La formazione del fumettista, 28 / Matteo Bussola

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di Matteo Bussola

[Questa è la ventottesima puntata della rubrica del martedì, dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti. La rubrica è a cura di Matteo Bussola, e finalmente oggi possiamo leggere la “formazione” dello stesso Matteo: che ringrazio non solo per questo pezzo, non solo per questa rubrica, ma per una quantità di altre cose – soprattutto la gentilezza. gm].

matteo_bussolaQuesta rubrica è nata da uno status di Facebook.
Lo status era un breve scritto in cui parlavo del mio percorso fumettistico. Che poi, a chiamarlo percorso mi viene un po’ da ridere, visto che se mi volto indietro riesco a contare con lo sguardo le briciole di gommapane fino a qui. Giulio lesse lo scritto su Facebook e mi fece una proposta. La proposta è oggi diventata ventisette “formazioni”. Con questa, ventotto.
Ho dunque sempre pensato che se mai avessi pubblicato all’interno di questa rubrica, io il pezzo ce l’avevo già. Invece no, perché avercelo già è barare. E non barare è la prima regola. Che non significa essere onesti, vuol dire solo restare fedele alle regole che ti sei dato. Per esempio è la ragione per la quale, da quando sono un disegnatore professionista, ho smesso di commentare sui forum di fumetti. Per lo stesso motivo, penso che un curatore non dovrebbe in nessun caso scrivere un pezzo che rientri all’interno della rubrica che egli cura.
Siccome ogni regola ha un’eccezione, questo pezzo è la mia. Senza barare.

Prima di fare i fumetti ero architetto. Lo sono ancora. Sono anche padre, figlio, amico, fotografo, cuoco, chitarrista, giardiniere, amante, lettore e un mucchio di altre cose. Ma il fumetto è l’unica che mi contenga per intero, e con questo il mio pezzo potrebbe chiudersi qui.
Il fatto è che il fumetto sono io. Ogni bambino introverso salvato da una pagina di Daredevil disegnata da Gene Colan o di Tex di Giovanni Ticci o di Video Girl Ai di Masakazu Katsura o – aggiungere a piacere – sa perfettamente cosa intendo.
Se l’infanzia è il luogo geometrico delle cose che accadono per la prima volta, il fumetto è sempre stato il mio punto, ciò attorno a cui gravitava il resto. Tutti i fumetti lo erano.
Questa cosa di far risalire il virus del fumettismo all’infanzia è piuttosto comune. Credo sia perché tutte le cose importanti della nostra vita, perlomeno molte di quelle che ci caratterizzano in profondità, partono da lì. Il fatto che io odii i piselli con la gelatina e abbia un’istintiva diffidenza per le persone con il naso piccolo e per le suore o che abbia difficoltà con gli abbracci, sono tutte cose nate prima dei dieci anni che porto ancora con me. Va anche detto che per un bambino, è forse più probabile sognare di fare il fumettista o l’astronauta, piuttosto che l’ingegnere. È la ragione per la quale mediamente i fumettisti e gli astronauti mi sembrano più contenti degli ingegneri, anche se mi rendo conto che questa è solo un’impressione, perdipiù di un fumettista.

La mia formazione comincia con il disegno, che è uno dei miei primi ricordi e questo per me ha un senso. Il disegno è la prima cosa che ho amato consapevolmente e con forza e anche questo ce l’ha. Il disegno, proprio perché lo amo, non è mai stato la mia vocazione né un amante riconoscente. È un’altra maniera per dire che si ama quel che ci piace, non ciò che ci viene più facile, o almeno per me è sempre stato così. Ci sono persone che amano moltissimo cantare anche se sono stonate, per esempio. Poi, col tempo e l’applicazione, migliorano.
Proprio per questo, fino ai vent’anni ho disegnato tantissimo. Ho scatoloni di storie disegnate fino a pagina tre e poi abbandonate perché mi veniva sempre un’idea più bella. E ricominciavo.
Nel disegno, sono un autodidatta. Non ho fatto nemmeno il liceo artistico, mio padre me lo impedì. Al tempo lo considerai un sopruso, oggi lo ritengo la mia fortuna.
Ciò significa che nella mia formazione non ci sono stati maestri, solo ore e ore a disegnare e guardare. Quindi i maestri in realtà ci sono. Il fatto è che con me non si sono spiegati a parole, ma attraverso le immagini.
Dire qui della faticosa acquisizione della tecnica sarebbe pleonastico. Ogni disciplina ne richiede una. E ogni tecnica, alla fine, non è altro che la sommatoria di tutte le ore spese su qualcosa. Nel caso del disegno, di tutte le ore passate chini su un foglio.

