[Questo intervento di Daniela Brogi, presentato alla giornata di studio Davanti e dietro la scrittura – Donne e uomini alle prese con identità di genere, ruoli, gerarchie e riconoscimento pubblico, organizzata dalla Biblioteca delle donne di Bologna, è stato pubblicato qualche giorno fa in Nazione indiana. gm]
Quando, mesi fa, ho accolto l’invito a partecipare a questo seminario, certo non immaginavo di aderire a una pericolosa lobby eretica attaccata nelle scorse settimane anche da Papa Francesco e dalle Sentinelle. Se avessi saputo, avrei accettato con maggior entusiasmo romanzesco e, soprattutto, avrei smesso di fare tutto il resto per studiare e riflettere più che potevo, anziché trovarmi, e me ne scuso con chi ascolta, a presentare considerazioni che lavorano in me da lungo tempo, ma che formano un insieme ancora provvisorio di note sulla scrittura “maschile”.
Che, con buona pace degli illustri signori di cui sopra, esiste: come esiste il genere, che non è una circostanza casuale, un’ideologia alla moda; ma, tanto per cominciare, è una situazione e un progetto di sé che – come scrive anche Giulio Mozzi nel suo blog – non consiste banalmente nell’indossare capi diversi di biancheria intima, ma produce autodefinizioni e posizionamenti differenti – in termini di linguaggio, di bisogni emotivi, di consapevolezza, eccetera).
Leggi tutto l’intervento di Daniela Brogi in Nazione indiana.
26 giugno 2015 alle 06:59
“ 25 luglio 1991 – Ecco la prima donna direttore d’orchestra: Elisabetta Maschio. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 416
26 giugno 2015 alle 10:08
Cerco di leggere l’articolo di Daniela Brogi… sembra un trattato astruso di metafisica… servirebbe un meta-testo di riflessione su questo linguaggio filosofico-pseudo-filosofico, di cui si ammanta la riflessione di genere (un testo decostruttivo)… quasi ad ogni frase risuona una volontà di risultare “intellettuale”, o forse meglio accademicamente certificato, per così dire; è una performance estenuante di discorso razionale, atteggiato, è, mi pare, in termini analitici, una esposizione potente di falso Sé… lo si percepisce secondo me chiaramente quando Brogi invece narra aneddoti, racconta in modo piano di “cose del mondo”. Si tira un respiro di sollievo. Ci si dice: ah, è umana, vivaddio, e sa scrivere anche bene.
26 giugno 2015 alle 10:30
“cultural studies” e “studi di genere” sono la rovina della critica letteraria.
qui si accumulano banalità su banalità pseudo-storiche, pseudo-filosofiche.
l’individualità del testo e della voce d’autore spariscono – nel migliore dei casi – o vengono letteralmente fatti a pezzi.
26 giugno 2015 alle 11:45
Mai vantarsi della propria ignoranza, eh!
26 giugno 2015 alle 12:03
E c’hai raggione Giulio, ma, dentro, m’è scappato il “parla come magni”… che ancora un poco me ne vergogno… ma solo un poco… quanno sento certi intelliggentoni, che pe’ di’ cose semplici usano certe frasi che nun te dico…
26 giugno 2015 alle 14:09
“ Venerdì 1 agosto 2003 – « A Siena, una tendenza multiforme, ma in costante contrasto al maschio stilismo fiorentino: tendenza visionaria, fiabesca, talvolta derivata verso minute curiosità naturalistiche. Nelle forme superiori, create da Duccio, da Simone e dai Lorenzetti, la pittoresca suggestione dei racconti religiosi, l’esaltata veemenza del dramma sacro; l’umana beltà che, nell’estasi divota, si scòrpora e diventa come un cristallo nel quale trasparisce la beltà celeste. E, declinando codeste forme: il fantastico sempre e leggendario che ornano le invenzioni di “ genere “ del Sassetta e Giovanni di Paolo; e il paesaggio, non di rado anche in accezione più eletta nella quale si direbbe esso esprima una sorta di stupore religioso, o pseudo-religioso, esalante direttamente sulla natura e sullo spettacolo del mondo. » (Emilio Cecchi, Trecentisti senesi, 1928) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 417
26 giugno 2015 alle 14:12
E a me dà sui nervi, Enrico, leggere diagnosi psicoanalitiche del tipo “…una esposizione potente di falso Sé…”.
E mi dà sui nervi veder buttare nel cesso così, hop!, al volo, tutti gli studi di genere.
E mi dà sui nervi veder trattare da oscuro, da astrusa metafisica, da sofistica, eccetera, qualunque discorso non elementare.
E mi dà sui nervi veder trattare da intelliggentone con due g una persona, solo perché non è semplicistica.
26 giugno 2015 alle 14:28
Ma a leggere quell’articolo, cosa rimane? Che l’autore maschio utilizza categorie logiche riferibili al sesso maschile? E che tra maschile e femminile esistono modalità differenti di osservare-tradurre la realtà? Boh. L’articolo si basa su esempi bislacchi, mettendo insieme marketing editoriale, citazioni di testi selezionati non si sa bene in base a cosa, ragionamenti astrusi. Questo tipo di generalizzazioni, se non ancorate a dati storici, numerici o letterari circoscritti, sono inutili. Fuffa elevata al cubo. L’irriducibile individualità di un testo, per fortuna, sfuggirà sempre a questi tentativi banalizzanti.
26 giugno 2015 alle 15:56
“ Lunedì 10 settembre 2001 – Il maschile, il femminile. Il maschile di mia madre era la letteratura (e non cucinare mai). Il femminile dei miei coetanei è la cucina (e non leggere mai). Fu richiesto anche a me di essere donna. Dissi di no. Così rimasi maschio e letterato. Povero me. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 418
26 giugno 2015 alle 19:29
Calma e gesso.
Anch’io non sono d’accordo con giornivariabili quando propone una diagnosi impietosa e tranchant sugli studi di genere. Anche a me non piacciono i discorsi come “sono stati i sindacati a rovinare l’Italia” (o Berlusconi) et similia. E non entro nel merito degli studi di genere, che come tutti i “discorsi” (le cosiddette «scienze umanistiche») hanno potenzialità e limiti. Gli studi di genere hanno – a mio avviso – sollevato problematiche serie e necessarie.
Secondo. Non mi spaventa la complessità del discorso. Né il suo mistero, e nemmeno il suo enigma. Non voglio semplicità – a tutti i costi, e il romanesco pop che è in me… scherzava… continuo a pensare però che c’è una tipologia di discorso riflessivo-filosofico-accademico che si presenta come “alienato”; è una complessità più nell’andamento che nella sostanza. E devo dire che leggendo Daniela Brogi… ci siamo. Questo andamento non fa bene ai gender studies. O non fa bene e basta. No.
«Dentro questo quadro di riferimento da cui… guarderemo alle espressioni di genere concentrandoci sui modelli egemonici, lasciando da parte, di conseguenza, le varietà d’identità maschili che smentiscono le pretese assolutizzanti degli studi di Mosse…. dentro questo campo di rapporti per cui, ragionando in termini di senso comune, la scrittura di genere, gli studi di genere, sono espressioni per lo più intese come sinonimi di scrittura/studi delle donne, è dunque possibile parlare di uno specifico letterario maschile?
Esiste, insomma, una scrittura “maschile”?…»
Mi dispiace – questa congerie di periodi (di quali «campi di rapporti» sta parlando? Forse dovrei aver letto Mosse…) per dire semplicemente «Esiste una scrittura ‘maschile’»? (A parte il «noi accademico»). Capisco, che può essere anche un limite mio. Lo è senz’altro (hai ragione: per esempio non ho letto Mosse, non mi pavoneggio della mia ignoranza). Ma ribadisco la mia sensazione, qui la complessità è narcisistica, da pavone accademico, non «reale». Ti darò sui nervi Giulio, ma la penso così.
PS In che senso un “concetto si presenta e autorappresenta”? Un concetto non è un «soggetto»… siamo a una dimensione, scusa, «inumana»… siamo sul ghiaccio di una pura astrazione. Siamo su Marte. Fa bene ai gender studies questo? A mio avviso no.
26 giugno 2015 alle 19:53
“ Venerdì 25 aprile 2014 – La vecchia attrice l’ha notato: nel « Tanto gentile e tanto onesta pare » del prologo del balletto c’era un errore: la voce fuori campo ha detto un « egli » al posto dell’« ella » – « Quand’ella altrui saluta ». Ma c’è anche la possibilità che l’abbiano fatto apposta, trattandosi di uno spettacolo sulla questione del « genere »: The Crazy Gender Show. Mah. Boh. Forse la verità è solo che lei è una vecchia attrice. Che è come dire un’attrice vecchia, ma non proprio. [1] [1] La « vecchia attrice » era Lydia Mancinelli. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 419
26 giugno 2015 alle 21:19
A me pare un buon articolo, con tanti spunti di riflessione. Potrebbe accadere che ai maschi l’articolo piaccia di meno e alle femmine piaccia di più.
Daniela Brogi mi pare assai in gamba.
C.
27 giugno 2015 alle 07:19
Mi dico: sei un ignorantone per questo non capisci,non hai gli strumenti; però insomma non ho mai letto una cosa tanto astrusa, caotica: il senso della messa in scena di una montagna per mettere in scena il topolino. Premesse, deviazioni, una prosa contorta … Non sono arrivato alla fine mi sono arenato abbastanza prima
27 giugno 2015 alle 07:35
Ecco, Enrico: adesso hai almeno argomentato un po’. Ma non basta chiamare “congerie di periodi” una frase complessa per dichiararla vuota di significato. Così come non si può criticare una studiosa perché cita un autore che non conosco. Neppure io ho letto il libro di George Mosse (che non è uno studioso peregrino: tradottissimo in italiano, ecc.) sulla “mascolinità”; ciò non mi ha impedito né di informarmi velocemente (esiste questa cosa meravigliosa che è l’internet) né, credo, di capire il senso del discorso. Ecc.
