di Lorenzo Marchese
Non era un’impresa da poco proporre uno sguardo sintetico sulla narrativa di Giuseppe Pontiggia, che ha attraversato il secondo Novecento restituendoci una linea di scrittura quanto mai spezzata e affascinante. Autore poco prolifico per via della sua ridiscussione meditata di generi (giallo, romanzo poliziesco, ricostruzione storica, saggio critico) e forme (prosa narrativa, racconto breve, poesia, prosimetro), era e rimane difficile da inquadrare in un suo qualche libro risolutivo, in una circostanza storica che possa rappresentare un suo ipotetico “periodo aureo”.
Uno studioso di Milano, Marco Bellardi, si è cimentato nello sforzo con Uno smisurato equilibrio. La narrativa sperimentale di Giuseppe Pontiggia (Franco Cesati, Milano 2015), un invito alla lettura di Pontiggia che mancava nel nostro panorama: infatti, i commenti all’opera dello scrittore sono sparpagliati in saggi monografici (alcuni, citati da Bellardi, ormai difficili da reperire) e articoli sparsi su riviste accademiche e quotidiani. Uno smisurato equilibrio ripercorre ordinatamente la produzione narrativa di Pontiggia, con un’analisi ravvicinata e un occhio attento all’aspetto stilistico delle opere, senza particolari pretese di esaustività; per quelle, è meglio rivolgere l’attenzione al Meridiano delle Opere a cura di Daniela Marcheschi, che apre all’autore con un utile saggio introduttivo (benché a volte a rischio di pomposità: rischio oltrepassato nella Cronologia) e dà una ricchissima bibliografia critica alla fine del volume. Come riconosciuto nella Nota iniziale, al lavoro di Marcheschi e ai colloqui con la studiosa questo libro deve moltissimo, rappresentando una porta d’ingresso convergente per vedute critiche e più accessibile sotto vari punti di vista – non ultimo quello economico.
Non era facile provarsi in questo esercizio critico, che è riuscito, a mio parere, in modo diseguale. Eppure, anche i difetti di questo lavoro d’esordio ci aiutano, di riflesso, a illuminare l’aspetto di Pontiggia che più è rimasto importante per noi lettori, a distanza di oltre dieci anni dalla sua scomparsa. Lo illustra Daniela Marcheschi nell’introduzione al Meridiano:
Per Pontiggia la letteratura è architettura di un mondo costruito attraverso un linguaggio in cui la bellezza non è la verità e la verità non è la bellezza, ma l’una è sempre in tensione analogica con l’altra. Perciò egli è stato uno dei rari scrittori italiani capaci di rimettere in discussione, ogni volta, il proprio operato formale e teoretico. La letteratura è stata per lui un autentico percorso di ricerca e autocritica, uno slancio verso la bellezza, aperto alle domande più urgenti sulla vita.
È stata mirabile la sua capacità, a ogni pubblicazione, di non fermarsi mai ai risultati acquisiti e di non affidarsi a direttive di poetica (anche solo per violarle creativamente); e tuttavia sospetta se la si volesse interpretare come una mancanza di impegno politico, di nette prospettive militanti che, invece, sembrano pesare molto di più sugli scrittori suoi coevi (si pensi solo alle esperienze così diverse, per dire, di Sciascia, Fortini, Volponi, e persino di alcuni vicini scrittori del Gruppo ’63 come Sanguineti, Balestrini, Pagliarani). Persino uno scrittore così propenso a sperimentare mezzi espressivi e fagocitare tradizioni letterarie come Pasolini rimaneva legato al suo «scandalo del contraddirsi» e a un retaggio ideologico forte, a una cultura umanistica rivendicata di fronte al «genocidio culturale» in atto; Pontiggia, invece, perfino nella produzione aforistica e nei giudizi su classici e contemporaneità, distribuiti fra saggi e romanzi, non sembra mai davvero perentorio, non ci restituisce mai l’ultima parola su qualcosa, ironico e distante ma anche, ambiguamente, mai davvero contraddittorio.
