Incontrare per la milionesima volta
la realtà dell’esperienza
e forgiare nella fucina della mia anima
la coscienza increata della mia razza
(Gente di Dublino)
Intro
Alcune annotazioni in seguito alla lettura dell’Ulisse di Joyce. L’edizione è quella dei Tascabili Mondadori. Traduzione Giulio de Angelis. Nella quarta di copertina c’è scritto: “Un uomo a spasso per Dublino dalle 8 alle 2 di notte del 16 giugno 1904: le sue azioni, i pensieri, le azioni e i pensieri della città, delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus…”. Le azioni e i pensieri delle cose? No, l’Ulisse non arriva a tanto… Ma quasi.
Birra
L’Ulysses si apre con questo paragrafo:
Solenne e paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
“Introibo ad altare Dei”
E’ interessante soffermarsi, in quest’incipit, sul particolare del “bacile di schiuma”. Il bacile viene anche levato in alto e offerto a Dio. E’ possibile che Joyce abbia voluto servirsi dell’immagine del “bacile di schiuma” come succedaneo alla birra?
La birra è un liquido sacro nell’Ulysses. A pag. 306 leggiamo:
Una bella cotta, s’era preso, in una gargotta di Bride Street dopo l’ora di chiusura, brancicava due sciupate col magnaccia che stava di guardia e beveva birra in tazze da tè.
Addirittura la birra è degna d’essere versata in pregiate tazze da tè! E ancora a pagina 404:
Da quattro minuti circa teneva gli occhi fissi su un certo quantitativo di birra Bass numero uno imbottigliata da Bass e Co di Burton-on-Trent che si trovava situata in mezzo a un gran numero di analoghe bottiglie esattamente difronte a dove egli stava e che erano certamente intese ad attirare l’altrui attenzione a cagione del loro aspetto scarlatto.
La birra torna, nell’Ulysses, e viene sempre presentata e descritta sotto una luce aurea, sacrale, è un nettare divino.
Come mai Joyce dava così tanta importanza al luppolo? Forse solo perché gli piaceva? Oppure è un elemento simbolico? Non potrebbe essere che tanto l’Ulysses quanto il Finnegans Wake rappresentino la schiuma alfabetica dei fatti? Quanta minor birra versi nel bicchiere, quanto più velocemente lo fai, tanto maggiormente otterrai schiuma.
La scena del gabinetto
L’Ulisse di Joyce è famoso perché per la prima volta si tenta di descrivere il protagonista anche quando va al gabinetto. Pagina 68:
Tirò un calcio alla porta ballerina del cesso. Meglio stare attenti a non sporcare questi pantaloni per il funerale. Entrò, chinando la testa sotto il basso architrave. Lasciando la porta socchiusa, in mezzo al tanfo di calce muffita e di ragnatele stantie si sbottonò le bretelle. Prima di sedersi sbirciò da una fessura una finestra dei vicini. Il re era al suo banco. Nessuno.
Accosciato sulla saggetta spiegò il giornale voltando le pagine l’una dopo l’altra sulle ginocchia denudate. Qualcosa di nuovo e agevole. Non c’è nessuna fretta. Tratteniamola un po’. Il nostro racconto a premio! Il colpa da maestro di Matchman. Di Mr Philip Beaufoy, club degli Spettatori, Londra. Tre e mezzo. Tre sterline e tre scellini. Tre sterline tredici scellini e sei pence.
Lesse tranquillamente, trattenendosi la prima colonna e, cedendo ma resistendo, attaccò la seconda. A mezza strada, la sua ultima resistenza cedendo, permise ai suoi intestini di liberarsi comodamente mentre leggeva, leggeva ancora pazientemente, quella leggera stitichezza di ieri era sparita del tutto. Spero non sia troppo grosso fa rispuntar le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico. Una pillola di cascara sagrada. La vita potrebbe essere così. Non lo aveva commosso o toccato ma era una cosa svelta e pulita. Ora stampano qualsiasi cosa. Stagione morta. Continuava a leggere, seduto calmo col suo odore ascendente. Pulita certamente. Matchman pensa spesso al colpo da maestro con il quale conquistò la piccola strega ridente che ora. Comincia e finisce moralmente. La mano nella mano. In gamba. Ripercorse con lo sguardo quel che aveva letto e, mentre sentiva la sua acqua scorrere tranquillamente, invidiava senza cattiveria quel bravo Mr Beaufoy che l’aveva scritta e aveva avuto in pagamento tre sterline sedici scellini e sei pence.
La scena è importante perché rappresenta un estremo che permette di comprendere bene quale tipo di azioni vengono descritte nell’Ulisse. Sono azioni da nulla, le più piatte. Farsi la barba. Andare al gabinetto. Andare all’ufficio postale a ritirare una lettera. Incrociare M’Coy e dirgli che oggi è il giorno del funerale di Dignam. “Già, poveretto. Proprio così. A che ora?”. Quisquiglie. Sciocchezzuole. Il gusto della lettura si ricava anche facendosi complici di questa lenticolare opera di accattonaggio dell’evento minimo, inetto, di per sé insignificante. Far colazione. Pranzare. E, interessante, accanto a questi gesti anche discettare di Aristotele o della vittoria di Pirro ad Ascoli nel 279 a.c. e poi di Shakespeare, Mallarmé e recitare filastrocche, una capiente ridda di filastrocche: anche questo è bagattella. Di solito gli intellettuali sono entusiasti dell’Ulisse di Joyce, senza capire che l’opera joyciana, tutto sommato, si prende gioco di loro. Ma perché dedicare la propria attenzione a queste inezie? Semplice. Perché gli eroi tragicomici joyciani, come già nei Dubliners, rappresentano stagnazione e decadenza di valori. Per l’Ulisse di Omero l’espletamento dei propri bisogni corporali è l’ultima delle cose interessanti dato che là fuori ci sono ciclopi e sirene, antropofagi e lotofagi e maghe e mostri marini da affrontare e sconfiggere. Ma per il Mr Bloom e per la Dublino di Joyce nel 1904 queste inezie sono un accadimento. Qualcosa che vale la pena, in fondo in fondo, con ironia, certo, raccontare. Ma qualcosa più sui generis di questo, forse, si può dire.
Mentre Mr Bloom è al gabinetto sta leggendo un giornale. Quando Mr Bloom è da Duglacz e tra collane di salsicce, sanguinacci e rognoni di castrato una donna rapisce il suo sguardo e Bloom rimane lì amleticamente dubbioso, incerto se seguirla o meno, se provare ad attaccar bottone oppure no. In poche parole ogni volta che nell’Ulisse si descrive un gesto che ci appare un po’ pedestre se ne interseca un altro, un po’ meno scontato. Ad esempio Mr Bloom, al gabinetto, come abbiamo visto, sta leggendo il giornale. Questa non potrebbe per caso essere una critica alla carta stampata? Più tardi il giornale verrà utilizzato per avvolgere un sapone. Leggiamo. Pagina 85:
“Olà, Bloom, che c’è di bello? E’ quello d’oggi? Faccia vedere un minuto”
Si è tagliato un’altra volta i baffi, per Giove! Labbro superiore lungo e freddo. Per sembrare giovane. Ha l’aria melensa. Più giovane di me.
Le gialle dita dalle unghie nere di Bantam Lyons srotolarono la bacchetta. Ha bisogno di una lavatina, anche. Lavare la prima crosta. Buon giorno, avete usato il sapone Pears? Forfora sulle spalle. Deve lubrificare la cotenna.
“Voglio vedere un po’ di quel cavallo francese che corre oggi” disse Bantam Lyons. Dov’è quel fottuto?
Spiegazzò le pagine piegate sporgendo il mento dal colletto alto. Impetigine. Colletto stretto, perderà i capelli. Meglio lasciargli il giornale e piantarlo.
“Lo tenga pure, disse Mr Bloom.
“Ascot. La coppia d’oro. Aspetti, borbottò Bantam Lyons. Momento. Maximum secondo.
“Stavo proprio per buttarlo via, disse Mr Bloom.
Bantam Lyons alzò gli occhi e ghignò debolmente.
“Cos?, dice con la sua voce acuta.
“Dico che lo può tenere, rispose Mr Bloom. Stavo per buttarlo via in quel momento.
Bantam Lyons esitò un istante, ghignando; poi rimise il giornale aperto tra le braccia di Bloom.
“Lo rischio, disse. Ecco, grazie.
Corse via verso l’angolo di Conway. Va’ con Dio.
Mr Bloom ripiegò i fogli in preciso rettangolo e ci mise in mezzo il sapone sorridendo. Labbra sciocche di quel tipo. Giocare alle corse. E’ diventata una mania da un po’ di tempo in qua.
Se si fa caso, nell’Ulisse, ci sono sempre due azioni che si intersecano e quella più rozza, plebea serve a commento dell’altra. Le azioni volutamente ordinarie che si raccontano servono a svilire qualcosa di un po’ più grande: a riportare tutto a grandezza d’homunculus. Perciò non sono mere rappresentazioni. I fatti che accadono nell’Ulysses sono giudizi.
Stream of consciousness
Lo stesso è per il flusso di coscienza. Il flusso di coscienza è stato celebrato e interpretato in molti modi. Ma, intanto, bisognerebbe chiamarlo flusso d’incoscienza. C’è una voce barbara che abita Mr Bloom; e nel corso della seconda parte del romanzo, quella dell’Odissea tout-court, prima o poi questa voce salta sempre fuori. Il flusso di coscienza serve a far conoscere i pensieri di Leopold al lettore. Ma è anche veicolo dei suoi più intimi valori. Valori declinanti. Amari. Burbanzosi. E di solito questa voce salta quasi sempre fuori al termine dei lunghi capitoli: valga per tutti l’esempio di Nausicaa o delle Mandrie del sole. In “Nausicaa” viene descritto, per decine di pagine, con una prosa rigogliosa e ampollosa, assolutamente amabile e ben fatta, un quadretto adorabile di Gertrude MacDowell fino a quando a pagina 357…
“Scarpe strette? No. E’ zoppa! Oh.
Mr Bloom la osservava zoppicare. Povera figliola! Ecco perché è rimasta là in asso e le altre correvano via. Mi pareva bene che ci doveva essere qualcosa, dal suo aspetto. Bellezza piantata in asso. Un difetto è dieci volte peggiore di una donna. Ma le rende gentili. Sono contento di non averlo saputo quando si metteva in mostra. Però è sempre una ragazzina col diavolo in corpo. Non mi dispiacerebbe. Una curiosità come una monaca o una nera o una ragazza con gli occhiali. Quella strabica è delicata. Alla vigilia di avere le sue cose, immagino, e questo le rende suscettibili. Ho un tal mal di testa oggi. Dove ho messo la lettera? Sì, benissimo. Ogni sorta di voglie pazze. Leccare monetine. La ragazza del convento Tranquilla, mi disse la monaca, le piaceva l’odore dell’olio di rocca. Le vergini finiscono pazze, credo. Sorella? Quante donne a Dublino ce l’hanno oggi? Marta, lei. Qualcosa nell’aria. E’ la luna. Ma allora perché tutte le donne non hanno i mestrui allo stesso tempo con la stessa luna, voglio dire?