Non perdo tempo a provare a spiegare a Giornivariabili che l’intervento di Daniela Brogi non attacca in nessun modo la “irriducibile individualità di un testo”. (Apro la guida Michelin. Leggo che sono molto lodate le zucchine al forno della Trattoria Cibotto di Villafranca Veneta. Indignato, scrivo agli autori della guida rivendicando l’irriducibile individualità di ogni zucchina. Ecc.).
27 giugno 2015 alle 07:43
“ Senza data [1982] – Senti questa: lui compra seimila dispositivi antizanzare che attirano le zanzare simulando il ronzio del maschio. Ma le zanzare arrivano e lo pungono. Ritorna con una faccia come un peperone. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 420
27 giugno 2015 alle 08:17
inizio lettura, alcuni appunti.
A un certo punto l’autrice ci dice di notare come non esista un equivalente opposto di “misogino”, e lo porta come esempio rivelatore di qualcosa, nel caso degli assetti del mondo definiti dal linguaggio. Problema è che il termine opposto esiste, ed è “misandrico”.
Poi propone il test del ribaltamento di situazione, spesso usato nell’analisi delle pubblicità. Solo che propone a) un ribaltamento che ribaltamento non è, dal momento che cambiando il titolo la situazione è diversa, ma non opposta in senso speculare; e b) l’effetto diverso è dato appunto dal significato del titolo. Fosse stato lo stesso titolo per gli autori maschi, Gli amici geniali, non ci sarebbe stata alcuna differenza di percezione. E oltretutto la differenza di percezione è ancora da stabilire che voglia dire qualcosa. Quindi il test non dimostra nulla.
27 giugno 2015 alle 11:31
Infatti ti ringrazio Giulio per avermi dato il destro per una argomentazione; è sempre utile essere riportati alla necessità della argomentazione; questo è un insegnamento.
Ma io non critico una studiosa per aver citato un autore che non conosco, cioè non lo faccio da nessuna parte, qui.
Da Platone in poi, abbiamo la questione della complessità “buona” o “cattiva” del discorso. La “scissione” del logos in vuota retorica narcisistica, sfoggio di abilità (sofisti) e discorso articolato, dialogico e produttivo (quello di Socrate). Arduo “decidere” a volte. Devo dire che è forse anche una questione di “sensibilità retorica” per così dire. Una citazione (o una fraase sintatticamente complessa) è sfoggio, piuma di pavone, o contributo alla profondità del discorso? Devo dire che io, nel discorso di Brogi, avverto subito (dopo aver letto tanta filosofia peraltro, non sempre “trasparente”), un tono vuoto. Tortuosità per arrivare a dire qualcosa di persino semplice, banale. Mi fermo qui. Vedo che non sono l’unico a sostenere questa tesi. Qualcuno forse la argomenterà meglio e con maggiori “pezze di appoggio”.
27 giugno 2015 alle 14:31
Aggiungo un elemento “antropologico”: nel testo di Daniela Brogi sento un’esigenza fortissima: l’approvazione della tribù – cioè dell’uditorio, del contesto nel quale parla, che ha i suoi punti di riferimento e i suoi “riti”. Difficile argomentare a partire dal mero testo perché questa “sensazione” lo eccede… che sia una affermazione “indimostrata” dunque.
27 giugno 2015 alle 14:32
E io, Enrico, non sono l’unico a pensare che l’intervento di Daniela Brogi sia interessante (ovvero: l’argomento “democratico” è irrilevante).
27 giugno 2015 alle 15:01
Intendi, Enrico, quella “tribù” che è costituita da circa il 50% della popolazione del pianeta?
Se così non è, ti invito a descrivere il contesto del quale parli; a spiegare perché lo chiami “tribù”; a dire quali sono i suoi “punti di riferimento” e i suoi “riti”.
27 giugno 2015 alle 15:52
Dico la mia ignorantissima opinione.
La complessità dell’articolo di Daniela Brogi (che mi è molto piaciuto, pur non essendo inattaccabile, anzi soffrendo – come qualcuno ha fatto notare – di una bella arbitrarietà nell’esemplificazione, oltre che di qualche fragilità argomentativa) mi pare veramente indispensabile. La complessità. Ho letto questo testo con l’attenzione morbosa che si riserva allo spettacolo di un’impresa impossibile. Mi spiego meglio: a me pare che la domanda espressa dal titolo non possa trovare una risposta salda, intellettualmente ricevibile. Magari mi sbaglio, magari una costruzione razionale è possibile (e che non sia falsificabile con un gesto minimo, come un mandala in balia della bruschezza altrui). Io semplicemente non vedo un approdo di risposta a portata di ragione, e per questo mi emoziona – in un senso, diciamo, cerebrale – l’avventura di chi si prova a evitare gli ostacoli filosofici, letterari, semiotici e cercando di rimanere nel percorso etico che comincia con il femminismo, il tutto restando sempre di fronte a un uditorio esigente e armato d’una tolleranza accademica rispetto a un qualunque discorso. Insomma, la complessità della traiettoria di quest’articolo, oltre che in qualche modo emozionante mi pare, da questa distanza, indispensabile a chi scrive per evitare il grosso delle trappole.
E il bello è che l’impresa è così ingenerosa che da una parte (dallo specialismo) piovono delle accuse d’eccessiva semplificazione mentre dall’altra (dal lettore semplice) vengono le accuse d’eccessiva complicazione. Sì, è un’impresa ingenerosa.
Io, nella mia ignoranza, provo a porre un’obiezione ridicola. La validità dell’obiezione sta nella vistosa ridicolaggine, e cioè nel dubbio filosofico che mette in evidenza (come accade con tutte le cose veramente ridicole).
Ecco.
Scrive Daniela Brogi:
Un insieme di persone (di autori in questo caso) che mettiamo sotto l’etichetta “Amiche geniali” non può che tenere fuori i maschi. A meno di ironie più o meno corrette politicamente, nell’insieme delle “amiche geniali” non ci sono maschi. Invece, se trovassimo dentro a quell’ipotetico scaffale intitolato “I feroci” l’opera di una autrice, non ci stupiremmo più che tanto.
Infatti, nella nostra lingua (così come nella quasi totalità delle lingue esistenti) vige la regola del maschile universale, per cui appunto, come scrive Daniela Brogi, “‘femminile’ e ‘maschile’ possono funzionare rispettivamente come espressione di ciò che è particolare o universale” (e faccio notare che nel testo quest’ultimo virgolettato si riferisce non alla grammatica della lingua ma al caso specifico delineato nell’esempio; non siamo nella langue, mi viene da dire (ma solo per citare anch’io un nome), siamo all’individualità specifica della parole; eppure costatiamo la coincidenza tra il maschile universale grammaticale e il maschile universale per così dire narrativo, letterario o che ne so).
L’obiezione, ma in forma di domanda irriverente: siamo nel linguaggio e vogliamo guardare oltre il linguaggio – cioè a una cristallizzazione del linguaggio: l’obiettività, la condivisione di un orizzonte, di uno sfondo teorico – attraverso l’uso di un linguaggio stratificato e sfuggente che, in un certo senso, non potrà mai sfuggire a se stesso?
Scusate per la ridicolaggine, o quel che volete.
27 giugno 2015 alle 16:06
D’altra parte, qualche anno fa avremmo potuto avere (e forse abbiamo avuto) lo scaffale dei “cannibali”.
27 giugno 2015 alle 16:15
Sai che è proprio l’esempio che mi è saltato in mente mentre scrivevo (e Wikipedia mi ha subito ricordato che, tra i cosiddetti “cannibali”, c’è pure Isabella Santacroce)…?
27 giugno 2015 alle 17:17
“ Venerdì 26 luglio 1996 – Quando ieri sera sono andato a dormire, non avevo ancora deciso quale libro portare con me quando, il giorno dopo cioè fra poco, partirò per andare in vacanza. Ma stamani non ho avuto dubbi, sarà perché è Venerdì: sarà il Robinson Crusoe. Il Robinson Crusoe che leggerò nei prossimi giorni non sarà quello vero, il mio, che trent’anni fa prestai al mio amico e che, dopo trent’anni, non ho ancora riavuto indietro, ma una copia, in tutto identica – è l’edizione Einaudi del 1963 -, che ho ottenuto in prestito dalla biblioteca. Trent’anni perduti? Forse. Comunque, dopo trent’anni, se si vuole leggere, bisogna accontentarsi delle copie, di quelle cose in tutto e per tutto simili agli originali, ma che in qualche impercettibile particolare si rivelano false, non autentiche, se non addirittura bugiarde. C’est la vie. Del resto tutti i venerdì non incontro forse un Venerdì che non è quello di Robinson ma quello di Repubblica? Quando uno ha fatto naufragio ha fatto naufragio. (Il problema vero sono i cannibali) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 422
27 giugno 2015 alle 18:12
Stefano: c’è una considererevole differenza tra la frequenza d’uso di “misogino” e di “misandrico”. Lo dico così, a orecchio. Se il mio orecchio non si sbaglia, direi che la cosa ha una qualche significatività. O no?
27 giugno 2015 alle 19:31
Sì Giulio, probabilmente è indicatore di una certa linea storico evolutiva presa dall’uomo in quanto specie. Ma qui viene posta come tesi l’idea che il maschile sia un universale e come indizio si porta una prova falsa. Dicendo che un indizio è la minore frequenza della misandria la tesi per me non viene ugualmente confermata. Mi sembra più che altro una tautologia o semplicemente un’interpretazione sbagliata a partire da considerazioni giuste. Ovvero la storia è andata in un certo modo, ma il maschile non è sempre un concetto universale.