Mi pare che Bellardi restituisca bene questa immagine proprio quando tratta delle opere maggiori di Pontiggia. Dopo la ricostruzione dei primi due libri La morte in banca e L’arte della fuga, che occupa la prima sezione La formazione e le prime opere, lo studio prende il largo quando affronta la classicità di Pontiggia a partire dal romanzo che lo consacrò al grande pubblico e ai critici, Il giocatore invisibile (1978). Anzitutto va notato che questa classicità, attribuita da Bellardi sulla scia di voci autorevoli, è sempre in levare. Per un curioso contrappasso, visto l’interesse non episodico di Pontiggia per gli studi di etimologia, il nucleo “classico” dell’autore non è mai definito per intero, mai inscrivibile nemmeno in una precisa tradizione letteraria, tanto che, a volte, la mancata articolazione di un contesto storico dietro Pontiggia finisce per pesare: elusivo sì, ma davvero così estraneo all’aria dei suoi tempi, uno che fu a lungo addentro ai meccanismi editoriali e alla scena letteraria, non lo credo.
In ogni caso, con Il giocatore invisibile una lettura nella chiave dell’incapacità di comprendere l’enigma del nostro prossimo è davvero efficace. Condotta su quello che probabilmente è il miglior romanzo italiano sul mondo universitario postsessantottino, insieme a Scuola di nudo di Walter Siti, l’analisi ricostruisce le dinamiche dell’inchiesta paranoica del professore protagonista, segue i dialoghi più significativi (vera ossatura di un libro costruito all’insegna della concisione) e dalle scene ellittiche fa trasparire una tensione subliminale, di cui riusciamo a scorgere quasi solo la superficie linguistica, che è il punto di forza del romanzo:
Conclusa la vicenda, cosa ne rimane del professore e dei suoi colleghi? L’antinaturalismo di Pontiggia qui non ammette una visione prospettica del loro passato (come invece accadrà nelle Vite di uomini non illustri) e al lettore rimane il sospetto che ci sia qualcosa di più sotto la superficie. Oppure ci si deve contentare di aver sorriso di una piccola polemica, di un tradimento nemmeno originale, di un suicidio per nevrosi?
La classicità per sottrazione di Pontiggia assume caratteri parzialmente diversi nei due romanzi successivi, Il raggio d’ombra e La grande sera, usciti negli anni Ottanta e ormai meno noti al grande pubblico, anche se andrebbero riscoperti con tutti i loro difetti di costruzione (La grande sera resta uno dei pochi libri ad aver raccontato in presa diretta l’Italia di Craxi e la famigerata «Milano da bere»). Il “classico” di riferimento diventa con evidenza I promessi sposi di Alessandro Manzoni, di cui viene recuperata l’ironica disposizione del narratore verso gli eventi e i suoi personaggi. Un merito non da poco di Bellardi, qui, è di integrare l’analisi puntuale dei romanzi invitandoci al confronto con il luogo dove Pontiggia sottolinea indirettamente i suoi debiti con Manzoni, cioè il saggio del 1985 Manzoni e l’anonimo. Reticenza e omissione nei «Promessi sposi». L’attitudine a mostrarsi e nascondersi, anche attraverso la forma apodittica dell’aforisma negli anni Novanta praticata a lungo, si perfeziona in Vite di uomini non illustri del 1993, una raccolta di biografie essenziali e divertite che copre un secolo di microstoria italiana ed è riconosciuta da molti, anche dall’autore del saggio, il vertice dell’opera di Pontiggia. Le vite non registrate negli annali acquistano un doppio valore nella simpatia quotidiana cui muovono il lettore quanto, all’opposto, nel residuo di irriducibilità interpretativa che ogni esistenza, anche la più banale negli sviluppi, porta con sé, come mostra la storia conclusiva Una settimana sulla Loira, con i suoi corridoi temporali da percorrere. È nell’esplorazione delle possibilità minime che risiede la dignità di ciò che siamo, insinua Pontiggia, nonché la forza delle Vite di uomini non illustri, che si distinguono non solo per questo da altri esperimenti affini come Centuria di Manganelli o i Sillabari di Parise. «Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra», è la chiusa di Nati due volte, che riassume l’atteggiamento dell’ultimo Pontiggia: e sul romanzo autobiografico del 2000 Bellardi chiude appassionatamente il suo discorso.
