimere alcun giudizio moralistico. Che senso avrebbe avuto?
3 luglio 2015 alle 06:47
Maria Concetta, tu dici due cose molto differenti – secondo me – senza accorgerti della differenza:
Un conto è considerare un personaggio come “realistico”, come fai con don Rodrigo; un conto è considerarlo come “reale”, come sembri fare con le ragazzette. Se dietro don Rodrigo c’è “soprattutto” Manzoni, dietro le ragazzette c’è “soprattutto” Mozzi.
Quando scrivi
di fatto salti a piè pari l’ipotesi che “l’episodio sia un’inventio letteraria”: ma l’episodio è appunto un’inventio letteraria. Nel mondo reale non c’è nessuna madre dietro la ragazzetta, perché non c’è nessuna ragazzetta.
Se tu avessi domandato qualcosa del tipo: “Qual è l’immaginario di Mozzi sulle madri”, avresti fatto una domanda pertinente.
Quando scrivi
descrivi giustamente ciò che fa qualunque lettore (“dedurre [ma più correttamente: inferire] il non-detto del testo attraverso delle ipotesi”) difronte a un testo, finzionale o no che sia.
– L’ipotesi (a) coincide con la mia immaginazione,
– l’ipotesi (b) è coerente con il testo ma non necessaria, perché la madre potrebbe telefonare per tutt’altri motivi (io non mi sono posto il problema del perché la madre telefonasse),
– l’ipotesi (c) mi pare non necessaria e inopportuna, perché questo a me pare piuttosto un caso di “lessico non condiviso”.
Quando domandi
la mia risposta è: chi se ne importa. Non mi importa se “è vero che gli adolescenti utilizzano tra loro questo tipo di comunicazione”, e tantomeno mi importa se la utilizzino “anche con i genitori”. Faccio un esempio:
Il lettore qui farebbe le sue brave inferenze, compreso capire che Gino è il moroso della ragazzetta, e che l’altra lo sa.
Da qui si vede, spero, che il tema del raccontino è: un exemplum di comunicazione violenta all’interno di una relazione che si presume (per senso comune) dovrebbe non essere violenta.
Perché ho fatto il racconto con la mamma e non con Gino? Semplicemente perché scommettevo sul fatto che con il personaggio “mamma”, dato ciò che il senso comune dice sulle mamme, avrei ottenuto uno shock più forte.
Quando scrivi
fai una cosa curiosa: rimproveri quasi al testo di essere non solo ciò che è, ma anche ciò che dichiara di essere. Certo, questo è un raccontino che parla – ironicamente – di “comunicazione” efficace; certo, qui si mette in scena una “non comunicazione” (non perché manchino le risposte, ma perché la ragazzetta mette in atto – con efficacia, direi – un rifiuto a comunicare); certo, qui la comunicazione è tra l’autore del testo e chi lo legge, attraverso la mediazione dei due personaggi: la ragazzetta e il narratore. E appunto, il testo è “una riflessione sull’oggetto in sé, vale a dire sul linguaggio”: tutto giusto e tutto ovvio, tant’è che il titolo stesso (che è “Tecniche di comunicazione efficace”, e non “Cose che si sentono dire sull’autobus” – titolo che avrebbe sostenuto un’istanza realistica – o “Madri e figlie” – titolo che l’avrebbe sostenuta ancora di più, e inoltre avrebbe spinto il lettore a prendere una posizione) lo dice.
Infine, quando scrivi
dimentichi forse che di “giudizio” ha parlato Andrea D’Onofrio, non il sottoscritto.
3 luglio 2015 alle 06:53
Padova. Autobus 3, direzione stazione. Sei e trenta del mattino.
Davanti a me due ragazzette, a occhio diciassettenni. Maglietta, braghette di jeans, infradito. Capelli legati. Un piccolo trolley per ciascuna: uno rosa, uno blu.
A una suona il telefono. Risponde.
“Ciao, amore”.
[…]
“Sì, amore”.
[…]
“No, amore”.
[…]
“Anch’io, amore, anch’io”.
[…]
“Tanto tanto”.
[…]
“Ciao, amore, a presto”.
Stop.
L’altra ragazzetta:
“Ma era Gino?”.
“No, perché?”.
4 luglio 2015 alle 12:08
Vocabolario limitato. Probabilmente svegliata male. Il mistero: cosa ha detto la mamma. Oppure: poteva dire qualsiasi cosa.
3 luglio 2017 alle 10:53
Padova. Autobus 3, direzione stazione. Sei e trenta del mattino.
Davanti a me due ragazzette, a occhio diciassettenni. Maglietta, braghette di jeans, infradito. Capelli legati. Un piccolo trolley per ciascuna: uno rosa, uno blu.
A una suona il telefono. Risponde.
“Ciao, amore”.
[…]
“Sì, amore”.
[…]
“No, amore”.
[…]
“Anch’io, amore, anch’io”.
[…]
“Tanto tanto”.
[…]
“Ciao, amore, a presto”.
Stop.
L’altra ragazzetta:
“Ma era Gino?”.
“No, perché?”… di gran lunga preferibile e della serie piede in due scarpe 😉
3 luglio 2017 alle 14:49
Mi pare troppo esplicito, Emanuela. Magari:
L’altra ragazzetta:
“Ma era tuo moroso?”.
“No, perché?”.
E stop.
3 luglio 2017 alle 16:51
Anche. Ho fatto l’equivalenza Gino=tuo moroso. 🙂