27 giugno 2015 alle 22:36
Il discorso è stato letto alla Biblioteca delle donne di Bologna, giusto? Davanti a un pubblico che – magari, per ipotesi – quando Brogi parla di Mosse (faccio un esempio) magari ha qualche “cassetto” dove andare a prendere l’informazione, no?
Forse è quella la – con tutto il rispetto – tribù, di cui non conosco i riti, non conosco la “cultura”.
Anche gli utenti di Vibrisse in qualche modo sono una “tribù”.
Mi sorprende che tu abbia pensato a un mio commento latamente sessista. Anzi ne sono lievemente sconcertato. Boh, guarda. Non si finisce mai di stupirsi.
28 giugno 2015 alle 07:03
“ Sabato 8 giugno 2002 – Stamani, vedendo i giocatori del Sud Africa cantare un loro strano cavernoso canto da ne(g)ri ho pensato che hanno ragione quelli che dicono che il Tribalismo non è disgiunto dal Moderno, cioè che in un certo senso siamo tutti selvaggi, cioè tutti ne(g)ri. Vedendo poi che, fra i tifosi del Sud Africa, non erano pochi quelli che manifestavano immensa soddisfazione quando si accorgevano che la tv li stava inquadrando, ho pensato che non basta dire che siamo tutti ne(g)ri, perché fra i ne(g)ri ci sono anche i fotografi. Che sarebbero una specie di stregoni, gente cioè che fa un mestiere particolare, che nessuno capisce, ma che tutti, nella tribù, mostrano di apprezzare. A me, non essendo fotografo, non resterebbe altro che essere ne(g)ro, cioè tifoso. Ma poiché, per qualche strana ragione, fare il tifo, cioè essere inquadrato, non mi piace, non posso essere altro che un ne(g)ro strano. Del resto anche questa non è una novità: nella tribù c’è sempre qualcuno che non serve a niente, che non si sa come ci sia capitato, che non sembra nemmeno ne(g)ro come tutti gli altri. È lo scemo, l’idiota. « Della famiglia? » No, della tribù. (Chissà, forse prima ero uno stregone anche io. Sapevo ascoltare le voci degli animali, sapevo leggere le nuvole e i venti, sapevo guarire, sapevo cantare: con le parole che dicono tutto. Sapevo i nomi delle cose e degli uomini. Sapevo i segreti che uniscono la tribù. Sapevo il mio nome e il nome di quelli che a me erano uniti nella certezza del sangue. Sapevo i nomi dei morti, i nostri morti, i morti di cui si nutre la nostra vita) “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 423
28 giugno 2015 alle 07:09
Enrico, che tu ti stupisca di avere scritto dei commenti sessisti, è normale. Raramente ci si rende conto dei propri apriori.
Il pubblico della “giornata di studi” di Bologna era, com’è ovvio che fosse, uno pubblico di “studiose” e “studiosi”. Ma in senso molto lato: perché c’erano a es. traduttrici e traduttori, editor, almeno un economista datosi alla sociologia, delle freelance e dei freelance, eccetera. Mi sembra comunque interessante questo attaccamento alla citazione di Mosse. Come se citare un autore notissimo (per “notissimo” intendo: pubblicato in Italia da più di trent’anni, anche nei tascabili, ecc) comporti di per sé il riferirsi a un pubblico ristretto, addirittura a una “tribù”. L’unico libro di Mosse che io abbia letto, “Le origini culturali del terzo Reich”, me lo diedero da leggere al liceo ed era un Oscar Mondadori.
Stefano, uso come base di dati quella offerta da Google.
– misandria: 86.200 pagine contengono questa parola
– misandrica: 6.090 pagine…
– misandrico: 5.890 pagine…
– misandrismo: 2.740 pagine…
totale: 100.920
– misoginia: 556.000 pagine…
– misogino: 282.000 pagine…
– misogina: 5.770 pagine…
– misoginismo: 5.540 pagine…
totale: 849.310
Ovviamente questo conteggio è solo indicativo o, se si vuole, suggestivo (a es.: ci saranno pagine che contengono più di una delle parole cercate, ecc.). A me pare comunque che otto e mezzo contro uno sia una proporzione significativa. Fosse un risultato elettorale, si parlerebbe di vittoria schiacciante e di demolizione dell’avversario. (Nel fare questo conto ho supposto che “misantropo” sia un termine da non considerare in quanto, per così dire, generico e non di genere). Da notare che “misandrismo” è per Google, in prima battuta, una parola da sottlineare in rosso in quanto probabile esito di un errore di battitura.
28 giugno 2015 alle 10:17
“ Mercoledì 3 luglio 1996 – Trent’anni fa una cosa di cui si discuteva parecchio era l’« integrazione ». L’« integrazione » riguardava il rapporto fra gli intellettuali e l’industria, cioè se gli intellettuali dovessero o no « integrarsi » nel sistema della produzione industriale, accettarne le leggi, i metodi, le finalità. In particolare, credo che ciò che era veramente in questione fosse il rapporto fra i letterati e l’industria culturale, stando che, trent’anni fa, il letterato era ancora la figura intellettuale più prestigiosa e diffusa; ciò di cui si discuteva era, all’incirca, se si dovesse scrivere tenendo d’occhio il mercato editoriale, se ci si dovesse sforzare di inventare slogan pubblicitari, confezionare best seller, inseguire il pubblico che, anche allora, aveva i suoi discutibili/indiscutibili gusti. Sonetti o Olivetti?, la questione si potrebbe anche – buffonescamente – mettere così. Comunque è una storia vecchia che, non dico di no, andrebbe anche attentamente rivisitata da chi, per mestiere, rivisita. Per ora mi voglio ricordare soltanto che Umberto Eco ci scrisse sopra un celebre saggio, dal titolo appunto: Apocalittici e integrati, che era anche un’argomentata presa in giro e degli apocalittici e degli integrati. Credo che, sotto la contrapposizione fra chi cedeva alle lusinghe della « comunicazione » industriale e chi si teneva arroccato in ciò che restava dell’antica « torre d’avorio », si celasse una divisione politica, anzi ideologica. La « torre d’avorio » in cui alcuni intellettuali tentavano di « salvarsi » era ancora il comunismo, la prospettiva cioè di una interpretazione del mondo totalmente « altra » rispetto a quella proposta e entusiasticamente realizzata dal sistema capitalistico. Ma il fatto è un altro. Il fatto è che a me, che sì, lo ammetto, un po’ letterato ero, ma soprattutto ero poco più che un ragazzo, sembrò allora che questa storia dell’« integrazione » mi riguardasse. E il buffo, il veramente buffo, è che, nel momento in cui, diventando comunista, aderivo a una prospettiva di severa contrapposizione al sistema capitalistico, io ebbi invece l’impressione di « integrarmi ». Forse dipendeva dalla gente che frequentavo, dai miei nuovi amici, con quelle facce così comuni, con quelle storie scolastiche così disastrate, con quelle madri così casalinghe, con quei padri così poliziotti, con quelle case dove non c’erano mai libri, con quelle barzellette, con quei discorsi di donne, di preservativi, di pompini, che io non mi sarei mai permesso. E poi erano tutti architetti. E quello che diceva la « turris ebburnèa ». E quello che prima era fascista. E quello che si voleva ammazzare. E quello che c’aveva la sorella mignotta. E quello che c’aveva la mamma mignotta. Io ero così abituato a essere « diverso » dagli altri che anche fare sport o giocare a calcetto o ballare il twist mi sembrava « integrarsi ». Anche guidare la macchina, anche sbandare in una curva, anche bocciare a un esame, io che non ero mai bocciato. E soprattutto avere una fidanzata. Che a un certo punto, come se fosse un obbligo, ce l’ebbero tutti. Naturalmente non era questa l’« integrazione », ma io, che, a questo punto si sarà capito, non capisco mai niente, lo credetti. Poi ne sono successe tante. E ancora stamani, seduto su quello che alcuni conoscenti chiamano, con involontaria comicità, il tarallo, ho ammirato un fumetto nel quale Altan ironizza, tramite due donnine dipinte, sulla passione dei maschi per il calcio. E pensare che i fumetti – che gli altri quasi esclusivamente leggevano e che io quasi assolutamente disprezzavo – ancora più che il calcio erano per me, un tempo, il simbolo di ciò che i maschi erano e io, invece, non ero. La mia « integrazione » fu smettere di studiare, fu cominciare a leggere i fumetti, anche se erano quelli – sciccosissimi – di Schultz o di Lunari, fu cominciare a pensare alle donne, fu diventare, insomma, dal mio punto di vista, maschio. Perché invece quelli che io credevo fossero i maschi poi si è venuto a sapere che erano donne. Incredibile ma vero. Prima sembravano apocalittici e erano integrati. Sembrava industria e invece è cultura. Sembrava Rivoluzione e invece è Stato. O viceversa. E ora dicono che sono tutti gay. Boh. Però a me non la danno a bere con tutti questi strani rigiri. Certe cose io, comunque, le so. Per esempio, che per vestirsi da donna bisogna essere uomini, anzi maschi, e io, che maschio non ero, e continuo a non esserlo, non posso che vestirmi da uomo, anche se in questo modo faccio capire di esser solo una povera autentica donna. Mi dispiace per la mamma che ci teneva tanto. (Che cos’è che mi fa paura, nei maschi – perché i maschi mi fanno paura – ? Io credo che sia la faccia. E, in quanto a faccia, anche certe donne per me sono maschi, molto, ma molto più maschi di me) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 424
28 giugno 2015 alle 11:31
caro Giulio. Beato te che leggi negli apriori (o gli” apriori?). Mi chiedevo se anch’io leggo negli apriori, Mi sono detto: forse non bisogna leggere negli apriori (o gli apriori). Può essere che anch’io legga negli apriori, Faccio male a leggere negli apriori. E sono rimasto così. Con i miei apriori? Probabilmente. Mi sa che anche leggendo la Brogi cercavo gli apriori. Ah gli apriori. Mi sa che bisogna lasciarli stare; è stato questo l’errore? i suoi, i miei apriori… Deve aver detto qualcosa Wilde su questo tema. Su superficie e profondità. Forse non usava il termine “apriori”. Sono folgorato da un desiderio: leggere senza apriori,
28 giugno 2015 alle 11:38
Giulio certo, fra i vari aspetti del mondo per capire che c’è uno sbilanciamento e una gerarchia sociale tra i generi ci si può soffermare sul fatto che oggi consideriamo patologica la misoginia e la facciamo rientrare in un ampio spettro di comportamenti che discendono dal patriarcato. Solo che a me sfugge il nesso con il presupposto, ovvero che il femminile sia un particolare e il maschile un universale o chissà cos’altro voglia dire l’autrice. E il testo è pieno di affermazioni che discendono da teorie mai confermate: nella conclusione ritornano dei luoghi comuni inconsistenti, tipo un’arcaica e tramandata istanza di dominio che però nasconde la paura del femminile e financo il risentimento maschile per il materno, che fa il paio con l’invidia del pene quanto a cose dette e prese per vere, peccato mai dimostrate vere, se non attraverso suggestioni, ricerche letterarie, studi sul linguaggio…
28 giugno 2015 alle 15:06
Enrico, ho usato una piccola tecnica che si chiama “incomprensione deliberata”.