Tra i venti e i ventotto anni ho praticamente smesso di disegnare fumetti. Non ha fatto molta differenza, perché ne avevo già disegnati abbastanza prima. Gli anni della facoltà di architettura mi sono serviti comunque per tenere allenata la mano – anche se disegnavo solo edifici e quasi mai a mano libera – ma soprattutto per arricchire il mio sguardo e portare nei miei fumetti futuri moltissime altre cose: Paco de Lucia, le ragazze con gli occhi tristi, I Led Zeppelin, il ponte di Rialto di notte, i bigoli in salsa alle tre del mattino, le lezioni di Franco Purini, Edgar Morin e Octavio Paz e Katsuhiro Otomo non necessariamente in quest’ordine.
Dopo la laurea ho cominciato subito a lavorare e, successivamente, sono stato assunto come architetto nell’ufficio tecnico del Comune. Mi sono seduto davanti a un computer a progettare e per un periodo piuttosto lungo non sono riuscito a fare una vita che mi somigliasse, anche se non saprei dire il perché.
Poi a un certo punto, di colpo sono diventato uno che aveva fretta. La decisione di mollare un lavoro sicuro e ben pagato a trentacinque anni per mettermi a fare i fumetti, per esempio, è stata presa così. Un giorno mi sono guardato nello specchio opaco del bagno del mio piano terra da scapolo e mi sono detto che mi dovevo qualcosa. Principalmente, la necessità di dimostrarmi che non ero un fanfarone. E poi la voglia e l’imperativo morale di mantenere una promessa fatta al bambino ch’ero stato, che se non mi fossi mosso a breve avrebbe rischiato di restare chiuso nel cassetto, sogni e tutto, a soffocarsi nei rimpianti e nelle bugie che gli avevo raccontato negli anni.
Il fatto era anche che fare l’architetto non era un brutto lavoro, anzi mi piaceva. Ma io sono sempre stato convinto che per inseguire i sogni vadano abbandonati solo i lavori belli. Serve per far confluire tutta la bellezza che hai nell’unica scelta che farai, qualunque essa sia.

La mia carriera di fumettista cominciò ufficialmente nell’agosto del 2006.
Quell’anno non ero andato in ferie per disegnare. Avevo deciso di far succedere qualcosa entro l’autunno, anche se non avevo la più pallida idea del come. Un giorno lessi un messaggio su un forum di fumetti che seguivo. Su quel forum, lo sceneggiatore Roberto Recchioni pubblicò un annuncio. L’annuncio diceva che si era venuta a creare un’improvvisa emergenza in Eura Editoriale – una delle principali case editrici italiane di fumetti – e che di conseguenza c’erano due posti immediatamente disponibili per la realizzazione di due albi: uno di John Doe e uno di Detective Dante.
Quando Roberto mise l’annuncio io ero on line. Risposi dopo pochi minuti e gli scrissi allegando qualche disegno e delle tavole a fumetti. Roberto mi disse che il mio lavoro gli pareva buono, e che se volevo potevo realizzare un numero di Detective Dante. Novantaquattro pagine tutte in fila. Di più: potevo addirittura scegliere se il numero 21 o il 23. Per il 21 c’erano quattro mesi di tempo, per il 23: sei. Scelsi il secondo. Roberto mi chiese se pensavo di farcela e io, come ogni niubbo che si rispetti, ovviamente mentii. Dissi che certo, non c’era problema, figurarsi. La realtà era che fino ad allora per realizzare una pagina non ci avevo mai messo meno di due settimane. Oltretutto, per le note problematiche di salute che al tempo ignoravo, Roberto mi spedì la mia prima sceneggiatura professionale con un po’di ritardo, bruciandomi dunque parte di quel vantaggio che pensavo di essermi preso scegliendo il 23 anziché il 21.
Furono mesi interessanti. Ancora adesso, se mi guardo indietro – e considerando soprattutto il risultato che continua a sembrarmi da non bruciare del tutto – non so come cazzo io abbia fatto a farcela.
Da lì, la mia formazione è stata solo una distanza da coprire. Quella delle mie insicurezze, delle mie carenze tecniche compensate col lavoro sul campo, delle mie difficoltà economiche. Non è stato facile. Ma io godevo di un vantaggio che nessuno conosceva: avevo dalla mia parte tutto il tempo investito a non fare i fumetti, solo in attesa del momento. Tutti quegli anni passati a tenere sotto pressione la mia voglia come comprimere una molla, che liberò finalmente la sua energia quasi rabbiosa. Il momento adesso era lì, e io scopersi che quel che avevo creduto un punto era diventato una linea. E che quella linea era in realtà una traiettoria: quella che mi ha condotto dove sono.
Oggi, so che se una formazione è una linea, ogni linea è formata da punti. Ogni linea è formata da infiniti punti, che è un modo diverso per dire che le formazioni non finiscono mai. La formazione di un fumettista non sfugge a questa regola. La formazione del fumettista, però, è un percorso particolare perché è fatto di più linee: c’è la linea del disegno, quella della narrazione, quella della regia, quella dell’inchiostrazione, quella della composizione, l’amore per le pause e il senso del ritmo. Tutte queste linee insieme convergono per dare luogo a una figura. La figura è: la vignetta. Dentro la vignetta accade il racconto, dunque la vita.
La vita che metti dentro la vignetta nasce dalla vita che c’è fuori. Per esempio, il senso del fare i fumetti oggi, per me, è disegnare sul tavolo del soggiorno di fianco a mia figlia di due anni. Lei con la testa affondata nel suo foglio e io perso dentro al mio. Melania usa i pennarelli Giotto e io le mie penne giapponesi da quindici euro l’una ma fra noi non c’è reale differenza, perché quando disegniamo stiamo giocando. Entrambi, prendiamo il nostro gioco dannatamente sul serio. Ci separano gli anni e i chilometri, lei è ancora un punto mentre io sono un quadrato, ma la sostanza che ci anima è identica.
Fare i fumetti per me non è altro che questo: giocare, ma farlo sul serio. Non barare. Sapere che se ogni figura è composta da linee che sono originate da un punto, allora quel punto è un seme. Che nei fumettisti quel seme può crescere come all’incontrario, e se non lo tradisci è in grado di riportarti indietro fino al luogo in cui le cose accadono sempre per la prima volta.
Fare i fumetti, è abitare quel luogo ogni giorno.
Riempire fogli di segni con la gioia di una partenza e la familiarità di un ritorno.