Può darsi che il pregio più visibile di questo libro ne costituisca anche un limite non aggirabile. L’entusiasmo verso Pontiggia, di per sé in linea di massima da elogiare, finisce spesso per restituire un profilo monumentale e non abbastanza sfaccettato. È indubbio che la sottigliezza di Pontiggia si presta poco a essere concettualizzata a beneficio della critica. Tuttavia, l’argomentazione in certi passaggi cede il posto all’elogio con troppa cedevolezza («la fiducia nella parola, l’atteggiamento insieme alacre e dimesso si impongono tra i più felici contributi dell’autore alla cultura italiana in tempi di disinvolture verbali, sostanziali reticenze, comode inibizioni e pose pubblicitarie», con l’inelegante frecciata, curiosa se a proferirla è un trentenne, a non meglio detti parvenus). Addirittura, la dizione di “classico” inciampa talora in una patente di qualità che riassume i numerosi giudizi di eccellenza sulle opere. Quando si legge: «dalla lettura dell’opera si rimane colpiti per l’eccezionale devozione con cui viene sempre limato un discorso di precisissima cesellatura, tale da renderne inconfondibile il tono, spesso sornione e ironico», la compresenza di lima e cesello è la spia maggiore di una tendenza a esagerare, rilevata nella grana metaforica a tratti improbabile (ed ecco che L’arte della fuga «in questa veste manipola la storia di cui fa parte, soprattutto per mezzo di un’esibita reticenza, oppure comportandosi come un caleidoscopio nei confronti di ogni dato di realtà»: i caleidoscopi si comportano?).
Insomma, la sporadica mancanza di equilibrio controbilancia suo malgrado lo «smisurato equilibrio» di Pontiggia: ma è su questa seconda etichetta, posta a titolo dello studio, che si addensano le mie riserve. È la strada migliore proporre, per quanto ossimoricamente, l’immagine di un Pontiggia armonioso, infallibile e insomma “classico” (una definizione che con il suo alone marmoreo rischia di nuocere a un autore)? Nei suoi esordi, «la capacità di Pontiggia di assumere una via originale non potrebbe essere più netta già a partire da La morte in banca». Nel capitolo su L’arte della fuga, leggiamo: «la ricerca linguistica si traduce in uno stile che mescola elementi di modernissima sperimentazione con stilemi più tradizionalistici. Attraversata questa fase, la narrativa più autentica di Pontiggia ne emergerà limpida e sicura»; condivisibile, ma la frase conserva una risonanza idealistica da volgarizzamento hegeliano, che rievoca un inesistente (come Bellardi mostra bene di sapere nel resto del volume) cammino senza mai deviazioni né false partenze. Spostiamoci tre lustri avanti su Il raggio d’ombra: «l’attendibilità, al di là degli aforismi più o meno calati nei diversi punti di vista, si ritrova anche (e soprattutto) negli altri procedimenti retorici adottati, che hanno il duplice pregio di coniugarsi alla concisione del testo e di non mancare mai la perfezione ritmica e figurale»: a che giova un Pontiggia di perfezione cristallina, e un po’ dogmatica? Gli esempi, fortunatamente non numerosi, danno da pensare.
Se Pontiggia conserva un’importanza centrale nel nostro panorama, anzi, rispetto a trenta o quaranta anni fa essa dà l’impressione di essere aumentata esponenzialmente, non si deve alla vera o presunta perfezione di chi casca sempre in piedi. Al contrario, come Bellardi stesso nota sui saggi di Il giardino delle Esperidi, la forza di Pontiggia è di rinunciare a «una totalità del resto inafferrabile in favore di una più densa e raggiungibile parzialità capace di penetrare la materia attraverso punti di vista insoliti». L’equilibrio nasce da una sensazione di perdita, che si approfondisce con i mutamenti insanabili del nostro panorama attraverso i decenni. Nella letteratura che si fa oggi, si è via via più consapevoli del fatto che il tempo elimina progressivamente ciò cui affidiamo la nostra vita in garanzia, e inoltre cambia le tracce più familiari in segni ostili: la scrittura di Pontiggia ha saputo cogliere tale mancanza con una precisione (soprattutto psicologica) notevole. Forse, anziché di equilibrio, si potrebbe parlare di «etico squilibrio» come ha fatto Cristina Nesi in un articolo del 2000, proponendo un paragone secondo me calzante fra Pontiggia con Vite di uomini non illustri e Roberto Bolaño con La letteratura nazista in America (1996). Ma al di là della critica, e del fatto che anche Bellardi guarda con interesse alla vocazione etica del romanziere, è bello vedere che Uno smisurato equilibrio arriva alla fine del suo percorso a cogliere l’originalità di Pontiggia con parole con cui non posso non concordare, e che spero invoglieranno molti a conoscere questo scrittore:
È uno sperimentalismo che non propone tanto la rottura delle convenzioni, ma insinua piuttosto nel lettore la consapevolezza della parzialità dello sguardo e della conoscenza contro «il culto letale della completezza», addita schematismi e ne rivela superficialità e debolezze concettuali, attraversa le mode immettendosi in una circolazione d’idee più ampia che travalica i confini e le suggestioni nazionali.