Tu hai scritto:
dove è chiaro, mi pare, che tu ti stupisci del fatto che io abbia trovato “sessista” un tuo commento (che a tuo parere “sessista” non è).
Io ho commentato:
dove è evidente che fingo di prendere fischi per fiaschi. Lo scopo dello scherzo era quello di farti venire il dubbio (il dubbio che i tuoi interventi siano qua e là “sessisti”). Perché io, il sospetto che i tuoi commenti abbiano un fondo “sessista”, ce l’ho.
Stefano: quello che tu chiami “il presupposto”,
a me pare una cosa piuttosto evidente. Il solo fatto che esista una quantità di studi sulla “letteratura femminile”, la “letteratura delle donne”, la (peggio!) “letteratura al femminile”, mentre non esistono – che io sappia – studi su “letteratura maschile”, “letteratura dei maschi”, “letteratura al maschile”, mi pare significativo. Naturalmente la frase di Daniela Brogi va letta così:
perché proprio di questo che Daniela Brogi parla: del senso comune, delle rappresentazioni sociali.
Quanto però al
qui è a me che sfugge (nel tuo discorso) il nesso. Ovvero: non capisco perché tu protesti per la mancanza di nesso tra qualcosa di cui Brogi parla (il femminile “particolare” ecc.) e qualcosa di cui Brogi non parla per nulla, nemmeno (mi pare) elitticamente o per allusione (la misoginia come “patologia”). Tra l’altro, nel Dsm (vecchio, mi pare la prima edizione del III) che ho in casa, la “misoginia” non compare. Quindi presumo di non aver capito.
Vi sono poi, ebbene sì, degli ambiti nei quali non si danno conoscenze certe. E dunque?
28 giugno 2015 alle 18:13
Giulio, perdonami, poiché un po’ ti faccio perdere tempo. Allora, noi siamo d’accordo sul fatto che analizzando il linguaggio; l’occorrenza dei termini; la considerazione che ricevono le donne che scrivono; il fatto che le ragazze usano espressioni volgari riferite a parti intime maschili, mentre le ragazze femministe militanti usano espressioni riferite alle proprie parti intime eccetera; tuttò ciò ci aiuta ad avere un certo quadro della situazione. Ma a parte questo, io non capisco il senso di tutto ciò. Esistono gli stereotipi di genere e si riverberano in letteratura. Ma si riverberano a seconda del vissuto di ogni persona e del momento storico in cui vivono. I wu ming dopo Q ricevettero critiche dalle lettrici femminili e cominciarono a lavorare meglio sui personaggi femminili.
Non capisco il senso di fare certi ragionamenti a partire dal senso comune e dalle rappresentazioni sociali, che sono vaghi e mutevoli e che dicono qualcosa di come le cose vengono raccontate molto più di come sono. La parte su playboy è rappresentativa per me. L’immagine presa a simbolo di un immaginario che agisce. Solo che su playboy ci stavano scrittori e modelle, in vetrina scrittrici affermate e credibili.
Poi si arriva alla conclusione che ci sono scrittori troppo ancorati agli stereotipi. Si giudica vecchia la scrittura di Houellebecq, o altre che raccontanto una virilità situata nel mito, non aggiornata come quella raccontata da Starnone, perché non racconta l’io maschile vulnerabile. Perché ovviamente oggi che si parla di identità maschile, meglio di identità maschili, e vai con i male studies, verranno pure le letterature maschili, ché gli stipendi non sono mai abbastanza…
Quindi la marca maschile è quella vecchia, meno interessante. Poi quando un giorno fioriranno scritture dell’io vulnerabili, diventerà quella la marca maschile, e a un certo punto diventerà poco interessante pure quella.
Agli stereotipi si risponde con altri stereotipi.
Infine, il problema non è che ci sono ambiti incerti, è che le prove per eliminare la certezza vengano cercate nei romanzi. Per cui la tesi del maschio risentito di non poter generare vita, come se la fecondazione non fosse una faccenda condivisa, trova la conferma nelle scuse di Bolano. Che essendo scrittore in voga viene preso come esemplare. Nel saggio di Mazzoni, i destini generali, accade la stessa cosa. Si presenta la tesi della mutazione antropologica aggiornata e si cercano esempi di blanda schizofrenia nei romanzi, per cui Bolano racconta un coppia e un tradimento percepito come nulla fosse, e dunque così è per tutti.
Però in effetti non voglio protestare, cerco di capire.
28 giugno 2015 alle 20:55
Stefano: a me non risulta che “senso comune” e “rappresentazioni sociali” siano “vaghi e mutevoli”.
Faccio un esempio: la rappresentazione degli ebrei come, diciamo così, “ospiti sgraditi e sgradevoli” nell’Europa cristiana, mi pare che abbia una certa durata (quasi due millenni).
La rappresentazione della donna come essere della specie umana inferiore al maschio in una quantità di cose, mi pare abbia pure una certa durata (quanti millenni?).
Servono altri esempi?
Scrivi:
Senz’altro. Mi pare che nessuno, e in particolare non Daniela Brogi, abbia tentato di affermare il contrario.
Certamente, ad esempio, la persecuzione del popolo ebraico non veniva eseguita nella Roma imperiale o nella Spagna del Medio Evo o nella Francia del XIII secolo o nella Mitteleuropa del XX secolo. Anche le motivazioni esplicite e ufficiali della persecuzione non erano le medesime. E sicuramente ogni buon cittadino nazista nella Germania degli anni Trenta del secolo scorso si viveva a modo suo, secondo il suo vissuto eccetera, la sua rappresentazione degli ebrei come nemico.
Consiglierei, per un primo approccio ai concetti di rappresentazioni sociali e di senso comune, questa lezione di Paolo Jedlowski intitolata: Che cosa significa che la realtà sia una “costruzione sociale”?.
Poi: invito a prendere l’intervento di Daniela Brogi per quello che dichiara di essere:
E spero a ‘sto punto di essere riuscito a spiegarmi. Per il resto invio a un mio vecchio intervento, intitolato Lo specifico maschile in letteratura.
28 giugno 2015 alle 21:10
Ma vedi anche, volendo, (anche se è un po’ un problema raccapezzarsi tra i riferimenti), l’articolo Lodi del corpo maschile / Apriamo il dibattito, ovvero la tenzone. Che ha, quantomeno, il merito di non essere serioso.
Oppure, tutta da guardare, la serie di immagini intitolata La donna ideale.
28 giugno 2015 alle 21:42
Giulio grazie. Lo specifico eccetera l’avevo letto e apprezzato. grazie per le altre letture consigliate.
28 giugno 2015 alle 22:11
“ Martedì 17 dicembre 1996 – « Devo continuare il diario perché è un’attività femminile, è una creazione personale e personificata, l’opposto dell’alchimia maschile. Voglio rimanere sul piano dell’intrasmutato, intrasformato, intrasposto. Questa alchimia chiamata creazione, o invenzione, è diventata per me altrettanto pericolosa della macchina. Sentimenti ed emozioni vengono deviati all’origine, usati come carburante per altri scopi. Quello che esce dalla fabbrica: quadri, sculture, ceramiche, architettura, romanzi, lo guardo ora con paura. È troppo lontano dalla verità del momento che viene percepita dal sentimento, mentre vive, non dopo. » (Anaïs Nin, Diario, febbraio 1937) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 427
29 giugno 2015 alle 12:40
Giulio appunto. Resta il tuo dubbio, penso (in realtà spero di fugarlo). Non mi è venuto il dubbio. Perché, forse banalmente, forse con esagerazioni, forse “pisciando fuori dal vaso” come si dice, ho sostenuto una cosa molto semplice: che il testo proposto alla nostra lettura sia gravato da una sorta di birignao intellettualistico (l’ho chiamato anche – esagerando? – falso sé): complessità formale esagerata, per un contenuto semplice/banale; è vero non è vero? Ho cercato di argomentare un minimo per sostenere la mia tesi. Ci sono riuscito? Non ci sono riuscito ad argomentare in modo convinvente? Non lo so.