Insomma, arriva lui, Mr Bloom, e rovina tutto. Dice peste e corna. Pensa peste e corna. Arriva con la sua abrasività e sfascia tutto. Arriva con la sua prosa sgrammaticata, paratattica ed ellittica e scassa e sbertuccia la prosa ampollosa e ben rassettata e imbellettata delle numerose pagine antecedenti. E nel capitolo successivo lo schema si ripete. Dopo uno stile alato, declamatorio, magniloquente irrompe Bloom sulla scena col suo linguaggio linguacciuto, licenzioso, boccaccesco, segno d’una tracimazione d’incoscienza.
Ecco, la lingua aliena che percorre l’Ulisse incrociandosi e rannodando gli altri stili! Nella quarta di copertina dell’edizione presa qui come riferimento c’è scritto:
Diciotto capitoli, diciotto luoghi, diciotto ore e momenti, e diciotto stili per raccontare l’eroicomica giornata di un ebreo irlandese di origini magiare, l’agente pubblicitario Leopold Bloom,
ma questo è solo parzialmente vero! Il fatto è che nell’Ulisse, in ogni capitolo, scoppia un conflitto stilistico, una guerra linguistica: il linguaggio augusto, pasciuto del di fuori si scontra col linguaggio sudicio, cafonesco del di dentro, della coscienza, del pensiero. Gli stili alati sono molteplici, ma quello del di dentro è espressione di una cogitazione unitaria. Torna. Sempre uguale.
Il linguaggio del di dentro di Mr Bloom, dicevamo, esprime soprattutto sistemi di valori. Non è molto diverso, in fondo, da quel che accade nell’Odissea di Omero. L’astuto e valoroso eroe Ulisse si scontra con i Lestrigoni o con i Ciconi o col Ciclope. L’importanza della vittoria non risiede tanto nella strategia elaborata da Ulisse per avere la meglio su questo o quell’avversario, quanto che questa strategia scaturisca da un sistema di valori maggiormente adatto e positivo rispetto a quello dell’avversario e col quale sistema il lettore è portato a identificarsi. Le strategie elaborate da Ulisse nell’Odissea sono, insomma, opinioni sul mondo. Non meno di quelle che escono a briglia sciolta dalla coscienza mordace di Leopold Bloom.
La questione omerico-dantesca joyciana
Lo schema narrativo dell’Ulisse di Joyce è l’Odissea di Omero. Lo “schema Linati” e lo “schema Gilbert” non sembrano dare adito a dubbi in proposito. Fu lo stesso Joyce a redigerli per cercare di aiutare il lettore a orientarsi meglio all’interno della sua opera gargantuesca. E lo “schema Linati” è adottato nel sommario di qualsiasi edizione dell’opera. Stephen Dedalus è Telemaco. Leopold Boom è Ulisse. Molly Bloom è Penelope. Però anche solo dall’osservazione superficiale dello schema che Joyce consegnò a Linati, ci si rende conto che Molly non è la fedele Penelope dell’Odissea. Molly è fedifraga. E anche Leopold è infedele. Nulla hanno realmente a che vedere, Leopold e Molly, con quell’Ulisse che nell’Odissea giunge a farsi incatenare per resistere al canto delle sirene o a quella Penelope che resiste all’assalto pressoché quotidiano dei Proci. S’innesta subito, perciò, un implicito rovesciamento canzonatorio e decadente, nichilista. Questi sono gli Ulisse e le Penelope d’oggi, sembra proprio volerci dire Joyce. Si separano per una giornata e non riescono nemmeno a resistere a qualche tentazione. Leopold è continuamente attratto da questa o quella donna: come quando incontra la figlia di Theodore Purefoy, Mina Purefoy; o come quando finisce in un bordello dove s’incontra con Stephen Dedalus. Costui è un suo alter-ego. E’ il figlio di cui va alla ricerca e, talis pater talis filius, ecco che si ritrovano entrambi tra prostitute. Ci rendiamo conto che l’Ulysses, se è un calco dell’Odissea omerica, lo è in modo quantomeno parodico. Operazione che potrebbe richiamare il Don Chisciotte di Cervantes. Con la differenza che nell’Ulysses le corrispondenze non sono precise. Molly, come detto, non corrisponde a Penelope. Né Bloom o Dedalus e neppure la sarabanda di personaggi che popolano il romanzo sembrano rappresentare precisamente doppi parodici riattualizzati dei mitici personaggi dell’Odissea. Dunque, che cosa ha cercato di fare Joyce elaborando gli schemi Linati e Gilbert? In che senso ha cercato di aiutare il lettore?
Non bisogna dimenticare che prima ancora di Omero Joyce era appassionato della Commedia di Dante. Secondo alcuni studiosi è lo schema dantesco che Joyce utilizza per la sua raccolta di racconti Gente di Dublino – che, come ormai noto, originariamente avrebbe dovuto intitolarsi I morti. Allora come mai nel 1917 Joyce spiega a Georges Borach:
Il più bello e interessante dei soggetti è quello dell’Odissea. E’ più grande e più umano di quello dell’Amleto, superiore al Don Chisciotte, a Dante, al Faust… A Roma, quando avevo finito circa la metà del Portrait, mi resi conto che l’Odissea doveva esserne il seguito?
Come mai?
Una spiegazione potrebbe essere nel fatto che la Commedia stessa proviene dall’Odissea seguendo la linea di discendenza virgiliana. Dante ha sempre riconosciuto la grandezza di Omero pur non avendolo, com’è noto, studiato al meglio. (Borges suggeriva addirittura di leggere l’Eneide di Virgilio fingendo che fosse antecedente all’Odissea). In più la Commedia contiene l’Odissea col famoso canto dedicato a Ulisse. Come se insomma Dante stesso, in qualche modo, riconoscesse la subordinazione della sua opera a quella omerica. Ma, anche qui, c’è qualcosa di più, e di più interessante, e di decisivo.
Abbiamo detto che gli schemi Linati e Gilbert elaborati da Joyce rivelano tanto le analogie quanto le differenze dell’Ulysses dall’Odissea omerica. Delle differenze abbiamo accennato; ma quali sono le analogie? Le analogie sono l’organizzazione delle varie materie affrontate all’interno dell’opera. Nell’Odissea quando Ulisse incontra i Ciconi si parla di vino e di alcol, poi Ulisse finisce nell’isola dei Lotafagi e qui si parla di droghe, loto, uno stordimento pesante, negativo (a differenza del vino della terra dei Ciconi), poi Ulisse finisce dai Ciclopi e qui si parla di cibo e poi c’è Circe, dove il tema è il sesso, e Nausicaa. Perciò in ogni isola ogni figura è l’occasione per far riferimento a un argomento: cibo, sesso, bellezza, religione, vendetta… Il che non è forse uno schema simile a quello della Commedia dantesca: con gli ignavi, i golosi, i lussuriosi…? Ogni cerchio, in Dante, rappresenta una tematica. Dante chiama queste tematiche peccati, nell’Odissea sono tentazioni. Tra l’altro, cerchi e isole hanno in comune d’essere di forma circolare. E l’Ulysses? Be’, nell’Ulisse di Joyce viene mantenuto lo schema organizzativo fondamentale. Joyce stesso nello “schema Linati” segna la tematica affrontata di volta in volta: ad esempio nel terzo capitolo si affronta la Filologia, nel capitolo denominato Circe si affronta la Danza, in quello intitolato da Joyce come “Nausicaa” si indica la pittura. E così via.
Ma allora perché, se lo schema organizzativo dei contenuti della Divina commedia e dell’Odissea presenta logiche simili, Joyce sente la necessità di ispirarsi a quello dell’opera omerica? A me viene da pensare che la Commedia sia un’opera statica e andasse bene per Gente di Dublino, dove si vuole rappresentare la parossistica stagnazione morale, psichica e anche fisica dei tempi di Joyce. L’Odissea è più dinamica, e a differenza di Gente di Dublino, l’Ulisse ha personaggi più dinamici, che si spostano da luogo a luogo: la biblioteca, il funerale, il giornale, l’ospedale, il bordello. Ecco dunque perché, oltre alle ragioni già inanellate, Joyce scelse l’Odissea.
Va anche detto che dato il numero impressionante di liste all’interno del romanzo forse anche l’Iliade e il catalogo delle navi sono stati uno dei modelli impliciti di Joyce!
Se Omero e Dante sono il calco struttural-contenutistico dell’opera, non vanno tralasciati, tuttavia, anche altri modelli. Come Shakespeare e Mallarmé. L’Amleto di Shakespeare con le sue esitazioni e i suoi dubbi che sembrano non avere alcun fondamento esterno, e pertanto appaiono esistenziali, costituiscono il calco ideale del personaggio principe dell’Ulysses ossia Leopold Bloom. Che pertanto, sebbene vaghi di qua e di là, nelle sue misere e decadenti peripezie e nelle sue clownesche agnizioni, non è animato dalla sete di conoscenza dell’Ulisse di Omero, ma piuttosto affronta le situazioni con spirito caustico, esitante, irresoluto.
Svevo, Bene, Woolf
L’Ulisse di Joyce, si sa, è uno dei libri più chiacchierati ma meno letti della storia della letteratura mondiale. In realtà, oggi come oggi, è possibile leggere l’Ulisse e trarne persino godimento. Certo, ci vuole un vocabolario ampio, ma, quantomeno, è possibile capire cosa accade. Per accostarsi alla lettura di un opera da molti considerata illeggibile esistono giudizi utili e giudizi meno schiarenti. Ad esempio come Svevo abbia potuto definire Joyce “mercante di gerundi” resta misterioso. Forse qualcosa nei rapporti tra Joyce e Svevo si era rotto. Ma lo stesso Carmelo Bene, in perfetta buona fede, fornisce una definizione castrante quando parla di Joyce come “scrittore dell’immediato”. Leggendo si fa presto ad accorgersi che non è così. Non c’è solo l’immediato rappresentato dal flusso di coscienza e dalla narrazione, per così dire, in soggettiva. Ma ci sono anche parti ultramediate come nel capitolo intitolato “Nausicaa” o quello subito successivo. Quanto a Virginia Woolf e al fatto che l’Ulisse sia un elenco telefonico: sì, gli elenchi sono numerosi. Ma non ci sono solo elenchi. Illuminanti, invece, perché d’impianto leggermente didattico, sono i primi paragrafetti dell’introduzione all’edizione Newton Compton di Gente di Dublino firmati da Marina Emo Capodilista.
Joyce e Jung
Interessante fu la stroncatura che Carl Gustav Jung fece dell’Ulisse di Joyce. Ci si aspetterebbe che Jung sia entusiasta del tentativo di Joyce di rappresentare il pensiero senza interposizioni di Leopold Bloom. Invece Jung disse che il libro non faceva un solo tentativo di venire incontro al lettore. Come se l’inconscio o ciò che ci bolle nella testa faccia tentativi di patteggiamento! Come mai Jung ebbe questa reazione? E come mai Jaspers scrisse un libro dove attraverso l’analisi dei testi di alcuni poeti era addirittura in grado di decidere di quali patologie mentali soffrissero? Arte e psicanalisi, possiamo dedurre da questa querelle, non sono ancelle. La psicanalisi riguarda la mediazione e non l’immediato. Riguarda modalità di negoziazione. Chi finisce in analisi ci finisce perché non sa più contrattare un senso accettabile col prossimo. Ecco perché Jung se la prese così tanto con un testo che in fondo partiva da premesse psicanalitiche. La psicanalisi non vuole realmente vedere l’animo umano; vuole ricacciarlo in fondo il più possibile.