Tag: Cristina Nesi, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Franco Fortini, Giorgio Manganelli, Giuseppe Pontiggia, Leonardo Sciascia, Lorenzo Marchese, Marco Bellardi, Nanni Balestrini, Paolo Volponi, Water Siti
29 Maggio 2015 alle 12:44
Sono pazzo di Pontiggia. Grazie per la dritta.
29 Maggio 2015 alle 13:11
“ 3 settembre 1987 – « Non si scrive né per sé (pia menzogna dietro cui si cela un’ambizione apprensiva), né per gli altri (almeno se si parla di scrittori degni di questo nome). Si scrive per quel sé, lettore ideale di se stesso, che finisce con il coincidere con il sé ideale degli altri. » (Dice Pontiggia) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 351
29 Maggio 2015 alle 15:28
“ Lunedì 24 novembre 2003 – « Spesso ai miei corsi di scrittura mi dicono […] : « Proust, che ricordava tutto ». Proust aveva una memoria strana, procedeva in modi tipicamente letterari, per segmenti, sovrapposizioni, tagli, montaggi, uomini che diventavano donne, donne che diventavano uomini, due personaggi in uno, non è affatto uno scrittore che voleva ricordare e rievocare tutto meticolosamente, con quella memoria degli imbecilli che gli attribuiscono. » (Giuseppe Pontiggia, La contemporaneità dell’antico, [Conversazione tenuta il 12 dicembre 1994 nella Sala Rossini del Caffè Pedrocchi di Padova], in «Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità» / Università di Padova, 4, Padova 1998) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 352
31 Maggio 2015 alle 21:55
Evoluzione del romanzo: nell’Educazione sentimentale Madame Arnoux, in ginocchio nella camera del figlio, baratta la guarigione (miracolosa) di quest’ultimo dalla difterite con “il sacrificio della sua prima passione, della sua unica debolezza”. Non sarà mai l’amante di Frédéric Moreau.
In Nati due volte il narratore negozia con l’Onnipotente la guarigione, totale o parziale, del figlio: starà tre settimane senza vedere l’amante – un mese no, un mese è troppo; la vedrà una volta in meno alla settimana, farà sacrifici della gola.
Come dobbiamo intendere questo “ridimensionamento”? È il romanzo che è diventato più realista o l’umanità che è diventata più infingarda? (un’umanità scaduta …) Di secolo in secolo, di venti anni in venti anni ai personaggi si chiede sempre meno – e il narratore poi non è neanche un personaggio: sta nel romanzo con un piede dentro e uno fuori.
(Ma si potrebbe anche pensare, semplicemente, che le donne sono più eroiche degli uomini …)
1 giugno 2015 alle 12:01
… squilibrio/equilibrio… ma qua non c’è il Paolo di Nati due volte!?… o meglio: non figura Nati due volte… pare incredibile, no? Speriamo che Bellardi ne parli…
1 giugno 2015 alle 12:40
@enrico ernst
“Nati due volte” è affrontato da Bellardi in un capitolo del libro, in dettaglio, come per tutte le opere narrative di Pontiggia. Come ho scritto all’inizio, “Uno smisurato equilibrio ripercorre ordinatamente la produzione narrativa di Pontiggia, con un’analisi ravvicinata e un occhio attento all’aspetto stilistico delle opere”, ma ho preferito concentrarmi su altro – con una punta di dispiacere, perché “Nati due volte” è un libro a cui sono affezionato
1 giugno 2015 alle 13:08
anch’io Lorenzo. E poi, ripeto: dal punto di vista della metafora dell’equilibrio mi pare che “Nati due volte” possa dire qualcosa di interessante, se non di fondamentale… si può affermare forse che l’aspetto stilistico di Pontiggia, così straordinariamente “controllato”, raffinato e colto (classico appunto), in fondo nasconda ben altro… in tal senso, “Nati due volte” è davvero l’ago che fa spostare la bilancia, forse, verso considerazioni biografiche ed esistenziali più, se mi si passa il termine, “necessarie”…
1 giugno 2015 alle 19:02
Gliela passo =) anzi, concordo su “Nati due volte”; il suo controllo nasce dalla cognizione del baratro, l’equilibrio gli serve per avvicinarcisi il più possibile, senza misticismi della caduta. La cosa mi sembra tematizzata molto bene a partire dal “Giocatore invisibile”, che come si sarà capito è il mio Pontiggia preferito insieme alle “Vite”, che per me stanno un gradino sotto (esperimenti simili li aveva fatti Parise, io non riesco a non tenerne conto)