Matteo Bussola nasce a Verona nel 1971, e si laurea in architettura a Venezia. Per qualche tempo conduce una doppia esistenza: progettista edile di giorno e fumettista amatoriale di notte, finché non decide che disegnare fumetti sarà la sua professione. Lavora quindi con Eura Editoriale (oggi Aurea) – esordendo, nel 2007, con il numero 23 di Detective Dante –, Star Comics, e per la case editrici francesi Soleil e Humanoïdes Associés. Nel 2011, insieme a Paola Barbato, crea il web-comic Davvero, che successivamente vive una breve stagione in edicola, sotto il marchio Star Comics. Nel 2012 inizia a collaborare con Sergio Bonelli Editore, entrando a far parte dello staff di disegnatori della serie Adam Wild, collana creata da Gianfranco Manfredi che approda in edicola nell’autunno del 2014. Vive a Verona con la compagna, tre figlie, due cani e un cinghiale.

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6 Risposte to “La formazione del fumettista, 28 / Matteo Bussola”

  1. g2-65df8f77e925b14b2017cd96ffc19b0f Says:

    Ci sono cose scritte che ti parlano come se fossero state scritte per te, e solo per te. Questo tuo pezzo rientra nella categoria. Grazie.

  2. La formazione del fumettista Matteo Bussola | afnews.info Says:

    […] Leggi l’articolo completo nel blog di Giulio Mozzi facendo click qui. […]

  3. カゼムグダルジマニ Says:

    Bel pezzo, mi ha toccato dentro.

  4. LetturAttiva Says:

    Evviva! Finalmente un fumettista che non gioca a fare il creativo o il brioso. Mi piace – quando si narra di sé – questa scrittura aderente alla vita.
    L’unico dubbio sorge dinnanzi a ..”. Dentro la vignetta accade il racconto, dunque la vita”.
    E’ quel ‘dunque’ conclusivo che non condivido. La deduzione.
    La vignetta è racconto. fermiamoci lì e godiamolo.
    La vita, poi, è altra cosa.

    Grazie a M. Bussola per aver fatto conoscere tanti fumettisti/ fumettiste e per aver dato un’idea di sé.

  5. “La conservazione delle cose impalpabili”, di Matteo Bussola | vibrisse, bollettino Says:

    […] Matteo Bussola è un (ancor) giovane e (molto) stimato disegnatore di fumetti. Lavora per l’editore italiano Bonelli e per editori francesi. Il popolo del web lo conosce per le brevi storie (ma a volte sono solo noterelle, immagini, riflessioni) che da tempo pubblica in Facebook: nelle quali (pressochè quotidianamente) racconta (con delicatezza, umorismo, affetto, nonché acuto senso morale e civico) le avventure della sua bella famiglia (tre bimbe splendide e tremende, un uomo e una donna innamorati come se essere innamorati fosse la cosa più naturale del mondo). Ma il piccolo, prezioso libro del quale qui parliamo (La conservazione delle cose impalpabili, Edizioni dell’Oca, tiratura limitata) non è (come qualcuno potrebbe temere) una raccolta di quelle fortunate storielle. E’ un libricino che ricorda piuttosto, ma a un livello di raffinatezza e sensibilità assai più alto, un’opera come La première gorgée de bière et autres plaisirs minuscules di Philippe Delerm. […]

  6. Muro del suono | Sabbione Says:

    […] fatto che Matteo sia disegnatore, fumettista e scrittore mi ha fatto gioire, perché mi ha ricordato di quando ero […]

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