Tutti abbiamo letto l’Ulisse
Leggere l’Ulisse, oggi, è come leggere, oggi, Essere e tempo di Heidegger o Platone o Freud. Per quanto libri che possano a tutta prima spaventare, l’impressione è di avere già familiarità con i concetti che si trovano al loro interno. Sono entrati talmente nella chiacchiera di tutti che echi e risonanze si radunano quasi a formare una voce sola, molto somigliante all’originale. Pensiamo, nell’Ulysses, alla presenza delle corse dei cavalli. Vengono in mente subito Hemingway o Bukowski. Certamente, leggendo l’Ulysses, può venire in mente Faulkner. Ma guardate se si legge questo paragrafino a pagina 326:
Addio Irlanda, me ne vado a Gort. Così faccio quattro passi fino in fondo al cortile per far un po’ d’acqua e perdiana (cento scellini contro cinque) mentre mi stavo scari (Buttavia venti a) scaricando, perdiana, faccio tra me e me, m’ero accorto che stava sulle (due pinte di Joe e una di Slattery) sulle spine per tagliar la corda e andare a (cento scellini son cinque sterline) e quand’erano al (cavallo sconosciuto) pisser Burke mi raccontava le partite a carte e dava ad intendere che la bambina era malata (perdiana, un gallone, ne devo aver fatta) e la moglie dalle mele flaccide che gli stava all’apparecchio sta meglio o sta (ah!) tutta una montatura così lui filava col piatto se vinceva o (Cristo, non la potevo più tenere) a commerciare senza licenza (ah!) Irlanda la mia nazione dice lui (oooo! pfua!) non si sa come fare con questi fottuti (ecco la fine) becchi (eh!) di Gerusalemme.
Non ricorda Stephen King? E che dire poi di Gadda? Ovviamente si può riconoscere un po’ di Ingravallo nel goloso di rognoni Leopold Bloom, e per le misture linguistiche, ovviamente. E certamente c’è l’inetto Zeno Cosini con la sua titanica lotta per smettere di fumare – ecco Ciclopi, Lestrigoni e Ciconi dell’uomo moderno: le sigarette! E certamente l’Uomo senza qualità di Musil. Ognuna di queste opere ha sue peculiarità; ma i titoli sembrano quasi controcanti alla eternamente gravida opera-madre. E l’elenco si potrebbe continuare ben più a lungo.
Outro
Ripetiamolo, leggere l’Ulisse oggi è possibile. Ed è persino gustoso. Ci sono le bevute di birra. Le corse dei cavalli. Chiacchiere e pettegolezzi. Il lavoro di agente pubblicitario di Leopold Bloom. Le liste che funzionano da scialuppe di salvataggio: sgonfiano la mole del libro potendosi tranquillamente saltare. E chissà che, in fondo, Bloom e Molly non rappresentino la verità su Ulisse e Penelope. Chi crede davvero, infatti, che Ulisse, nel corso del suo lungo viaggio, non tradì mai Penelope? E chi crede sul serio che Penelope disfacesse ogni sera la tela per allontanare da sé Antinoo, Eurimaco e gli altri Proci? Sia Ulisse che Penelope sono costantemente circondati da tentazioni, ma alla fine, con un’astuzia o un’altra furberia, resistono. Se le cose sono davvero andate come Omero ci racconta, allora non rimane da far altro che commuoversi. Anzi, sapete una cosa? Io non credo che Ulisse dopo una decina d’anni tornò in mare perché la sua vocazione era quella di viaggiare e scoprire e conoscere, come ci racconta Dante nella Divina commedia. Penso invece che Ulisse sia scampato molto più a lungo e se ne sia rimasto con Penelope felice di infilarsi sotto le coperte con lei ogni sera proprio come fa Mr Leopold Bloom con la sua Molly. E al diavolo le tentazioni!
“E’ qui che Molly dà dei punti a tutte.
E’ il sangue del Sud. Moresco.
Anche la forma, la linea.
Mani cercavano le opulente.
Fa’ un po’ il paragone con quelle altre.
Moglie chiusa in casa,
segreto di famiglia. Mi permetta
di presentare la mia.
Ed ecco che tirano fuori
qualcosa d’indefinito,
non sai come chiamarla.
Si vede sempre il punto debole
di qualcuno nella moglie.
(Pag. 362, Ulisse)
“… ne porterò una rossa sì e come
mi baciò sotto il muro moresco
E io pensavo be’ lui ne vale un altro e
poi gli chiesi con gli occhi
di chiedere ancora sì e allora
mi chiese se io volevo sì
dire di sì mio fior di montagna
e per prima cosa gli misi le braccia
intorno sì e me lo tirai addosso in modo
che mi potesse sentire
il petto tutto profumato sì e il
suo cuore batteva
come impazzito
e sì dissi si voglio Sì.
(Pag. 741, Ulisse)
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12 Maggio 2015 alle 22:52
“ Mercoledì 20 marzo 2013 – Poi vado alla libreria – quella piccola – e chiedo di vedere il libro di Tabucchi di cui ho letto la recensione su Repubblica. Ma non ce l’avevano. Meglio così perché se no magari l’avrei dovuto comprare. Costa 20 euro e per me sono troppi. Soprattutto non mi va di darli alla Feltrinelli, tantomeno a Anna Dolfi, che non conosco, ma di cui so qualcosina. Ho visto anche che in vetrina c’era un voluminoso volume di un bell’azzurro. Era l’Ulisse di Joyce tradotto da Celati. Come avrà fatto lo sa solo lui, si vede che il tempo non gli manca. Comunque non avrei comprato nemmeno quello, un po’ perché ce l’ho già, nell’edizione Mondadori 1960, tradotto da Giulio De Angelis, e un po’ perché so che non l’avrei letto – l’ho già non-letto più di una volta… “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 324
13 Maggio 2015 alle 06:54
“Dante ha sempre riconosciuto la grandezza di Omero pur non avendolo, com’è noto, studiato al meglio”. Per la precisione (ma dico imprecisamente, perché vado a memoria) ne aveva letto un riassunto in latino: una sorta di bignami. Sarà la generazione successiva a quella di Dante, a cominciare la lenta riappropriazione della lingua e della cultura greca.
“Cerchi e isole hanno in comune d’essere di forma circolare”. Che i cerchi siano di forma circolare, non dubito. Un’occhiata all’atlante mi fa venire dei dubbi sulla rotondità delle isole. (A meno che per “circolarità” non s’intenda il fatto che, camminando sul bordo, prima o poi si ritorna al punto di partenza. Ma questo vale per qualunque superficie finita – isole comprese, e tutti i continenti sono isole).
“L’Ulisse, si sa…”. No, non “si sa”: “si dice”. E’ un luogo comune, non una verità notoria.
“Nel capitolo intitolato ‘Nausicaa’…”. I capitoli non hanno titolo. Il riferimento a Nausicaa viene appunto dallo “schema Linati”.
13 Maggio 2015 alle 07:39
Acabarra, ma no, leggilo! E’ un bellissimo libro. Tieni conto che l’Ulisse è un moloch che è nei miei pensieri da quando ho tredici anni, da quando il mio prof di italiano alle medie inferiori (poi diventato prof di filosofia nei licei) ce ne parlò. E ce ne parlò straordinariamente. Me lo ricordo benissimo. Disse. “L’Ulisse di Joyce è scritto in terza persona. Il narratore è onnisciente”. E disse una cosa acutissima: “Nemmeno Joyce ebbe il coraggio di scrivere l’Ulisse in prima persona.Sarebbe stato più difficile”. Secondo me, è un’osservazione, ancora oggi, acutissima. Poi disse: “Dovreste provare a leggerlo. E’ proprio un romanzo esemplare. Un uomo che osserva, annusa, tocca, pensa… E’ un manuale”. Sì, è difficile da leggere. Quello che spaventa, “si sa”, è la ricchezza lessicale. Ma anche perché abbiamo un’impostazione scolastica per cui se incontro una parola che non conosco devo capirne il significato cercandola sul vocabolario. Poi abbiamo l’impostazione mentale per cui in un romanzo deve per forza accadere qualcosa di eclatante, unico, singolare. Invece quello che conta è capire il senso del testo. Se sei in grado di capire il senso che soggiace a un testo sei in grado di accettarlo e di gustarlo. Anzi se arrivi a quel livello di comprensione, la parte drammatica diventa persino “noiosa”. Tanto i drammi si assomigliano più o meno tutti. Documentandomi nel mare magnum della bibliografia joyciana mi sono reso conto che ci sono ancora moltissime cose da dire su questo romanzo. Forse addirittura tutte le cose migliori da dire non sono ancora state dette. Perché ci si accosta a questo libro come a un molosso. Invece è un romanzo. Soltanto un romanzo. E’ una storia. Anche Eco fa parte dei giudizi poco utili ad accostarsi a questa lettura. Che ha una brutta fama, immeritata.
13 Maggio 2015 alle 07:57
Giulio, si ho usato l’espressione vaga “studiato al meglio” per non essere troppo didattico. Sono solo, questi, appunti. Però non è singolare che Dante “si fidi” del fatto che Omero sia un grande poeta? Dante non conosceva Omero; ma lo inserì ugualmente nella Commedia. E’ qualcosa che mi ha sempre fatto pensare. E poi c’è il canto ventiseiesimo. Ma c’è anche un’altra cosa che mi viene voglia di pensare. Negli appunti ho fatto notare un parallelo non solo tra cerchi e isole, ma anche tra peccati e tentazioni. Mi chiedo anche se non si potrebbe tentare di individuare parallelismi per quel che riguarda le strategie per avere la meglio sull’avversario e le punizioni per contrappasso.
Sì, le isole e i cerchi non hanno la stessa forma. D’altra parte la Terra non è sferica, ma non è nemmeno un elissoide. La Terra è un geoide; e ciascuna isola, se vogliamo essere seri, è… un isoloide. Se devo disegnare schematicamente isole su un foglio è molto probabile che farò cerchietti. Poi non va dimenticato che all’epoca di Dante la Terra era piatta, il sole ci girava intorno e l’universo era finito e immobile. E i quadri non avevano prospettiva.
Sì, è vero che i capitoli non hanno titolo, ma, e negli appunti si dice, nel sommario di ogni edizione viene riportata la partizione che viene dallo schema Linati.
13 Maggio 2015 alle 08:27
“ 21 gennaio 1986 – Claude Mauriac, Le temps immobile, 1974. Come dice il risvolto di copertina « M. ha voluto costruire un testo nel quale l’aspetto documentario è relegato in secondo piano dall’ambizione per la prima volta concepita e realizzata di fabbricare con i brani di un diario personale quello che Joyce è riuscito a fare con i segmenti tradizionali del racconto, quello che Eisenstein e i cineasti fanno con le sequenze fotografiche: un montaggio. » “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 325
13 Maggio 2015 alle 08:46
Acabarra, basta leggere l’Ulisse e ci si rende subito conto che non è un montaggio. E non è un patchwork. E non è un mélange. Non è combinatorio. O qualsiasi altra cosa possa far venire in mente, anche solo di striscio, un ozioso gioco salottiero. Carne e sangue, invece. Come tutta la più grande letteratura. Ulysses è una delle opere più chiuse che siano mai state scritte nella storia della letteratura novecentesca. A partire dalla trama. Un uomo si alza al mattino e va a dormire la sera. Cosa c’è di meno “aperto” di questo?