Ho sostenuto che, forse, per ipotesi, il birignao potesse essere compreso a partire dal contesto per cui il testo è stato prodotto. Il birignao mi pareva per così dire “accademico” (nei miei commenti figura questo aggettivo).
Qualcuno, vedo, ha avuto la mia stessa sensazione (è stato infastidito dal birignao), qualcun altro invece (si vedano per esempio i commenti di dm) tutto al contrario. Bene, benissimo.
La diversità è ricchezza, discussione, confronto.
Aggiungo (se ho capito i tuoi dubbi) che il birignao intellettualistico/filosofico, a mio avviso, non ha sesso (spesso ha “tribù”, o uditorio, però, mi pare: i “tecnici” della poesia, i filosofi ecc.).
Ho presente un amico che ne ha fatto “una cifra”, di un birignao heideggerriano/poetico, addirittura lui ne è consapevole. Ne abbiamo riso insieme, a me fa sempre un po’ specie. Il mio commento è rimasto a livello formale, e questo è il suo limite oggettivo. (Se mi sono spinto “oltre” è stato per una troppo breve considerazione su una “metafisica” in cui non ci sono i soggetti ma i “concetti”, che addirittura si “autorappresentano”). Non ho sviluppato e articolato questa critica di carattere in senso lato filosofica e meta-testule, il che penso si potrebbe fare, magari con qualche interessante risultato. Questo è “tutto”… non so se ho fugato i dubbi…
29 giugno 2015 alle 17:44
“ Lunedì 29 giugno 2015 – « Se ai tempi di Jack London ci fosse stato YouTube Martin Eden non avrebbe avuto bisogno di inseguire con così tanto sudore le sue aspirazioni letterarie. Gli sarebbe bastato accendere una telecamera e filmarsi mentre parlava di sé. Con qualche milione di visualizzazioni sarebbe rimasto comodamente seduto sul divano di casa in attesa che un editore bussasse alla porta. Agli inizi del Novecento era impossibile anche solo da immaginare, oggi accade di frequente: il presente dell’editoria è in Rete. Le case editrici dopo avere passato al setaccio blog, social network e piattaforme come Wattpad, hanno deciso di mettere sotto contratto ragazzi che magari non hanno mai scritto niente di più lungo che un post, ma che partono con una base di milioni di potenziali lettori, gli stessi che ogni giorno cliccano sui loro video. I primi tentativi sono stati cauti: ricettari, manuali di trucco, consigli per aspiranti giocatori. Funzionavano e molto bene: scalavano le classifiche di vendita, portavano ossigeno nelle casse di una editoria in crisi. Tanto vale spingersi più in là: autobiografie firmate da chi a vent’anni è riuscito a trasformare se stesso in un brand. Vendite da record, perché fermarsi? Ecco allora, ultimo arrivato, un libro che non racconta la storia di chi lo ha scritto, ma che per la prima volta nutre ambizioni letterarie: La casa dei sogni, genere horror. Lo firma una ragazza italiana, Marzia Bisognin, ventidue anni, un canale YouTube chiamato CutiePieMarzia seguito da oltre 5 milioni di iscritti in tutto il mondo, nel quale lei con autoironia parla di viaggi, moda, carlini e soprattutto della sua vita inglese con il fidanzato Felix Kjellberg, in arte PewDiePie, con quasi 38 milioni di subscribers lo youtuber più famoso al mondo. La Newton Compton ha stanato la ragazza a Brighton, città in cui vivono altre star del web tra cui Zoella (Zoe Sugg), che nel 2014 con il suo Girl on line ha stracciato il record di vendite della Rowling e il suo fidanzato Alfie Deyes che da quando ha quindici anni carica ogni giorno un video sulla sua vita e che nello stesso anno ha firmato The Pointless Book, una specie di diario con frasi, consigli e spazi da riempire, definito dal Guardian un’astutissima mossa di merchandising. La casa editrice, in Italia una delle più attive nello scouting on-line, ha faticato non poco a convincerla – i primi tentativi risalgono al 2003 – ma alla fine ha ottenuto un contratto per un libro che, prima ancora di arrivare sugli scaffali, ha suscitato l’interesse dei più importanti marchi al mondo. All’asta per la vendita dei diritti sul mercato di lingua inglese, ha strappato una cifra a sei zero a Simon & Schuster. Un successo commerciale che non ha precedenti per una esordiente e che si spiega solo osservando più da vicino il cross over tra editoria e rete degli ultimi tempi. » (Dai giornali di oggi) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 428
29 giugno 2015 alle 18:44
Ho letto adesso Lo specifico maschile in letteratura. Perfetto. Oltre che: chiaro e semplice, e pulito. Perché la prosa saggista non può essere chiara semplice e pulita?
29 giugno 2015 alle 18:47
prosa saggistica!
29 giugno 2015 alle 19:00
Ecco, adesso devo anche sentirmi spiegare che “la diversità è ricchezza”.
Che devo dire? Ah, questo luogocomunismo democraticistico! Ah, questa fiera del politically correct! Ah, questa Expo del falso sé!
D’altra parte, uno che mi dice
è sicuramento uno che non ci ha nessun birignao di nessun tipo, vero?
🙂
30 giugno 2015 alle 05:51
Cristian: la prosa saggistica può essere semplice e pulita. Il mio pezzo “Lo specifico maschile in letteratura” è invece semplicistico. Come notò (vedi la discussione in calce) Enrico Ernst:
Che poi la gonzaggine del “cattivo” sia dovuta, secondo me, più al suo essere “giornalista” (nel modo in cui talvolta si è giornalisti oggi) che al suo essere maschio – cambia poco.
30 giugno 2015 alle 08:13
“ 11 maggio 1995 – Mi dispiace per te, donna, che non ti fai la barba la mattina. Se te la facessi sapresti che cominciare è un tagliare, un togliere. Tolta la barba si costruisce il viso, che risulta bianco, come quello di un clown. Con questa faccia fasulla – vernice fresca -, con questa pelle di neonato – da baciare? -, ogni mattina si comincia, nudi e crudi. Dice: ma perché ti fai la barba? Te l’ho appena detto. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 429
30 giugno 2015 alle 08:57
acabarra: e la ceretta?
30 giugno 2015 alle 09:25
Sin-cera-mente non ricordo.
30 giugno 2015 alle 15:43
si possono fare moltissime indagini sulle influenze sociali, politiche, religiose e financo astrologiche (scherzo) sui testi letterari. ma bisogna un minimo darsi un metodo e circoscrivere il terreno con qualche confine che offra un minimo di comprensibilità. questo articolo è scombiccherato, approssimativo e – forse proprio per questo – scritto con uno stile compiaciuto e astruso. non muore nessuno, ma non credo che faccia male, ogni tanto, evidenziare i limiti di uno studio.
1 luglio 2015 alle 14:33
Però, Giorni, questo intervento non è uno “studio”. E non parla di “influenze” sui testi letterari.
Eh.
1 luglio 2015 alle 17:45
“ Giovedi 20 novembre 1997 – Quando, come succede abbastanza spesso, mi trovo a pensare all’università, penso sempre a quel mio amico – si fa per dire – che nella mia città dirige l’università per stranieri. Un tempo l’università per stranieri era considerata una cosa poco seria, qualcosa fra la pro loco e il ristorante tipico, ma ormai non è più così, anzi, come vorrei dimostrare, non lo è mai stato. Io credo infatti che, in un certo senso – nel senso che conta -, l’università è sempre « per stranieri », cioè quelli che ci vanno, dal punto di vista di quelli che ci stanno, sono sempre « stranieri », gente venuta da fuori, e che, nella maggior parte dei casi, « fuori » è destinata a restare. Può sembrare strano, ma è così, e chiunque abbia avuto a che fare con l’università lo sa bene. La ragione è che l’università si fonda su qualcosa di piuttosto segreto, come un dialetto, una password, un mistero. E chi il mistero lo sa, ci sta, e chi non lo sa, non ci starà mai. Come fare a saperlo poi è un altro mistero – il mistero di sapere il Sapere – mistero profondo ma, essenzialmente, buffo. Questa natura misteriosa dell’università spiega anche come sia stato possibile che il mio amico – si fa per dire -, con tutto che era « straniero », cioè veniva da fuori – nel senso della città e anche nel senso della famiglia: era figlio, credo, di un tabaccaio -, sia potuto diventare direttore dell’università per stranieri. Che fra l’altro ormai, anche dal punto di vista legale – e dello stipendio – è un’università assolutamente come le altre. “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 430
[**] Dice: ma che c’entra? Mah. Boh. Sarà l’ondata di caldo, poi passa, forse.
1 luglio 2015 alle 20:53
Semplicistico … è un raccontino (e i personaggi devono pur essere in un modo o in un altro purché credibili, funzionali in questo caso) che comunque fissa un punto imprescindibile (Apuleio, Flaubert ecc) e ha una conclusione ragionevole.
Perché non ci si domanda: esiste una musica maschile e quindi femminile? Esistono arti figurative dal quadro all’ installazione maschile e quindi femminile? E il cinema?