2 giugno 2015 alle 00:20
“ 22 marzo 1988 – « In un mondo in cui l’alibi non era più l’essere altrove ma l’essere lì. » (Giuseppe Pontiggia, Il giocatore invisibile, 1978) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 354
2 giugno 2015 alle 10:37
“ 2 febbraio 1994 – « Che cosa può significare tenere un diario. La risposta più sorprendente e più vera – i due aggettivi convergono – l’ho forse incontrata in Goethe, che consigliava di scrivere non per vivere nel futuro, ma nel presente: “ Senza di ciò lo stimiamo troppo poco… Noi impariamo a valutare l’istante, appena lo consideriamo come qualcosa di storico. “. Curioso questo percorso che, per ricuperare l’eternità greca dell’attimo, passa per la storia. Eppure è uno dei pochi modi in cui ci è consentito, delle tre dimensioni umane del tempo, vivere quella che, secondo Seneca, è l’unica ad appartenerci. E mi sembra anche il modo in cui Morselli riesce a stabilire con il presente quel rapporto che gli è sempre sfuggito: non a caso i suoi romanzi più felici spaziano tra il futuro dell’utopia e il dagherrotipo della storia. » (Giuseppe Pontiggia, Introduzione al Diario di Morselli, 1988) “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 355
2 giugno 2015 alle 21:24
Mi pare, Lorenzo, che un tema importante in Pontiggia sia la coscienza dell’altro (dell’Altro?): come un altro che è necessario, ma anche che lega (troppo), fino a torturare… e da cui… fuggire, poi? (“La grande sera”)… tutte le “Vite” sono attraversate dall’esistenzialistico “l’inferno sono gli altri”, mi pare, le loro proiezioni, le loro gabbie (e la famiglia ha un ruolo decisivo)… c’è forse però – fino alla “scoperta” sconvolgente di “Nati due volte” – il filo di un’altra possibilità: che gli altri siano la “rivelazione” (senza misticismi)… ed ecco che Paolo, il figlio, indica un’altra sconvolgente via, un punto di vista davvero “altro”, ed eccezionale: possibile che “conduca” in qualche modo “oltre” (l’individualismo per esempio?)…
3 giugno 2015 alle 00:03
mi sembra un’interpretazione condivisibile, quel filo mi sembra sotterraneo e a volte invisibile – la rivelazione può essere anche negativa e non “estatica” come nell’ultima scena dell’ultimo romanzo.
Mi colpisce, parlando sia in università che con lettori al di sotto dei 35 anni, la scarsa eco attuale di Pontiggia: è un autore che, mi pare dalle mie osservazioni empiriche (che quindi valgono poco), viene sempre meno letto. A me “Nati due volte” lo fecero leggere a scuola, a quindici anni, ma non so se sia una tendenza comune degli insegnanti di lettere …
3 giugno 2015 alle 08:09
“ 4 aprile 1989 – Dal questionario Il lavoro di scrittore («Il cavallo di Troia», n. 6) risulta inoppugnabilmente che ciascuno dei rispondenti è quello che è: Eco uno spiritoso alle soglie dell’arroganza, Arbasino un parvenu, Bernari un irrilevante, Bertolucci un fanciullino con conoscenze, Bufalino un onesto siciliano, Cerami uno sceneggiatore, D’Agata un funzionario RAI, Fratini un coglione, Gramigna un complicato, Insana un’insana, Malerba uno sceneggiatore, Orengo un languido con conoscenze, Pontiggia uno serio, Porta un mascalzone, Sanguineti un Sanguineti, Scialoja un pittore, Tabucchi un fascista, Zeichen un fallito. “) [*] [**]
[*] Pubblico questo antico diario – che testimonia solo della mia temeraria arroganza nel giudicare – solo per far sapere che ho sempre avuto un’eccellente considerazione di Giuseppe Pontiggia. Per quello che conta.
[**] La s-formazione dello scrittore / 357
3 giugno 2015 alle 10:09
devo aggiungere Lorenzo che uso a volte le “Vite” come suggestione per esercizi di scrittura creativa: ed è di sorprendente forza ed eccezionale utilità. Un mio allievo, partendo da lì, ha vinto il Calvino… forse Pontiggia attende di essere riscoperto, riletto… sento che tocca corde dolorose e irrisolte della nostra contemporaneità, e tanto più sarebbe necessario riscoprirlo… grazie!
3 giugno 2015 alle 12:54
grazie a lei e a tutti gli intervenuti in questa sede. Ma soprattutto a Bellardi per aver scritto il saggio