13 Maggio 2015 alle 08:59
Marco: “Però non è singolare che Dante ‘si fidi’ del fatto che Omero sia un grande poeta?”.
Oh, beh, lo dicevano tutti in coro da duemila anni circa. Perché non fidarsi?
13 Maggio 2015 alle 09:04
“ Domenica 6 giugno 1999 – La prima cosa che vedo sulla prima spiaggia di quest’anno è una gentile signora o signorina che legge un libro. Leggo il titolo, anzi non è un titolo, è un nome: « Joyce ». Penso che, non so ancora perché, Joyce si addice alla spiaggia. Sarà un fatto di stream… « Stream of consciousness? » Stream basta e avanza. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 326
13 Maggio 2015 alle 10:17
Bellissimo! Affascinante. Grazie.
13 Maggio 2015 alle 10:21
Giulio, l’Ulysses di Joyce mi fa venire il sospetto che Dante abbia nascosto qualcosa relativamente ai suoi debiti di riconoscenza artistica. Ha intorbidato un po’ le acque. Si è messo accanto Virgilio e dall’opera di Virgilio ha ricavato le figure più immaginose della Commedia. Ma è a Omero che Dante ha guardato per la parte più propriamente euristico-enciclopedica. Omero, Dante e Joyce sono legati da questo filo rosso. E sono attratto dall’idea che Joyce se ne sia reso conto. Che si sia reso conto che Dante abbia preso da Omero molto più di quel che lasci intendere. Dante ha strappato a Omero il pezzetto d’anima più lucente riuscendo a far diventare la sua Commedia un capolavoro vertiginoso.
13 Maggio 2015 alle 10:22
certo che lo schema del Finnegans di László Moholy-Nagy è bello ed onnicomprensivo, ma che c’ azzecca coll’Ulisse? come “technology demonstrator”?
13 Maggio 2015 alle 10:31
“ Martedì 17 dicembre 2002 – « Enterellbo add all taller Danis; Per omnibus secular seekalarum; Meac Coolp; Meas minimas culpads!; Crystal elation! Kirielle elation!; I believe in Dublin and the Sultan of Turkey; Trink off this scup and be bladdy orafferteed!; Sussumcordials; Grassy ass ago; Eat a missal lest; Benny-dick hotfoots onimpudent stayers » (James Joyce, Finnegans Wake, in Umberto Eco, Dalla Summa al Finnegans Wake. Le poetiche di Joyce, in Opera aperta, 1962) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 327
13 Maggio 2015 alle 10:50
Bel pezzo Marco. Io sono arrivato a pag. 600 di Ulisse e continuo a sentire che questo libro mi respinge. Ci sono pezzi di bravura sublime ma c’è anche una grande superficialità, a onta dello scavo psicologico e di coscienza – ma quale coscienza? La coscienza non esiste. Esistono i vari stati di coscienza, e Joyce si limita alla crosta. Insomma mi trovo d’accordo col giudizio di Carmelo Bene. Benchè possa sembrare un paradosso, Ulisse è un libro immediato. Ne I morti c’è maggiore profondità.
E se ad esempio leggo Joyce e subito dopo Dostoevskij, percepisco la stessa differenza che c’è fra vedere un funambolo da circo palleggiare e veder giocare Messi. Perdona il paragone calcistico, ma penso renda bene l’idea. Troppa bravura esibita e cioè sprecata. Meglio i Dubliners, dove però forse Joyce aveva già toccato l’apice. Gusto mio, ovviamente. E grazie ancora per questo pezzo così articolato e argomentato.
13 Maggio 2015 alle 11:10
Bruno Chiaranti, l’immagine non deve c’entrare per forza qualcosa. Ma è interessante come si dia per scontato che Ulisse e Finnegans non c’entrino l’uno con l’altro. Intanto hanno in comune di essere scritti dallo stesso autore. E poi l’uno presenta il mistilinguismo della coscienza e l’altro dell’inconscio. Il Finnegans è una radicalizzazione delle premesse dell’Ulysses che a sua volta nasce dalle premesse di Gente di Dublino. Se si vuole raccontare la stagnazione e il declino di valori dei dublinesi quale modo migliore se non quello di raccontare di un uomo nel suo momento massimo d’immobilità ossia quando dorme? La stagnazione e la decadenza di valori ha permesso a Joyce prima di inventarsi le epifanie (ossia momenti di verità veicolati da dettagli minutissimi, insignificanti), poi di far diventare protagonista non tanto il multistilismo quanto la coscienza (la qual coscienza, come si fa notare negli appunti, ha una voce sola per quanto ricca, molteplice) ed infine di far assurgere a protagonista l’alfabeto dell’inconscio (dove le parole si mescolano e ribollono di significati; e dove è permesso giocare con le parole anche nel modo più primitivo, elementare, combinatorio e salottiero possibile di quest’espressione). Vedete, Joyce è veramente il più grande scrittore del Novecento. Lo è per tutto quello che abbiamo già detto e che sappiamo; ma lo è anche perché le sue soluzioni non sono mai semplici.
Pensiamo all’Ulisse. Joyce mette in scena un signore che va in giro per la città e incontra persone e frequenta luoghi. Ma, se ci facciamo caso, non ci sono mai descrizioni. Tutto passa attraverso i sensi. Ecco perché Carmelo Bene parla di scrittura dell’immediato. Non c’è la descrizione di Dublino. C’è quello che Leopold Bloom, nella sua passeggiata, vede di Dublino. Joyce inventa le riprese in “soggettiva”; anticipa i videogames di ultima generazione d’oggi. Nel Finnegans Wake succede la stessa cosa. Se qualcuno dorme la cosa più semplice che ci viene in mente è raccontare i suoi sogni. Ma Joyce non fa questo. Fa parlare l’inconscio: e l’inconscio è un brodo alfabetico che ribolle e si mesce incessantemente.
13 Maggio 2015 alle 11:13
“ Martedì 24 dicembre 2013 – « I bisticci, i calembours, lo Shakespeare li metteva in bocca di solito ai buffoni; il Joyce ne ha fatto il veicolo ordinario del suo pensiero, disarticolando le parole in elastici aggregati di suoni evocatori d’innumerevoli possibilità; ha bombardato le parole come i fisici han bombardato l’atomo. […] E sono nate la poetica della papera, l’estetica del non pertinente, che tanta attrazione esercitano sui giovani ingegni. » (Mario Praz, Potenza delle parole, in Motivi e figure, 1945) “
[*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 328
13 Maggio 2015 alle 11:26
“L’immagine non deve c’entrare strettamente qualcosa”. Sembra il Finnegan’s Wake!
13 Maggio 2015 alle 11:28
Marco se vogliamo Dante guarda più a Ovidio che a Virgilio (soprattutto nell’Inferno). Ciò che Dante conosceva di Omero era veramente poca cosa, era un sentito dire. L’influenza omerica in Dante è veramente poca cosa, influenza testuale – che come sappiamo è la primaria fonte di una critica al testo – e anche quella poca è indiretta su calchi latini e non greci (e questo è molto diverso). Credo che Dante su Omero stia nel vago perché più di tanto non conosce, la nostra sensibilità tutta moderna, tutta votata al frammento, al “non so che”, all’indeterminatezza ci porta a vedere cose che Dante non ha pensato. Per Dante sostanzialmente Omero era un “nome”, come lo poteva essere Ulisse…
13 Maggio 2015 alle 13:06
Giulio, ho corretto con “per forza”, Esplicito la tua proporzione a favore del lettore: “c’entrare strettamente qualcosa” sta a “X” come “Finnegans Wake” sta a “Finnegan’s Wake”.
Demetrio, certo. Resta il fatto che Joyce fosse un appassionato di Dante, Il primo racconto di Gente di Dublino si apre con “Non c’è speranza per lui questa volta: è il terzo infarto”. E che lo schema organizzativo dei contenuti di Odissea, Divina Commedia e “Ulysses” è simile – come spiegato negli appunti. Da qui le ipotesi. Il castasterismo e il metamorfismo di Ovidio serve a Dante per altre ragioni; sebbene anche le Metamorfosi di Ovidio sia opera enciclopedica. (Spero di non aver parlato turco)
Enrico, sì. Ma a me premeva dire che l’Ulisse di Joyce è un’opera leggibile, comprensibile e persino gustosa.
13 Maggio 2015 alle 13:35
Marco io criticavo questa tua affermazione: “Ma è a Omero che Dante ha guardato per la parte più propriamente euristico-enciclopedica.”. Ecco questa cosa non è così, perché Dante non ha nessuna conoscenza diretta di Omero, mentre ad esempio sappiamo quando il viaggio dantesco sia debitore della cultura araba con cui Dante viene a conoscenza grazie a Brunetto Latini.
13 Maggio 2015 alle 14:38
@ marco
Opera leggibile sì, comprensibile anche, ma gustosa? Uhm… Premesso che entriamo in un ambito squisitamente soggettivo, io lo sto leggendo con grande fatica proprio perché non lo trovo gustoso. E’ un libro muscolare, esibizionistico, non so… E’ come se Joyce dicesse di continuo: stammi a sentire, ehi, stammi a sentire bene, e io mi metto in ascolto ma lui non dice niente di davvero decisivo, come lui stesso e l’esercito dei suoi devoti vorrebbero farmi credere. E poi ancora: nel mio piccolo mi vien facile descrivere un flusso di coscienza, posso farlo per un sacco di pagine, ma lo intendo come una deviazione dal nocciolo narrativo, come un allontanarmi dalla fiamma anziché avvicinarmi ad essa; mi viene molto più difficile andare dritto all’essenziale, attraversare la fiamma a rischio di bruciarmi, sia dal punto di vista stilistico che dal punto di vista contenutistico. Prima ho citato Dostoevskij, adesso cito Tolstoj: trovo miracolosa la sua capacità in tal senso (andare dritto al cuore delle cose), capacità che è un misto di genio, coraggio e acume. Penso a La morte di Ivan I’lic, a Chadzi Murat o ad Anna Karenina. Joyce ne I morti lo fa divinamente, ma poi? Poi diventa troppo “laico”, si accontenta di catturare l’infinita (e spesso vacua) mobilità delle cose, del cosiddetto velo di Maya, però non lo squarcia mai. Kafka lo squarcia il velo, Melville lo squarcia ma lui no, o perlomeno a me non pare. Dunque ci risiamo col paragone calcistico: è più difficile (meritevole ecc) fare cinquemila palleggi a un angolo di strada o pescare un compagno libero con un passaggio millimetrico durante l’intensità e lo spazio/tempo compresso della partita? Perdona l’insistenza – è che Joyce mi resta qua, non lo mando giù.
13 Maggio 2015 alle 15:11
solo per il primo commento, correggere “si” ed “ecclatante”.