Poi possiamo fare delle statistiche: fatte le dovute proporzioni: quanti romanzi storici hanno scritto gli uomini e le donne quanti romanzi gialli ecc. La cosa potrebbe essere interessante chiedendoci il perché. Ma ci saranno sempre spiegazioni di carattere storico-culturale non sarà mai possibile identificare uno specifico maschile o femminile. Chissà forse è più facile trovare uno specifico maschile o femminile nel guidare l’auto o in altre operazioni quotidiane che nello scrivere perché comunque c’è da fare i conti con una soluzione di continuità, diciamo così: di qua natura di là cultura, l’artificialità dello scrivere nel nostro caso ( appunto si può far parlare l’asino senza essere asini e si potrebbero descrivere sensazioni e sentimenti legati al partorire anche se si è maschi – basta avere una donna che ti racconta e spiega e avere la giusta sensibilità, capacità di elaborazione, oltre che – alla fine decisiva – buona grammatica) che ti stacca dal te fisico esistenziale che può entrarci sì ma mediato artificializzato nei più diversi modi indipendenti dal tuo sesso. Così mi pare.
2 luglio 2015 alle 06:31
Cristian, scrivi:
Ma ovviamente qualunque “specifico” si vada a trovare, sarà uno “specifico” immerso nella storia e nella cultura. Qui nessuno (spero) è essenzialista.
E’ possibile distinguere una pizza quattro stagioni da una pizza capricciosa? Risposta: sì. In questa “distinguibilità” sta lo “specifico”. Naturalmente poi ogni pizza quattro stagioni è diversa da ogni pizza capricciosa, l’irriducibile identità e singolarità di ogni pizza quattro stagioni o di ogni pizza capricciosa non è negabile.
L’intervento di Daniela Brogi cade in un “ambiente” nel quale la pizza è, tour-court, quattro stagioni; tanto che per intendere “pizza quattro stagioni” si dice “pizza” e basta. Mentre per intendere “pizza capricciosa” bisogna dire: “pizza capricciosa”.
Il titolo dell’intervento potrebbe quindi essere qualcosa come: “Esiste la pizza quattro stagioni?”. Ovvero: è possibile (= esistono le condizioni storico-culturali ecc. per ) costruire un discorso che indaghi lo specifico di ciò che si dà come a-specifico?
2 luglio 2015 alle 09:56
Poi, Cristian, scrivi:
Alla domanda, che è seria, si può offrire una prima risposta sommaria e un po’ rozza: ci sono arti che hanno un “contenuto” e arti che non lo hanno.
La musica – i trattati di estetica lo ripetono ormai da più di un secolo; ma è bene ricordare che in altri tempi la si è pensata diversamente – è un’arte senza contenuto. Tant’è che quando in un pezzo sentiamo irrompere un suono “reale” usato proprio in quanto suono “reale” (a es. i colpi di cannone nella Ouverture 1812 di Ciaikovskij), abbiamo una certa qual sensazione di volgarità, o di musica da circo, o di comico.
Peraltro, credo che la musica sia l’arte nella quale il dominio maschile è più esteso.
(Ovviam. non contano le “canzoni”, il cui “contenuto” è dato dal testo).
Per le arti figurative, vedi a es. questo articolo di Angela Vettese.
Ho memoria di una bella rassegna di cinema femminista, curata da Lina Mangiacapre.
2 luglio 2015 alle 11:35
“ 3 novembre 1991 – La scrittrice femminista anzi la femminista scrittrice Lidia Ravera dice e ripete con accanimento: « Misògeno ». “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 431
2 luglio 2015 alle 16:03
https://en.wikipedia.org/wiki/Susan_McClary#.22Constructions_of_Subjectivity_in_Franz_Schubert.27s_Music.22
2 luglio 2015 alle 16:32
Grazie, Stefano. Ho ordinato il “Feminine Endings”.
(Dalla wiki-voce vedo anche anche la McClary prenderebbe distanza dall’essenzialismo).
2 luglio 2015 alle 16:37
Anche questo, Stefano, mi pare interessante: Emily Sue Goldman, Feminist Evasions: Susan McClary’s Unacknowledged Debts. Una specie di “stato dell’arte” sui temi sollevati da McClary.
2 luglio 2015 alle 16:40
E il problema resta, comunque, che non esistono (mi pare) studi sulla “musica maschile”, ecc.
2 luglio 2015 alle 17:01
Ecco, così oltre al tempo pure i soldi ti faccio buttare. Susan McClary mi è tornata in mente leggendo il commento di Cristian. Ne accennava Alex Ross in Senti questo, nel capitolo dedicato a Schubert, ma poi un po’ la pigrizia (metto ancora i link fuori testo) e il non leggere speditamente l’inglese me la fecero passare di mente.
sul sito academia.edu ho trovata questa che dovrebbe una critica al lavoro di McClary, credo:
https://www.academia.edu/1561335/Susan_McClary_Feminine_in_music_Gender_and_sexual_implications_in_music_analysis
Solo non capisco (daje) perché sarebbe un problema. Nel senso che, per rifarmi anche all’esempio della pizza, è stato un errore considerare la produzione femminile come uno specifico, e quella maschile l’aspecifico a monte, di riferimento. Questo dovrebbe portare a considerare la prima non più come uno specifico; ela seconda non come l’aspecifico paradigmatico, ma neanche come un nuovo possibile specifico. O perlomeno indagarne le forme, ma senza fare riferimento al genere.
2 luglio 2015 alle 17:07
praticamente con questi di McClary e quello di Jedlowski c’ho i compiti per le vacanze pieni… E sto finendo La circostanza!
2 luglio 2015 alle 19:25
ma lo specifico dell’a-specifico è la sua stessa esistenza. Se il mondo fosse stato costruito dalle donne chi ci dice che esisterebbe la letteratura?
la musica che non ha contenuto:
ma allora lo specifico maschile o femminile risiede nei contenuti? ma i contenuti esulano dalla condizione dell’autore ( donna uomo, ricco povero ecc; il discorso di Apuleio ecc e della possibilità di scrivere dal di dentro del parto di cui dicevo io). Le specificità che cerchiamo dovrebbe invece proprio risiedere se ci sono nella forma, in ciò che non può essere acquisito anche da fuori, donna o uomo che sia l’autore, nella forma inevitabilmente del linguaggio (che poi anche il linguaggio, i movimenti sintattici, il lessico sono codici a cui bisogna comunque adeguarsi – e portano il segno della loro storia credo proprio inevitabilmente maschile – e quindi potremmo avere un testo in cui possiamo leggere , se mai esiste, lo specifico femminile scritto da un uomo e viceversa )
Cinema femminista: qui eventualmente ci interessa il cinema fatto da donne, non il cinema femminista.
(comunque continuo a parlare senza riuscire a leggere la Brogi)
2 luglio 2015 alle 19:53
Condivido il nocciolo di quel tra parentesi, nell’ultimo commento di Cristian.
Era anche il senso della mia obiezione (ridicola) un po’ di commenti fa.
Se il linguaggio è il modello strutturante della psiche, questa cosa dovrebbe avere un senso anche più ampio (se qualche lacaniano è in ascolto magari mi correggerà).
2 luglio 2015 alle 20:17
leggendo il testo che mi hai linkato Giulio, vorrei capire se le considerazioni circa la forma tonale sono della MCclary, o della compositrice Vandervelde. Ma il testo rimanda al libro che hai ordinato e che ho visto cmq disponibile in opac, così proverò a leggerlo e se mai ti chiederò in futuro che ne pensi. uffa, quando leggevo solo Tex ero più felice, e i buoni e i cattivi si capivano al volo
2 luglio 2015 alle 21:35
Stefano, scrivi:
Io direi che:
1. non è stato tanto un “errore”, il fatto di “considerare la produzione femminile come uno specifico, e quella maschile l’aspecifico a monte, di riferimento”: è stato piuttosto un effetto delle condizioni di potere;
2. non chiuderei la faccenda dicendo che “questo dovrebbe portare a considerare la prima [la produzione femminile] non più come uno specifico; e la seconda [la produzione maschile] non come l’aspecifico paradigmatico, ma neanche come un nuovo possibile specifico”; mi domando piuttosto – ripeto mi domando – se non valga la pena di andare a vedere che differenza c’è tra la produzione femminile e quella maschile (magari per scoprire che non c’è differenza, e che quindi tutti i discorsi fatti finora sulla diversità della produzione femminile non valgono nulla).
Per il resto: studiare fa sempre bene. Almeno a me.
Cristian, scrivi:
Sicuramente ci sono contenuti più spesso toccati dai maschi e contenuti più spesso toccati dalle donne. Ma questo mi sembra poco rilevante, nello stesso modo in cui mi sembra poco rilevante osservare che gli scrittori nati e vissuti in montagna propongono spesso paesaggi diversi da quelli proposti dagli scrittori nati e vissuti nelle megalopoli. Poco rilevante in quanto ovvio.
Troverei più interessante indagare su ipotesi del tipo: che differenza c’è tra la sintassi degli scrittori nati e vissuti in montagna e quella degli scrittori nati e vissuti nelle megalopoli?
Devo dire che la quasi totalità degli studi che ho potuto leggere (non tantissimi) sulla “letteratura femminile” (sulla “letteratura maschile” non ne conosco; qualcuno c’è sulla “letteratura omosessuale”, principalmente sulla “letteratura omosessuale maschile”) hanno un approccio contenutistico: e mi sono spesso sembrati delle belle ramanzine sull’ovvio.
Dici anche che
e qui io sarei piuttosto dubbioso. Perché, in realtà, una diversità di contenuti tra le opere degli scrittori nati e vissuti in montagna e le opere degli scrittori nati e vissuti nelle megalopoli a me pare di trovarla. Tra Meno di zero e Storia di Tönle mi pare che qualche differenza ci sia.
(Ipotesi: intendiamo tutti la stessa cosa, quando parliamo di “contenuti”? Lo dico perché forse no).
Poi scrivi:
D’accordo, ma a me pare che il “linguaggio” sia “acquisito” non solo “anche”, ma quasi del tutto “da fuori”. Viviamo nella storia e nella società.