13 Maggio 2015 alle 15:50
Demetrio, ma il fatto che Dante non abbia nessuna conoscenza diretta di Omero non significa che non abbia nessuna conoscenza di Omero. Insomma, Dante pone Omero nel Limbo; con quel verso con cui lo celebra grandemente. E poi c’è il canto ventiseiesimo. Un canto straordinario; forse il miglior canto. E però, poi spesso diciamo, Dante non aveva piena conoscenza di Omero e dell’Odissea. Ci sono, invece, molte più corrispondenze, tra Odissea e Divina Commedia, di quel che Dante abbia voluto far credere. Dante aveva capito, e usato, Omero molto più di quel che sembra – e la riprova è la convergenza nell’Ulysses. E secondo me Joyce questo lo aveva compreso appieno.
Enrico, a me non pare che Joyce manchi delle qualità del grandissimo scrittore. E’ vero che Tolstoj e Kafka squarciano il velo di Maya, così come Melville e Dostoevskij. Ma il punto fondamentale è un altro. Chi lo ha fatto dopo Joyce? La rivoluzione joyciana mi pare sia proprio quella di dire: non ci sono veli da squarciare, mari da navigare, mostri da affrontare. C’è solo stagnazione, decadenza, piccole epifanie. E poi, che c’è da squarciare se si è già nel regno dei morti? Non dimentichiamoci che l’Ulisse è una costola di Gente di Dublino. Joyce, nell’Ulysses, ci parla ancora di morti. Siamo nel 1904. Nel 1914 comincerà una Guerra che si concluderà soltanto nel 1945. E il 1914 è l’anno di uscita di Gente di Dublino. A un periodo di stagnazione e di relativo benessere è seguito un periodo di guerra, penosi conflitti, sangue. Altroché!, è il Mr Bloom che va a comprarsi il giornale da M’Coy che ha fatto scoppiare il conflitto!
13 Maggio 2015 alle 17:14
Marco la riscrittura del mito di Ulisse da parte di Dante deve di più alla mitologia e all’immaginario legato al Prete Gianni che a Omero, poi se tu ci vuoi vedere Omero va bene, io posso dirti nulla ognuno è libero di interpretare i libri e i testi, soprattutto i grandi libri, come meglio crede. Però se io avessi fatto una affermazione come quella che fai tu su Omero e Dante il mio prof mi avrebbe bocciato immediatamente.
13 Maggio 2015 alle 17:26
Oh Demetrio, forse devi leggere meglio quello che ho scritto!
13 Maggio 2015 alle 17:34
tipo qui: Ma è a Omero che Dante ha guardato per la parte più propriamente euristico-enciclopedica.
oppure
Ci sono, invece, molte più corrispondenze, tra Odissea e Divina Commedia, di quel che Dante abbia voluto far credere. Dante aveva capito, e usato, Omero molto più di quel che sembra – e la riprova è la convergenza nell’Ulysses.
queste cose le hai scritte tu e sono quanto meno “criticamente fantasiose”.
13 Maggio 2015 alle 17:48
@ marco
In parte condivido ciò che dici, specie sul Novecento. Direi che Joyce pone fine a un certo modo di scrivere il romanzo, pone fine al romanzo dell’io, dell’ego. Ma è una frantumazione superficiale. Questa fine fra l’altro, come tutte le fini, è lunga e ambigua e si trascina ancora, quasi 100 anni dopo Ulisse, con flussi e riflussi più o meno stanchi. Auspico nuove forme – diciamo trans egoiche – di narrazione, sulla scorta anche delle sbalorditive scoperte della fisica, dell’epistemologia eccetera. Per non parlare della poesia, che secondo me è sempre avanti rispetto al romanzo (vedi la linea Holderlin Rimbaud Trakl Celan e altri grandi visionari). Mi vengono poi in mente, così su due piedi, due nomi della narrativa odierna: Moresco (che tu stesso hai ben inquadrato proprio su vibrisse) e VanderMeer (Annientamento è un’operazione nuova – magari mi sbaglio eh).
Grazie per lo scambio. Nei prossimi giorni non avrò il pc e dunque probabilmente non potrò intervenire di nuovo nella discussione. A presto.
Enrico
13 Maggio 2015 alle 17:57
Marco Candida, scrivi :”La psicanalisi non vuole realmente vedere l’animo umano; vuole ricacciarlo in fondo il più possibile.”
Non ho capito se l’affermazione è tua o di Jung.
13 Maggio 2015 alle 18:21
Demetrio, le affermazioni che riporti sono sintesi di quello che viene analizzato nel testo che stiamo commentando – e in particolare nel capitoletto intitolato “La questione omerico-dantesca joyciana”. Se fossero affermazioni solitarie avresti ragione; ma non lo sono.
Poi, in “Percorsi dell’invenzione” di Maria Corti a pagina 222 dell’edizione Biblioteca Einaudi c’è scritto: “Anche perché, come già disse Dionisotti, una delle indiscutibili differenze tra la biblioteca del Petrarca e quella di Dante sta nel fatto che la prima la conosciamo e in parte la possediamo, la seconda ci è sconosciuta”. Sconosciuta. La blioteca dantesca ci è sconosciuta. Più avanti nello stesso testo si legge: “E’ Dante stesso ad informarci nel De Vulgari come egli proceda accipiendo vel compilando ad aliis e mescolando i dati della tradizione con l’ “acqua del suo ingegno. Egli appartiene a una cultura in cui il nuovo entra più facilmente sotto forma di glossa a un un’auctoritas che direttamente; lo stesso Aristotele entrò per questa via nella cultura medievale”. Quello che sospetto è che Dante, giovandosi di glosse e “bignami”, abbia compreso Omero e l’Odissea e abbia utilizzato lo schema dell’Odissea non per riscrivere il mito di Ulisse (cosa che non ho detto, Demetrio!) ma per l’organizzazione degli eterogenei contenuti della Commedia. Al di là delle intenzioni è un fatto che Odissea e Divina Commedia abbiano uno schema organizzativo simile. L’Eneide qui è tagliata fuori e anche Le Metamorfosi di Ovidio.
Per quel che riguarda il Viaggio di Ulisse, Dante non inventò necessariamente, ma si appoggiò, come noto agli studiosi, al Didasckalikon di Ugo da San Vittore e ai Geographika di Strabone.
Carlo, è una considerazione mia.
Enrico, grazie degl’interventi.
13 Maggio 2015 alle 20:18
“ Lunedì 22 dicembre 2014 – Quando leggo che il dottor Ottone si premura di farci sapere che non è mai riuscito a leggere tutta la Recherche – « Da Salgari, che amai, a Marcel Proust, che non ho mai finito », nel Venerdì di questa settimana -, capisco che l’« antiproustismo » è, fra i giornalisti del Gruppo L’Espresso-Repubblica – cioè fra i giornalisti -, « di rigore ». Come un tempo l’abito scuro, o, solo da un po’, i calzini lunghi etc. Tutto, va detto, è cominciato con il professor Eco. Che, olim, decise di mettersi risolutamente du coté de chez Joyce, proprio contro la paventata minaccia di un’egemonia « proustista » fra i letterati italiani. Naturalmente, poi, Joyce non l’ha letto nessuno, così come nessuno ha letto Proust, anche perché da un certo momento in poi nessuno ha letto niente, soprattutto fra quelli che comunque, fino da piccoli, fino dai remoti anni della loro vituperosa infanzia, non leggevano: hanno tutti continuato a « leggere », entusiasticamente, i fumetti, ad andare, allegramente, al cinema, a strafarsi, crapulonescamente, di tv, fino a quando, alla fine, è arrivata la Rete, i telefonini, Whatsapp etc., a mettere, su tutta la faccenda, una globale pietra-sopra. Parlare male di Proust, così come parlare bene di Totò, è, comunque, servito a qualcosa. Per esempio a far lievitare le iscrizioni al Dams di Bologna, e, successivamente, a ogni altro Dams possibile e immaginabile. In generale, l’« antiproustismo », circolando fra il popolo con la velocità e l’infallibilità delle barzellette, ha compattato le opinioni, ha costruito un gusto, un « comune sentire » etc. etc. Ma perché me la prendo tanto? Io, va detto, non sono un « proustista », anche perché, fino a trent’anni, Proust non l’avevo mai letto. Però, ecco il punto, a trent’anni l’ho letto, intensamente, irreversibilmente, cioè a dire: da allora per me è cambiato tutto. Forse perché l’ho letto in quel momento speciale della mia vita, forse perché l’ho letto sul letto, forse perché mi sembrava di leggere per la prima volta etc. Non mi ricordo se l’ho « finito ». Quello di cui sono certo è che ho capito che Proust, cioè la Recherche, non va « finito ». Che Proust non vuole essere « finito ». Che, se dobbiamo dirlo, il dèmone della sua opera è proprio l’« interminabilità ». Cioè l’assoluta « lunghezza », la lunghezza « assoluta », proprio quella per cui continua essere quasi impossibile leggerlo tutto. « Longtemps, je me suis couchè… ». « Giustamente è stato scritto che io sono uomo di poche letture », scrive il dottor Ottone. Infatti mi pareva, scrivo io. Che comunque, anche io, leggo poco. Leggo quel tanto che basta, diciamo così. “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 331
[**] Giulio, scusami, potresti dirmi come si indicano le sottolineature?
13 Maggio 2015 alle 21:38
Ho letto Proust a ventiquattro anni. Per me è stata una lunga, lunghissima illuminazione, ci ho trovato la verità di esperienze fondamentali che avevo fatto senza riuscire a chiarirmele bene. Proust scrive alla prima persona; una prima persona di cui il lettore non sa neppure il nome, eppure se non glielo fanno notare non se ne accorge, perché questo io che parla si risolve interamente in una coscienza che indaga le percezioni, le emozioni e la parola fino ai minimi meccanismi che le suscitano e le muovono, fino all’ultima perscrutabile causa, fino alle zone liquide e sommerse in cui una coscienza senza nome emerge dall’incoscienza e dal sonno, e di tutto rende conto. E nel rendere conto, racconta. Inventa una possibilità del racconto (che è cosa piuttosto rara).