Vorrei dire che (immagino) se cercassimo e trovassimo lo “specifico maschile in letteratura”, potremmo trovare non uno specifico fisso e immutabile (anzi, penso che difficilmente lo troveremmo) ma uno specifico mobile e mutevole.
Sul fatto che la musica manchi di contenuto”, annotavo prima:
Non solo la musica sta nella storia e nella società, ma anche i discorsi sulla musica. E quelli sulla letteratura non sono da meno.
3 luglio 2015 alle 09:58
Stefano, nell’articolo di Emily Goldman viene descritto come Susan McClary ricostruisce il processo creativo di Janika Vandervelde, quindi la caratterizzazione fallocentrica della musica tonale è attribuibile a McClary. Ovviamente, ciò se non esclude che Vandervelde possa condividere questa posizione.
3 luglio 2015 alle 13:11
Be’ direi che è giunto il momento per Daniela Brogi di aggiornare il suo pezzo: agli attacchi di Papa Francesco e delle Sentinelle bisogna adesso aggiungere anche quelli di alcuni lettori di Vibrisse 🙂 .
Seriamente, è difficile per me immaginare chi possa avere un’allergia ai birignao del linguaggio filosofico (o forse pseudo-filosofico) più grande della mia, eppure l’articolo l’ho letto, e se sono riuscita a seguirlo io, anche non sapendo che cosa abbiano detto Mosse o Auerbach, non vedo che problemi possa avere avuto chi filosofia l’ha studiata all’università. Diciamo che rimane il dubbio di trovarsi di fronte ad un rifiuto più che altro.
A parte questo, devo ammettere che anch’io ho trovato curiosa l’affermazione dell’assenza di un equivalente maschile di misoginia: già mentre stavo leggendo il testo avevo pensato che per analogia potesse essere misandria. Andando però a verificare l’esistenza di misandria sul vocabolario ho scoperto che le due definizioni di misandria (che il correttore automatico continua a sottolineare in rosso) e misoginia non sono effettivamente simmetriche, almeno sul Treccani. Ecco che allora l’osservazione di Daniela Brogi non è poi così peregrina.
3 luglio 2015 alle 13:35
Giulio, io il libro di Susan McClary ce l’ho in una edizione con una prefazione in Retrospect del 2002. In essa, McClary, scrive:
e prosegue discutendo possibili obiezioni a tale paradigma.
Il libro non l’ho letto tutto (è una raccolta di sette saggi indipendenti, cui va aggiunta la più recente prefazione) ma sinceramente non è che ne pensi troppo bene, e mi trovo d’accordo con una buona parte delle critiche fatte da Susan Goldman nell’articolo che ha lincato tu.
3 luglio 2015 alle 13:39
*Emily Goldman, naturalmente…
3 luglio 2015 alle 13:55
Eh, P. O., ma la McClary è ormai in viaggio. Peraltro mi par di capire che sia stato un libro di quelli che fanno discutere: e sarà magari interessante per questo.
Anche perché dell’opinione che Hanslick e Stravinskij hanno “cementato”, sono anch’io: e m’incuriorisce leggere un’opera che sostenga il partito contrario (e che non sia settecentesca).
3 luglio 2015 alle 19:24
1) a proposito dell’ “anche” d’accordo (ma era riferito non al linguaggio ma a tutto ciò che può fare da contenuto)
2) “Troverei più interessante indagare su ipotesi del tipo: che differenza c’è tra la sintassi degli scrittori nati e vissuti in montagna e quella degli scrittori nati e vissuti nelle megalopoli? “
0k, questo è il punto, nel nostro caso scrittori donne e scrittori uomini; e il riferimento è ovviamente al genere: siamo nel campo della cultura e in particolare della artificialità della creazione artistica ma le forme della cultura, dall’arte alla politica alla religione, alla lingua, storicamente, sono maschili, e il genere donna non può non acquisire queste forme maschili tanto più nel momento in cui volesse piegarle nella direzione di una specificità femminile. La quale quindi potrebbe essere misurata sulla consistenza delle dissonanze riscontrabili nel modello acquisito; ma va tenuto conto – come dicevo dato che parliamo di costruzioni culturali e di artificio e nel caso degli autori di genere e non di dati biologici – del fatto che una eventuale specificità femminile può essere copiata, acquista, creata autonomamente da un autore maschio ( e quindi sarebbe più giusto parlare di scritture femminili o scritture maschili indipendentemente dal sesso dell’autore che, non dobbiamo mai dimenticare sta dietro, è il puparo) . E dato le premesse è senz’altro giusto ipotizzare che questo eventuale specifico sia
“uno specifico mobile e mutevole” quindi:
3) si tratta di non andare a cercare la cosa in sé quanto piuttosto di delimitare bene territori, leggere testi, confrontare, identificare costanti ( il titolo dell’intervento Esiste una scrittura maschile? ha poco senso: dove? quando? e in più, se lo specifico dell’aspecifico è semplicemente la sua esistenza – se quel certo tipo di pizza è LA pizza – come faccio a poterla definire se non in confronto con un Altro per cui indagare sulla forma della scrittura di uomini ( di un certo periodo ecc ecc) significa insieme indagare sulle forme della scrittura di donne ( però io direi sulle forme delle scritture femminili o maschili indipendentemente dal sesso di chi scrive).
4 luglio 2015 alle 06:17
Cristian, scrivi:
dove, a es., l’uso della parola “scrittori” per indicare le scrittrici e l’uso della parola “uomini” per indicare i maschi mi sembrano due segnali precisi.
E segue, ovviamente, tutto un sensatissimo ragionamento nel quale si parla di “femminile” solo e soltanto in quanto “dissonanza” dal maschile; si insiste sul fatto che ” una eventuale specificità femminile può essere copiata, acquista, creata autonomamente da un autore maschio”, naturalmente senza citare la possibilità opposta; e infine si cerca di, per così dire, slegare le scritture dai corpi.
Ecco: tutto questo, io, vorrei evitarlo.
4 luglio 2015 alle 06:43
ma se il problema è quello di indagare il legame corpo scrittura allora in discorso si amplia mi pare
ma da quando parliamo di genere non procediamo sulla strada del distacco dal corpo? O no? E se la pizza è quella e solo quella come faccio a farne un’altra, se voglio fare pizza, se non come variazione di quella che esiste –
E se paliamo di genere che senso ha parlare di scrittura maschile (prodotta da chi è di sesso maschile) e femminile (prodotta da chi è di sesso femminile). O parliamo di scritture femminili e maschili ( però: in realtà come facciamo a distinguerle? in base a che?). Semmai possiamo parlare di scritture maschiliste e di scritture femministe (ma anche qua … )
Tutto il problema però mi sembra sempre più questione di lana caprina . A meno che appunto non si ponga il tema del rapporto corpo scrittura, presenza del corpo nella scrittura; ma allora cambia il tema e forse è più interessante
Scrittori: sostantivo neutro (l’italiano è così)
4 luglio 2015 alle 07:35
Cristian, hai scelto tra il lessico disponibile; e hai preferito scrivere “scrittori donne” anziché “scrittrici” (che non è, come l’ormai famigerata “misandria”, una parola peregrina).
Ovvero, hai scelto di considerare il maschile “scrittore” come se fosse – dici – un “neutro” (ma il genere neutro non esiste, in italiano). E fare così significa, temo, negare l’esistenza della questione della quale ci stiamo occupando.
4 luglio 2015 alle 09:11
“ Mercoledì 25 febbraio 2004 – Compro il giornale, lo apro alle pagine della cultura, leggo il titolo: « Dio non è un padre » – è un’intervista alla scrittrice nera americana Toni Morrison. D’accordo, penso, ma, se non è un padre, allora cos’è? La risposta è subito sotto: c’è una foto della medesima Morrison con un grande cappello in testa (è la stessa che pubblicano sempre). La risposta dunque è: una madre, anzi, nemmeno: è una donna con un cappello in testa. Elementare – troppo elementare -, Watson. “ [*] [**]
[*] Mi ricordo benissimo che, negli anni Cinquanta, il babbo voleva sempre che la mamma si mettesse il cappello. I cappelli le stavano anche bene, ma la mamma non voleva tanto metterseli. Comunque, ormai so che non era una questione di moda, ma una questione di fede – la fede del babbo, diciamo così.
[**] La s-formazione dello scrittore / 434
7 luglio 2015 alle 13:14
Uno dei punti interessanti dell’articolo di Daniela Brogi, ed uno dei possibili modi di rispondere alla domanda se esista una scrittura maschile, è l’osservazione che un testo presenta “accenti di genere” più o meno marcati, e a seconda di quanti di questi sono presenti nel testo e di quanto questi sono marcati, si può caratterizzare il tipo di scrittura. Ma come si fa a vederli, questi accenti di genere? Una possibilità, fa notare la Brogi, è quella offerta dall’esercizio del rovesciamento dei generi [1].
Facciamo la prova su di un frammento tratto da un testo pubblicato qui su Vibrisse, una delle formazioni, quella di Giovanni Accardo:
Anche se non sapessimo che il testo è scritto da Accardo, si intuisce che il pezzo possa essere scritto da un uomo. Ma in che misura rappresenta una scrittura maschile? Vediamo cosa si ottiene ribaltando i generi:
Il testo continua a funzionare: potrebbe essere il testo scritto da una donna? Sì, sembra quai l’autoritratto di una mia compagna di classe. Quindi, nel senso proposto dalla Brogi, non ci troviamo di fronte ad un frammento di scrittura marcatamente maschile.