14 Maggio 2015 alle 09:54
Acabarra, mi viene da dire che Eco si è messo du coté de chez Joyce (come scrivi tu parafrasando il titolo originale di un fondamentale tassello proustiano della Recherche) perché Joyce inaugura il romanzo fatto d’erudizione. Poi Eco vede nell’Ulysses l’opera aperta par excellence. Ma se si legge, l’Ulisse, ci si rende conto che le cose non stanno così. L’Ulisse è senza dubbio un’opera difficile e ricca; ma, in fin dei conti, ha le qualità di ogni novella. Carne e sangue più che cellulosa e inchiostro. Non è quella faccenda fredda fatta solo di riferimenti ipercolti che si vuole innalzare a vessillo degli intellettuali nella battaglia contro i giornalisti. Ed è ovvio che i giornalisti siano antiproustiani. Proust (che ho letto, con gli stessi sentimenti di Lucia Astrobello, a ventidue anni, negli anni dell’espletamento degli obblighi verso lo Stato) attraverso il romanzo cerca quella profondità che i giornalisti sono stati addestrati a evitare. Parliamo del giornalismo televisivo, ma anche del giornalismo della carta stampata. E poi ancora Proust descrive, anche qui, eventi piccoli piccoli, si sofferma su particolari sottilissimi. Come può piacere a giornalisti economici, giornalisti di nera, giornalisti di rosa, giornalisti culturali? I giornali si occupano di ciò che è rilevante: non di ciò che è nascosto; e piccolo. Un giornalista proustiano il prof di Demetrio Paolin lo boccerebbe immediatamente. 😉
14 Maggio 2015 alle 10:46
“ Senza data [1983] – « “ Rileggevo stamani in Saint-Simon qualcosa che vi avrebbe divertito. È nel volume della sua ambasciata in Spagna; non è dei più belli, non è che un giornale, ma almeno scritto stupendamente, che è già una prima differenza dagli altri insopportabili giornali che ci crediamo in obbligo di leggere mattina e sera… ”. “ Non sono della vostra opinione, ci sono dei giorni che la lettura dei giornali mi sembra molto piacevole… ”, interruppe la zia Flora, per far vedere che aveva letto la frase sul Corot di Swann nel Figaro. “ Quando parlano di cose o persone che c’interessano ”, rincalzò la zia Céline. “ Non dico di no – rispose Swann meravigliato – Quel che rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a fatti insignificanti, mentre i libri dove ci sono cose essenziali li leggiamo tre o quattro volte nella vita. Dato che tutte le mattine stracciamo febbrilmente la fascetta del giornale, allora bisognerebbe cambiare le cose e nel giornale mettere, non so… i Pensieri di Pascal! ” (Pronunciò queste parole spiccando le sillabe con un tono di enfasi retorica, per non sembrare un pedante) “ E al contrario nel volume di taglio dorato che non apriamo se non una volta ogni dieci anni – aggiunse mostrando per le cose mondane quel disdegno che ostentano certi uomini di mondo – leggeremmo che la regina di Grecia è andata a Cannes o che la principessa di Léon ha dato un ballo in maschera. Così sarebbero ritrovate le giuste proporzioni ”. » (Marcel Proust, La strada di Swann) “. [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 333
[**] Quello che voglio dire, caro Marco, è che la questione Proust-giornali(sti) è più complicata di quello che sembra. Innanzitutto Proust ha scritto per i giornali, e di questa “ esperienza “ ci sono nella Recherche innumerevoli tracce. Ma è soprattutto nel tema dello scrivere jour après jour, cioè del journal – in tutti i sensi del termine -, che si può scorgere la presenza di una sua riflessione prolungata ed intensa. Può essere che mi sbagli, ma sono comunque sicuro che questa riflessione, questa elucubrazione è la mia. Che sono uno che, come credo di avere già detto, è stato, a tutti gli effetti, un giornalista. Il problema è che, quando lo ero, lavoravo troppo, scrivevo troppo: scrivevo per il giornale e, contemporaneamente, anche per me. Guadagnavo molto bene, è vero, ma stavo “ uscendo pazzo “, come dicono nel Regno delle Due Sicilie, cioè in Italia. Baci e abbracci.
14 Maggio 2015 alle 11:34
Joyce non è tra i miei autori preferiti, se si fa eccezione per “Gente di Dublino”.
Anche Proust mi è indigesto.
Per quel che conta.
Un bravo a Marco, comunque.
14 Maggio 2015 alle 13:51
Sì, Acabarra, ho fatto un ragionamento per categorie astratte. “proustismo” contro “giornalismo”. Proust o Joyce vengono usati, secondo quanto da te riportato, come gonfaloni di questo o quel comune d’appartenenza. Non sono i “veri Proust” e i “veri Joyce”. Solo ciò che rappresentano. Comunque, qui il topic è Joyce e l’Ulisse; e sono pronto a rispondere, per chi volesse, su quello. Di Proust un’altra volta. Grazie.
14 Maggio 2015 alle 14:05
“ Martedì 17 ottobre 2007 – « “ Osservo un furtivo tentativo di contrapporre un certo signor Marcel Proust di quaggiù al firmatario della presente. Ho letto qualche pagina di costui. Non riesco a vedervi alcun talento particolare, ma sono un cattivo critico. “ ». ([Umberto Eco], Du coté de chez Joyce – Diario minimo, in «Il Verri», 4, n.1, 1960) “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 334
[**] Comunque, fra un asmatico parigino e un ubriacone irlandese, io sceglierò sempre il primo. Sarà perché mi piace Parigi. Oppure perché non mi piacciono quelli che bevono. Oppure perché respiro male anche io.
14 Maggio 2015 alle 14:32
acabarra, quando scrivi: “Quello di cui sono certo è che ho capito che Proust, cioè la Recherche, non va « finito ». Che Proust non vuole essere « finito ». Che, se dobbiamo dirlo, il dèmone della sua opera è proprio l’« interminabilità ». Cioè l’assoluta « lunghezza », la lunghezza « assoluta », proprio quella per cui continua essere quasi impossibile leggerlo tutto” mi dai una risposta. Io ho finito la Recherche, ma non l’ho finita mai e soprattutto mai la voglio finire. Marco, aspetto la tua su Proust, per ora devo dare ragione a quanto detto su Eco. Io lessi l’Ulysses perché ho fatto una tesi sull’opera aperta di Eco. Quello è stato il mio approccio e la mia entrata in quest’opera, che trovo irrinuciabile nella storia della letteratura ma che, per quel che mi riguarda, neppure scalfisce il monumento proustiano.
14 Maggio 2015 alle 16:47
Credo di aver capito che cosa ha acceso questo improvviso slittamento d’interesse su Proust. Dev’essere stato quando rispondendo a Enrico Macioci ho scritto:
“A me non pare che Joyce manchi delle qualità del grandissimo scrittore. E’ vero che Tolstoj e Kafka squarciano il velo di Maya, così come Melville e Dostoevskij. Ma il punto fondamentale è un altro. Chi lo ha fatto dopo Joyce? La rivoluzione joyciana mi pare sia proprio quella di dire: non ci sono veli da squarciare, mari da navigare, mostri da affrontare. C’è solo stagnazione, decadenza, piccole epifanie”
Nell’ottavo libro dell’Ulisse di Joyce Leopold Bloom sta sorseggiando Borgogna nel pub di Davy Byrne ed ecco sovvenirgli il ricordo del suo primo amplesso con Molly. Nell’interpretazione che ho privilegiato nei miei appunti la cosa importante di questa scena sta secondo me nelle mosche. “Appiccicate al vetro due mosche ronzavano, appiccicate. Appiccicate due mosche ronzavano”. Ovvero ogni volta che c’è un momento sublime, nell’Ulysses, ecco che subito segue un tonfo nella realtà decadente, nella realtà reale. Nell’Ulysses si tenta una sacralizzazione del banale quotidiano, ma irrompe la realtà o il flusso d’incoscienza di Leopold Bloom e il tentativo, ogni volta, naufraga.
Certo, questo spaccato dell’Ulisse può, tuttavia, ricordare la celeberrima scena della madelaine proustiana. Marcel intinge una madeleine nel the ed è così che prende a ricordare. Però non ci sono corrispondenze speciali che autorizzano un reale accostamento. Le due scene, nell’Ulisse e nella Recherche, non dialogano.
Marcel Proust e James Joyce s’incontrarono una sola volta. Si dissero due parole in tutto. Poi non si videro più.
Se devo dire Marcel Proust mi attrae meno di James Joyce, in questo momento. Joyce, ripeto, ritrae quella società che ci porterà alla Guerra del 14-45. Dall’Ulisse scaturisce, in parte, L’uomo senza qualità. Vedo l’opera joyciana maggiormente prefigurativa. Più significativa.
Pur tenendo presente che, nel mio sesto romanzo, “Il ricordo di Daniel”, al protagonista viene servito del tè con le madeleins. Ha perso la memoria e cerca di ricordare: per ritrovare se stesso. Però, anche qui, l’accento, in quel romanzo, penso venga posto soprattutto sull’inettitudine.
14 Maggio 2015 alle 19:21
“ Venerdì 8 marzo 1996 – Quelli che non riuscivano a capire come Proust avesse potuto scrivere duecento pagine per raccontare di uno che non riesce a prendere sonno figuriamoci se capirebbero uno come me che ne scrive duemila [**] per raccontare di come non riesce a scrivere un romanzo. Si licet. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 335
[**] 14.911 a oggi, 14 maggio 2015
14 Maggio 2015 alle 20:00
Sono d’accordo con Marco che le due scene non dialogano. Nella scena dell’Ulisse il borgogna sul palato di Leopold Bloom “è come una carezza segreta che [gli] risveglia ricordi”. I sensi accarezzati dal vino ricordano carezze. C’è un’analogia vaga fra il piacere del vino e il piacere delle carezze nel ricordo. Inoltre il ricordo non sorprende affatto Bloom, è un ricordo che, in linea di principio, lui ha a sua disposizione indipendentemente dal vino; il vino potrebbe richiamargli anche un altro ricordo o nessun ricordo affatto, non c’è un legame necessario fra il vino e quel ricordo particolare.
La molto citata scena della madeleine è il resoconto, di una precisione scientifica, di un’esperienza casuale quanto al suo prodursi (il narratore non aveva l’abitudine di sorbire tè con madeleines, quando la madre glielo offre dapprima rifiuta) ma caratterizzata, dal momento in cui si produce, dalla più assoluta necessità. È l’identità della sensazione in due momenti distinti del tempo (infanzia a Combray, serata mondana del giovane uomo a Parigi), è l’indiscernibilità di una sensazione unica e individuale che abolisce il tempo intercorso e permette di recuperare il passato come presente. Il passato non è ricordato ma sottratto al tempo, come sottratto al tempo è l’io nel momento in cui prova la sensazione identica (nel caso della madeleine è una sensazione del gusto, ma alla fine della Recherche ne abbiamo, in rapida successione, altre relative ad altri sensi; sempre però si tratta di sensazioni assolutamente identiche e non solo analogiche a quelle provate in momenti precedenti). Un io che non può più dire a quale momento del tempo appartenga proprio perché è fuori dal tempo, dice Proust, è eterno; un io assolutamente felice perché non teme la morte.
La scena dell’Ulisse si conclude molto diversamente: “Io. E io ora”, che sottolinea, mi pare, precisamente la distanza, il rimpianto dell’io che non sfugge al passare del tempo.
Detto questo, sono d’accordo con Marco che il punto, nella scena, sono le mosche “appiccicate”. Ho trovato molto convincente e illuminante il discorso sui due “stili” (lo stile di Bloom che distrugge gli altri, letterari o aulici). Non so perché siamo shiftati da Joyce a Proust. Probabilmente perché nel momento in cui uno dice “Joyce”, parte l’infilata “Proust, Kafka, Musil, e mettiamoci pure Broch, va’”. Purtroppo l’entusiasmo degli estimatori degli altri tre (o quattro) non raggiungerà mai le vette di idolatria dei proustiani per Proust.
14 Maggio 2015 alle 20:22
“ Martedì 20 maggio 1997 – Uno spiritoso refuso fece parlare Libero Solaroli di « idrolatria misticheggiante » a proposito di certa pseudo critica proustiana. (Libero Solaroli, Proust nel dopoguerra, in «Società», n. 5, settembre 1959) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 336
15 Maggio 2015 alle 06:36
Trovo stupefacente che siamo riusciti a chiacchierare così a lungo e questa volta civilmente su un argomento così complesso come l’Ulisse di Joyce. Joyce è un autore che, a causa della sterminata bibliografia esistente sulla sua opera, fa paura. L’Ulisse è una di quelle opere letterarie che fa venir voglia prima di studiarla e poi leggerla. Figurarsi quanto è problematico parlarne in pubblico cercando di esprimere un’opinione!