Proviamo con un altro frammento, una formazione inufficiale di Livio Romano:
Proviamo a rovesciarlo:
E’ plausibile come testo? No. Certo, si potrebbe obbiettare che il rovesciamento è analogo ad una traduzione, non ha senso tradurre parola per parola. Riproviamo:
E’ plausibile come testo? Sempre no.
In conclusione, abbiamo qui due frammenti scritti da uomini: il primo senza forte caratterizzazione di genere, il secondo invece sì.
Mi sembra che tutto ciò meriti di essere sviluppato ulteriormente.
[1] La cosa che personalmente mi piace di più dell’articolo è la sua natura pragmatica. Sinceramente faccio molta a fatica a comprendere alcune delle critiche qui sopra di eccessivo filosoficheggiare.
7 luglio 2015 alle 14:08
Anche se, P. O., si potrebbe sostenere che di un ragazzo che abbia in mente solo
e di una ragazza che abbia in mente solo
non si sta dicendo esattamente la stessa (simmetrica) cosa. Un conto è suonare il basso con la cicca all’angolo della bocca, un conto è fare la groupie.
Ovvero: le immaginazioni che vengono evocate non sono così simmetriche.
(Per tacer del fatto, perfin ovvio, che per il sig. Senso Comune un ragazzo che abbia in mente solo le ragazze è un bravo ragazzo; una ragazza che abbia in mente solo i ragazzi è…).
g.
7 luglio 2015 alle 14:56
Grazie P.O.
anche la Goldman rimprovera alla McClary l’uso disinvolto del feminist speak.
A me pare però che anzitutto bisogna capire se questo metodo del rovesciamento sia un buon metodo per capire ciò che stiamo cercando. Perché rovesciare le situazioni ci dice qualcosa delle situazioni, non della lingua che le racconta, credo. E anche l’immaginario che suscitano queste situazioni non ci dice ugualmente qualcosa della scrittura. E se prendiamo gli esempi scelti dalla Brogi, quello che io capisco è che lei coglie la scrittura maschile nell’espressione del punto di vista maschile, augurando una emancipazione da quello sguardo che produce un certo immaginario descritto con un certo linguaggio.
Nel secondo esempio che porti, mi pare di capire che la connotazione di genere per te sta nel mestiere meno frequente, ma potresti evitare quell’effetto facendo riferimento ai muscoli in mostra. Mentre se prendiamo gli esempi della Brogi, nel caso che riporti la scrittura maschile sta nel fare riferimento al docento uomo circondato da donne desideranti.
7 luglio 2015 alle 15:30
Stefano, scrivi:
Però ci dice che le medesime parole hanno significati diversi a seconda di chi le usa. Che è – non lo nego – una banalità. Alla quale è però difficilissimo prestare attenzione: quando si scrive, dico.
Forse un campo d’indagine particolarmente interessante potrebbe essere proprio quello dei testi nei quali c’è una differenza tra chi dice “io” nel testo e la persona che ha scritto il testo.
Esempio. In Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro a dire “io” è una persona la cui età è almeno di quarant’anni superiore a quella dell’autrice. Si potrebbe indagare il testo per vedere se Tamaro (che, di suo, è una grande imitatrice di voci) riesce a conservare lungo tutto il testo, senza falle, il punto di vista (= la gestione dei sensi delle parole, delle immagini che esse evocano ecc.) della mefitica nonna che dice “io”.
(Ho portato apposta un esempio che non c’entra col genere, nel tentativo di spiegarmi meglio).
8 luglio 2015 alle 11:28
Giulio:
Be’ naturalmente il lettore si porta il proprio bagaglio culturale ed ideologico che può dare luogo ad interpretazioni più o meno sessiste. Ma questo ha a poco a che fare con l’esercizio del rovesciamento, il cui scopo è verificare la plausibilità di un testo a generi rovesciati per evidenziarne la simmetria o asimmetria. In un caso limite, per dire, io posso avere esattamente lo stesso testo, riferibile sia ad un uomo che ad una donna, e se il lettore parte con un’atteggiamento sessista riuscirà comunque a ricavarne due interpretazioni diverse. Ciò ci dice poco sulla scrittura ma molto sul lettore.
Stefano:
E però nell’esempio tratto da Livio Romano, la prima versione del rovesciamento evidenzia una scelta lessicale (e quindi strettamente legata alla lingua) che è asimmetrica.
Certo, il rovesciamento non è necessariamente una risposta a tutte le domande, ma è una strumento che a mio avviso ha un posto utile in questo genere d’analisi. È una tecnica agnostica rispetto al genere dello scrivente, nel senso che può mettere in evidenza come un’eventuale scrittura maschile si possa discostare da una scrittura neutra esattamente come per una eventuale scrittura femminile.
A prescindere dall’esercizio del rovesciamento, un’ultima osservazione, probabilmente ovvia, ma che vale la pena fare giusto per evitare possibili fraintendimenti: io non vedo la possibile caratterizzazione di una scrittura maschile (o femminile) come necessariamente accompagnata da un giudizio morale o di merito: un testo può essere maschile senza essere maschilista. Allo stesso tempo, però, mi sembra prematuro escludere la possibilità di un nesso.
8 luglio 2015 alle 14:23
P. O.: indubbiamente
ma stento a pensare che questo abbia
perché mi pare che la valutazione della “plausibilità” metta in moto (necessariamente) proprio il “bagaglio culturale e ideologico” di chi la compie.
O no?
Concordo sull’ipotesi che “un testo può essere maschile senza essere maschilista”, se non altro perché spero che i testi miei siano maschili senza essere maschilisti.
9 luglio 2015 alle 18:25
Giulio:
Certamente, ma l’impetto causato dalle differenze tra diverse prospettive ideologico-culturali è di gran lunga inferiore quando ciò che si vuole appurare è la sola plausibilità del testo.
Nel nostro esempio, che l’immagine di una ragazza che pensa alla musica rock sia una groupie o Annie Clarke, il giudizio sulla plausibilità del testo non cambia.
9 luglio 2015 alle 18:28
Oh, è la seconda volta in poche settimane che sbaglio a mettere link… Quello che volevo mettere a proposito di Annie Clarke è il seguente:
9 luglio 2015 alle 20:04
1) «Non ne ho mai visto uno» disse l’uomo bevendo la sua birra. «No, non potresti averlo fatto.» «Potrei sì» disse l’uomo. «Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla.» La ragazza guardò la tenda di bambù. «Ci hanno dipinto qualcosa sopra» disse. «Cosa dice?» «Anis del Toro. È una bibita.» «Perché non l’assaggiamo?» L’uomo gridò: «Senta» attraverso la tenda. La donna uscì dal bar. «Quattro reales.» «Vogliamo due Anis del Toro.» «Con acqua?» «Lo vuoi con l’acqua?» «Non so» disse la ragazza. «È buono con l’acqua?» «Buonissimo.» «Li volete con l’acqua?» chiese la donna. «Sì, con l’acqua.» «Sa di liquirizia» disse la ragazza, e depose il bicchiere. «È così per tutto.» «Sì» disse la ragazza. «Tutto sa di liquirizia. Tutte le cose, in particolare, che si sono aspettate tanto. Come l’assenzio.» «Oh, smettila.» «Hai cominciato tu» disse la ragazza. «lo mi divertivo. Me la spassavo.»
2) E quando riapriva gli occhi, come le sembravano fresche le rose – veniva alla mente il bucato appena lavato e ben piegato nelle ceste di paglia; come parevano cupi e compassati i garofani rossi, invece, con le loro teste erette; e i piselli odorosi che si allargavano nelle coppe, viola sfumato, bianco neve, pallidi – come se fosse sera e, finita la splendida giornata estiva, col cielo ormai d’un azzurro quasi nero e i delfini e i garofani, e i gigli, le ragazze uscissero nei loro abitini di organza a raccogliere i piselli odorosi e le rose. È in quell’attimo, tra le sei e le sette, che i fiori – le rose, i garofani, gli iris, i lillà – risplendono: bianco, violetto, rosso arancione. Ogni fiore sembra ardere di luce propria, soffice, puro, ognuno nella sua aiuola velata di nebbia. E come le piacevano le falene bianche e grigie che volteggiavano sui girasoli e sulle primule!
Potrebbe 1 essere stato scritto da donna? E 2 da uomo? Se sì cade la questione. Se non perché? Dove sta la mascolinità? Dove la femminilità?
9 luglio 2015 alle 21:49
Il fatto è che “sappiamo” che 1) è stato scritto da Hemingway e 2) da Virginia Woolf. Ma, dopo di ciò, non abbiamo alcun elemento per dire che 1) potrebbe essere stato scritto da una donna e viceversa 2) da un uomo. La domanda ipotetica, almeno in questo caso, non ci porta da nessuna parte.
9 luglio 2015 alle 21:57
P.S.: e poi c’è “dialogo diretto” (serrato) vs “narrazione descrittiva”: è abbastanza normale che l’effetto sul lettore sia pressoché antitetico.
9 luglio 2015 alle 22:01
P.P.S.: accidenti a me e alla fretta: il potrebbe del mio primo commento deve intendersi potrebbe o meno.
10 luglio 2015 alle 09:44
Ci serve una definizione di “plausibilità“?
10 luglio 2015 alle 16:50
Fintanto che l’uso che se ne è fatto sinora non si discosta da quello standard così tanto da dare luogo al dubbio che vi possano essere incomprensioni, direi di no.
Dico questo anche tenendo d’occhio l’economia del discorso.
13 luglio 2015 alle 19:01
Vedete un po’ qua!
13 luglio 2015 alle 20:32
commento:
1. Marinella scrive:
13 luglio 2015 alle 18:27
…eppure leggendo Ferrante ho trovato qualcosa di Starnone. Chiunque essa sia, per me, ha una scrittura maschile.