Naturalmente, Deborah e Lucia, per fare un parallelo tra Joyce e Proust dovrei rileggere Proust. A memoria, ricordo centrale, per Proust, la figura di Henri Bergson. La Recherche è la storia di un uomo che, dopo varie esitazioni, decide di scrivere un libro e alla fine quel libro coincide con la stessa opera che il lettore ha in mano e sta leggendo. Che è esattamente ciò che accade nel mio primo romanzo “La mania per l’alfabeto” dove la somma dei post-it è quel romanzo che il protagonista vuole scrivere. Ricordo, inoltre, che Marcel è un personaggio timido, esitante, incerto. Assimilabile, pertanto, al Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce.
Tuttavia, nell’Ulysses Joyce, attraverso le allusioni ad Amleto e al rovesciamento decadente del mito di Ulisse, mi sembra delineare con maggiore precisione e consapevolezza il tipo umano dell’inetto. Mentre in Proust, ma vado a memoria, questo aspetto mi sembra più casuale. A oggi la tematica generale della Recherche mi sembra più evanescente, meno prefigurativa di quella dell’Ulysses.
15 Maggio 2015 alle 19:25
resta il fatto, secondo me, che tra i grandi romanzi del novecento (Proust Musil Joyce) è quest’ultimo che mostra la corda per il semplice motivo che quest’opera ha la sua misura nella trasgressione nell’ambito di una società fortemente strutturata, sessuofobica, repressiva, in cui è giocoforza che il recupero della corporeità avvenga attraverso il gabinetto il cibo l’alcol, del sesso col postribolo …
Oggi questa società non esiste: c’è una società sfaldata, atomizzata, con piena licenza per il sesso, l’esibizione dei corpi … Non c’è una Legge da trasgredire, ma semmai una Legge da costruire
P.S. perché “coscienza increata”?
15 Maggio 2015 alle 19:49
“ Martedì 26 novembre 1996 – Il colpo di scena potrebbe essere, che, dopo pagine e pagine, cioè dopo anni e anni, si scopre che questo è solo il journal d’un voleur, che il bugiardo insomma sono io, che il ladro sono io e anche se volessi non riesco più a essere niente di altro. (Naturalmente non è vero e me ne rendo conto quando vedo i due uscire – furtivamente – da una stanzetta dove è evidente hanno fatto qualcosa, furtivamente, appunto. E solo allora mi ricordo che dopotutto io ho già capito tutto più di vent’anni fa e l’ho anche scritto: che ciò di cui si tratta non è l’abolizione ma la – « tattica », scrissi – ridicolizzazione del padre, ovvero ciò che, a chiare lettere, si è chiamata la « trasgressione », ed è del tutto evidente, ma ogni tanto mi capita di scordarmene) (E bisogna convincersi una volta per tutte che non ce l’hanno con me ma con il padre, anzi con il Padre, perché, a differenza di me, essi – i ridicolizzatori, i trasgressori – credono intensamente nell’esistenza del Padre, perché, se no, che cosa ridicolizzerebbero?) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 340
15 Maggio 2015 alle 19:50
P.s. Il ” neretto ” è ” Padre “.
18 Maggio 2015 alle 12:59
Cristian, grazie del commento. Sono d’accordo, ma sarai d’accordo anche tu che la nostra vita, pur essendo mutati i costumi della società, seguita a somigliare più a quella di Leopold Bloom che a quella di Ulisse.
“Coscienza increata” viene dal Dedalus, un romanzo autobiografico di Joyce. E’ in fondo all’edizione di Gente di Dublino che ho letta e ho preferito lasciare nell’esergo l’indicazione a Gente di Dublino. Il titolo “La coscienza increata di Ulysses” rieccheggia “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Ed è un richiamo a “Gli increati” di Antonio Moresco, di cui, qui su Vibrisse, ho fatto una recensione. Un filo conduttore tutto interno e che riguarda i miei articoli su Vibrisse. Nulla hanno a che vedere con l’opera di Moresco, che, peraltro, ho presentato dalle mie parti il giorno successivo l’uscita del presente articolo.
18 Maggio 2015 alle 13:25
sì ma sarebbe interessante confrontare Bloom con l’ homo consumens postmoderno
21 Maggio 2015 alle 13:38
Incominciamo.
No. Nell’originale il bacile di schiuma è “a bowl of lather” e lather indica soltanto la schiuma di sapone, non la schiuma della birra, foam, o anche froth. Non è solamente una questione lessicale: è proprio l’immagine del tipo di schiuma evocata da lather, più simile al sudore dei cavalli che alla schiuma della birra, che rende improbabile l’associazione.
No. Nulla nel testo fa presupporre che le tazze di te siano “pregiate”: semplicemente, la birra viene bevuta in tazze da te perché non vi è altro in cui berla. La scena si svolge infatti in un shebeen, un locale nella quale l’alcol era venduto illegalmente, e all’interno del quale pertanto non vi erano boccali o bicchieri che potessero fornire pretesti alla polizia per ispezioni.
No. Anche nell’ultimo esempio riportato, l’aspetto scarlatto si riferisce alle etichette delle bottiglie di Bass con il loro famosissimo (al tempo) logo triangolare rosso.
Edouard Manet, A Bar at the Folies-Bergère.
22 Maggio 2015 alle 00:48
Acabarra59, la “trasgressione” come “ridicolizzazione del padre”? Purtroppo, temo che ci siano figli che seguono gli esempi e figli che fanno il contrario e figli che fanno un po’ e un po’. Non esistono ricette. Bisogna capire come un figlio è fatto e agire di conseguenza. Questo penso. Ma vedremo.
Cristian, se riesci fai pure tu questo confronto, ti prego. A occhio e croce mi sembra che l'”homo consumens”, come lo definisci, sia una specie dell’uomo bloomiano.
Pensieri Oziosi, evidentemente la parola “succedaneo” che significa “surrogato” ti ha fatto venire in mente i rilievi che muovi. Ci sta, dato che “succedaneo” è un termine utilizzato in modo improprio. Ma il punto importante dell’analisi non è tanto questo quanto che la schiuma del sapone e la schiuma della birra hanno in comune di essere entrambe “schiuma”. Quindi birra e sapone hanno un terreno comune, hanno immagini e significati in comune – e il lettore è in grado di stabilirle da sè queste cose al di là della mia analisi, visto che viene riportato integralmente il paragrafo iniziale dell’opera joyciana e ci sono tutti gli elementi. Quanto alle tazze da tè, l’aggettivo “pregiate” l’ho aggiunto per rimarcare il fatto che le tazze da tè sono certamente più pregiate dei normali boccali di birra. La cosa è talmente ovvia che persino Joyce, di solito così generoso di aggettivi, si è astenuto, in questo caso, dall’utilizzarne anche solo mezzo.Quanto al fatto se nell’Ulisse la birra venga o non venga presentata sempre sotto una luce sacrale, ovviamente si tratta di un mio personale modo di vedere le cose, ma, in un romanzo dove Leopold Bloom è abrasivo su tutto, la birra è una delle poche cose che viene risparmiata. Come spiegato nell’Intro l’analisi si basa sulla traduzione di Giulio de Angelis. Più recentemente è uscita una traduzione di Gianni Celati. Francamente mi sarebbe parso di appesantire troppo rifacendomi al testo inglese originale, che peraltro è facilmente consultabile in pdf sulla rete.
22 Maggio 2015 alle 05:15
“ 12 luglio 1985 – Mio padre è molto antiautoritario con me. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 343
22 Maggio 2015 alle 05:17
“ 12 luglio 1985 – Mio padre è molto antiautoritario con me. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 343
22 Maggio 2015 alle 10:26
Continuiamo.
No. Dante sa benissimo che la Terra è rotonda. Oltre alle disquisizioni cosmologiche nel Convivio, nelle quali Dante si riferisce spesso alla Terra semplicemente come una palla (ad esempio, questa palla dove noi siamo in III.V.21), la natura sferoidale della Terra è alla base della struttura di inferno e purgatorio: la discesa di Dante nell’inferno è letteralmente un viaggio al centro della Terra. Nel Canto XXXIV dell’Inferno, Virgilio ricorda a Dante che “tu passasti’l punto // al qual si traggon d’ogne parte i pesi” e che risalendo verso la superficie sono ora in un altro emisperio dove “qui è da man, quando di là è sera”.
No. Lo sono per te ma non lo sono per Joyce: una è lather l’altra è foam.
No, (evidentemente hai in mente soltanto tazze di tè in porcellana – ricordati che siamo in una bettola malfamata) ma è comunque irrilevante, visto che il motivo per cui la birra viene bevuta in questo caso nelle tazze da tè è dovuto semplicemente al fatto che le tazze da tè sono l’uniche ad essere a disposizione.
22 Maggio 2015 alle 10:28
[Ricopio l’ultima parte con la formattazione corretta]
Un modo di vedere le cose che non è supportato dal testo, e quindi, in un contesto critico, sbagliato — personale non significa insindacabile.
No. Ad esempio, l’odore della birra che sale dal sotterraneo di Larry O’Rourke viene definito flabby gush, un flaccido effluvio (fortore dolciastro per Celati). Altrove dull porter slopped and churned inside (Celati: birra sciapa sciabordava e ribolliva nei barili), e successivamente vengono evocati ratti che si infilano nei recipienti di birra, che si ingozzano di birra, gonfiandosi come dei collie, bevendo fino a vomitare, proprio come dei cristiani. «Imagine drinking that! Rats: vats. Well, of course, if we knew all the things.»
22 Maggio 2015 alle 11:29
Pensieri Oziosi, nel commento in risposta a Giulio Mozzi non ho scritto: “Dante sosteneva che la Terra fosse piatta”. Ho scritto: “All’epoca di Dante la Terra era piatta”. Non capisco perché non sei intervenuto dicendo che a parer mio la Terra era piatta all’epoca di Dante e poi Galileo l’ha gonfiata con uno spinotto. In fondo “All’epoca di Dante la Terra era piatta” autorizza questa interpretazione, date le improprietà che l’espressione contiene.
Quanto alla questione “lather” e “foam”, la schiuma da barba e la schiuma della birra non si assomigliano, ma, ripeto, hanno in comune di essere entrambi schiuma. E la schiuma da barba e la schiuma della birra hanno in comune con l’Ulisse di Joyce la “schiuma alfabetica” prodotta dal testo. Cosa vuol dire “schiuma alfabetica”? L’Ulisse è una polifonia dell’evento microscopico. Molte parole per pochi fatti. Ancor più for dummies: molte parole per fatti che si potrebbe raccontare con pochissime ed elementari parole. Un po’ come accade per la birra. Versi velocemente la birra nel bicchiere e ti sembra di avere il bicchiere colmo. In realtà è tutta schiuma. Quanto all’importanza della birra in Joyce, ci sono un mucchio di birrerie aperte in onore di James Joyce e se ne continuano ad aprire.
Alla tua!
11 giugno 2015 alle 12:23
Soltanto violando il principio di carità di Wilson sarei potuta intervenire in questo modo. La tua frase «all’epoca di Dante la Terra era piatta, il sole ci girava intorno e l’universo era finito e immobile» ha un’interpretazione abbastanza chiara, cioè che si ritenesse ai tempi di Dante che la Terra fosse piatta eccetera. Però ciò è falso, vedi ad esempio Dante stesso.
Visto che sembri non capire proviamo un’argomentazione alternativa: supponiamo per assurdo che Joyce volesse evocare un accostamento tra la schiuma da barba e la schiuma della birra: avrebbe potuto adoperare un termine che avrebbe potuto adattarsi a l’uno o all’altro, foam, to’, froth. Invece la scelta lessicale di Joyce sottolinea specificamente la differenza. La tua associazione mentale tra schiuma da barba e schiuma della birra è, anche volendo essere generosi, tutt’al più un artefatto della traduzione.
Questo naturalmente nulla ha a che fare con la tua tesi della presunta sacralità della birra nell’Ulysses.
Prima di proseguire oltre, forse sarebbe bene fare il punto della situazione e vedere che cosa rimane delle argomentazioni a sostegno di questa tua tesi. Direi che queste si possono riassumere in quattro gruppi:
1. Coincidenze spurie dovute alla traduzione (la schiuma da barba);
2. Letture parziali (ignorando i tratti dove la birra è associata ad immagini o sensazioni fastidiose e disgustose);
3. Ignoranza del contesto storico sociale (le tazze da tè);
4. Fatti irrilevanti (vedi qui poco sopra il numero di birrerie).
Ora la mia domanda è semplicemente questa: Sei ancora dell’opinione che la «birra è un liquido sacro nell’Ulysses»?
14 giugno 2015 alle 13:18
Pensieri Oziosi, leggiamo con attenzione le prime parole dell’incipit dell’Ulysses:
Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio.
Ci sono uno specchio e un rasoio posati a forma di croce sul bacile di schiuma. Una croce. Questa parola non fa forse venire in mente qualcosa di “sacro”? Perché no? Potrebbe essere. E la croce è posata sopra la schiuma. Quasi a rimarcare di quest’ultima la sua sacralità. Subito dopo Buck Mulligan alza il bacile di schiuma verso il cielo e dice: “Introibo ad altare Dei”.
14 giugno 2015 alle 13:35
“ Martedì 1 giugno 2004 – Leggo All’ombra delle fanciulle in fiore nell’edizione Mondadori del ’58 – n. 17 della collana « Il bosco », con doppio frontespizio, c’è anche quello dell’edizione Einaudi degli anni Quaranta-Cinquanta, la traduzione è in ambedue i due casi di Franco Calamandrei – e trovo: « quel trascurabile introito del giorno cui nessuno assiste ». Io penso subito a un refuso – « introito » / « introibo » – ma, non avendo qui l’originale francese, non so come accertare se ho ragione o no. Però, scopro, ho l’edizione Einaudi – vedi un po’ che è Mondadori il turpe refusista… -, e corro a controllare. Ma, ahimè, nelle belle pagine del volume impreziosito dalla sobrietà resistenziale del grezzo cartone della rilegatura, non meno che dal policromismo della riproduzione di un Renoir che allieta la copertina, trovo la stessa identica frase: « quel trascurabile introito del giorno cui nessuno assiste ». Ne deduco che gli editori sono sempre gli stessi, oggi come cinquant’anni fa: sempre in cerca di non trascurabili introiti, quasi mai interessati al modo in cui il giorno comincia – per non parlare del modo in cui scrive chi scrive. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 389
14 giugno 2015 alle 16:00
Pensieri Oziosi, mi sembra che le tue obiezioni siano irrilevanti. Lo diventano, forse, a causa dei toni in cui sono espresse. Sì, negli shabeen bere era illegale, ma ciò non toglie che per ovviare all’inconveniente Joseph Manuo usi tazze da tè. Avrebbe potuto usare altri contenitori. Tra l’altro lo fa anche per attirare l’attenzione di due prostitute. E le tazze da tè sono più preziose dei boccali di birra. Perciò la mia interpretazione è quantomeno lecita. Non capisco perché andare così dritti… Inoltre la parola “shabeen” nell’edizione che ho qui commentata non c’è, e non viene tradotta, e non ci sono note esplicative a piè pagina. Se tu lo avessi fatto notare con garbo avresti arricchito la conversazione. Con i tuoi modi costringi, invece, l’interlocutore (me, in questo caso) a mettersi sulla difensiva. Diventa tutto drammatico, enfatico e… poco stimolante. Solo lo scontro tra due che non vogliono, entrambi, e probabilmente entrambi a ragione, arretrare.
E’ vero che la birra viene definita “flubby” o che i ratti s’infilano nei barili, ma questo non vuol dire che la birra nell’Ulisse di Joyce non sia un nettare dotato di sacralità – ovviamente con tutto il carico enfatizzante di questa parola. Se i ratti vogliono bersi la birra fino a scoppiare, questo va a detrimento della birra? Evidentemente è così buona che piacerà anche ai topi. No? In ogni caso, ho avuto l’impressione che il luppolo venga sempre presentato, nell’Ulisse, con un occhio di riguardo. E il fatto che ci siano birrerie ovunque aperte in onore di Joyce e del Finnegans, in fondo, non lo trovo affatto irrilevante. Lo trovo molto, molto rilevante, invece. Ma è talmente ovvio…
Riguardo Dante. Non ho scritto che Dante pensava che la Terra fosse piatta. Lo hai dedotto, sulla base di un’esigua manciata di parole scritte di fretta e con piglio piuttosto ironico in un commento.
Sulla birra abbiamo detto, non curiamocene più e andiamo oltre. 😉
18 giugno 2015 alle 11:10
I tuoi commenti mi fanno venire in mente una delle barzellette di Radio Yerevan ai tempi dell’Unione Sovietica:
Domanda a Radio Yerevan: È vero che Grigori Grigorievich Grigoriev ha vinto una macchina di lusso ai Campionati Pansovietici a Mosca?
Risposta di Radio Yerevan: In principio, sì. Però, primo, non era Grigori Grigorievich Grigoriev ma Vassili Vassilievich Vassiliev. Secondo, non era ai Campionati Pansovietici a Mosca ma ad un festival sportivo di fattorie collettive a Smolensk. Terzo, non era una macchina, ma una bicicletta. Quarto, non l’ha vinta, ma gliel’hanno rubata.
Parafrasando e cambiando leggermente i ruoli:
Domanda di Marco Candida: Non è forse vero che Joseph Manuo usa tazze da tè, che le tazze da tè sono più preziose dei boccali di birra, e che tra l’altro lo fa anche per attirare l’attenzione di due prostitute?
Risposta di Pensieri Oziosi: In principio, sì. Però, primo, non si tratta di Joseph Manuo ma di Bob Doran (Joseph Manuo è il nome che egli si inventa a favore delle due prostitute), secondo non è detto che le tazze da tè siano più preziose di boccali da birra (forse è bene anche ricordare anche che nel passato i boccali da birra non erano in vetro), terzo sono in una stanza annessa ad una taverna, non a casa sua: non è lui che sceglie i contenitori in cui bere…
Domanda di Marco Candida: Non è forse vero che la scena iniziale con gli arnesi della rasatura posti a croce ed i gesti della messa suggeriscono una sacralità della birra?
Risposta di Pensieri Oziosi: In principio, sì. Però, primo, Joyce non parla di birra, ma schiuma da barba, e la sua scelta lessicale esplicitamente scoraggia questa associazione, secondo, più che una sacralizzazione della rasatura si ha qui una parodia della messa.
Scherzi a parte, il problema è che qui abbiamo a che fare con una lettura arbitraria e sciatta del testo: arbitraria perché volta ad isolare i frammenti di testo che sono a favore della tua tesi e ad ignorare quelli contrari, e perché ignora il contesto socio-culturale delle vicende, imbevendo il testo delle idee e delle consuetudini di un italiano del XXI secolo. Sciatta perché, voglio dire, non capire nemmeno chi è il protagonista della storiellina delle due prostitute?
A questa errata impostazione iniziale va aggiunta l’idea, che già precedentemente ho definito sciocca, che si possa fare critica letteraria soffermandosi sull’effetto dell’utilizzo di singole parole, senza nemmeno domandarsi se ciò sia una manifestazione dell’intenzione autoriale (che non è necessariamente il punto su cui centrare la critica, ma che lo diviene se lo scopo è, come in questo caso, quello di ricostruire l’immaginario sacro dell’autore) o una semplice coincidenza, in particolare se si tratti di un artefatto di traduzione. Ed in tutto ciò non voglio nemmeno entrare in merito sull’idea gnostica che l’autore vada a nascondere il suo “messaggio” in questo tipo di dettagli.
E allora? Se i tuoi strumenti sono inadeguati, cambiali. A proposito, “shebeen”, non “shabeen”.
No, Dante l’ho tirato in ballo io come contro-esempio alla tua idea errata che a quei tempi si pensasse che la Terra fosse piatta. Certo, avresti anche potuto ammettere subito dall’inizio che avevi scritto di fretta e che ti eri sbagliato…
A proposito, l’idea della Terra piatta, l’hai espressa in risposta ad un commento di quella cattivona che sarei io?
Grow up.
18 giugno 2015 alle 12:16
Pensieri Oziosi, c’è qualcosa che ignori ab orgine. Questo testo non è un saggio. Sono appunti di lettura. Ho letto un libro e ne ho parlato. Ho scritto in apertura che il commento si basa sulla traduzione di Giulio De Angelis. Perché? Per la banale ragione che quella è l’edizione che ho in casa. Ho letto un libro e ne ho parlato. Nessun’altra pretesa. Sono semplici appunti di lettura. Di esempi sulla birra ce ne sono molti di più. Non li ho riportati perché questo non ha la pretesa di essere un saggio esaustivo. Sono un insieme di impressioni, con l’esortazione a leggerlo, questo libro. Poi se tu vai a tirare fuori la traduzione di Celati e quella in lingua originale… ebbè. Ma il testo chiarisce il suo raggio d’azione dall’inizio.
Sulla questione Joseph Manou mi sono ovviamente riferito al paragrafo che hai incriminato. Non al capitolo intero. La mia opione è che qui tu voglia contestarmi a tutti i costi. La cultura insegna non ad avere la meglio, ma ad avere ragione. Se non comprendi questo, a parer mio puoi buttare a mare tutti gli strumenti critici che hai.
Infine stiamo discutendo su osservazioni e intuizioni mie. Leggi l’Ulisse e fai la tua lettura. Troppo facile attaccare il lavoro d’altri.
18 giugno 2015 alle 14:16
Marco: a volte può essere più interessante se dici qualcosa di vero, piuttosto che qualcosa di tuo.
18 giugno 2015 alle 19:13
Ho capito.
Comunque quello che dice Pensieri Oziosi va tenuto in considerazione ed è utile a migliorare il testo. Cosa che è sotto gli occhi di tutti i lettori di questi commenti, peraltro. Perciò ringrazio Pensieri Oziosi degli interventi e mi scuso se qua e là qualche insolenza è scappata. 🙂