Interviste radiofoniche su Favole del morire:
– RAi3, Fahrenheit (intervistatore: Tommaso Giartosio),
– Radio Onda d’Urto, Flatlandia (intervistatrice: Monica Winters),
– FizzShow (intervistatore: Alessandro Fizzotti),
– Radio24, La prima volta (intervistatrice: Cristina Carpinelli).
Tag: Alessandro Fizzotti, Cristina Carpinelli, Monica Winters, Tommaso Giartosio
25 aprile 2015 alle 14:42
Ho ascoltato Fahrenheit. Mi hai fatto ricordare che al termine di questo processo del morire, quando ossia tutto si conclude con la morte fisica, i certosini fanno festa, celebrando in questo modo il loro confratello trapassato.
27 aprile 2015 alle 23:17
Ho letto e riletto le Favole del morire senza capire qual era il punto. Mi sembravano “pezzi” un po’ disparati, anche molti belli, che in vario modo trattassero del morire (del morire, non della morte, come avverte l’autore), ma quale fosse la modalità comune del trattare – la prospettiva, l’angolo di visuale – questo non lo vedevo. Il morire, d’accordo; ma cosa? ma dove? ma per chi? Poi domenica scorsa, mentre ascoltavo l’intervista di Mozzi a Fahrenheit, mi si è fatta una luce.
Non è che mi fosse sfuggita la prossimità di certi pezzi (Operetta di giugno, ad esempio) con le danses macabres, né con certe ossessioni rinascimental-ronsardiane (C’era e non c’è la rosa rimanda dritto, agli orecchi di un insegnate di francese, a quel tormentone che è diventato Mignonne, allons voir si la rose). Quanto ai vari memento mori barocchi, l’autore stesso incastona la sua opera fra una citazione di Tommaso Stigliani e una di Ciro di Pers.
Appunto. Non è diciamo, roba un po’ vecchia? XIII-XVII secolo? Perché infatti, col XVIII e le Lumières, la ghigliottina magari impazza, ma l’ossessione della morte si attenua (e infatti chi dà credito a Anna Katharina Emmerick e al suo menar vita di confine fra questo e l’altro mondo non è il Lessing, che muore quando Anna Katharina ha appena sei anni, ma quel romanticone di Brentano – anche se indubbiamente “E le dava credito il Lessing! Il Lessing!” suona molto meglio di un ipotetico “E le dava credito il Brentano! Il Brentano!”)
Roba un po’ vecchia, allora? Ma come? E Heidegger? E l’analitica esistenziale? E le aporie del limite in Derrida? Giusto; solo che secondo me Heidegger e Derrida non c’entrano mica tanto col Mozzi, perché quello che ossessiona il Mozzi, mi pare, è in primo luogo il morire del corpo. Perché del morire dell’anima, se poi c’è, non si può dire niente di certo, ma il morire del corpo è sotto gli occhi di tutti. Cioè no, generalmente lo si nasconde per igiene e pudore in luoghi appartati o difficilmente accessibili: ospedali, loculi, bare; e tuttavia se ne sa abbastanza. Volendo, ci si immagina. A questo sforzo di immaginazione, o rappresentazione, Mozzi contribuisce potentemente, ad esempio con La stanza degli animali.
Sembrerebbe insomma che si ricaschi nelle danses macabres e nei memento mori, ma non è così, non è affatto così, perché lì, fra gotico e barocco, i morti erano ancora numerabili. Numerabili, identificabili, pronti per la resurrezione; sepolti nelle chiese, intorno alle chiese, tenuti lì vicino; un insieme sterminato quello dei morti, ma un insieme discreto: unità distinte registrate nei registri del Signore assieme ai Santi, ai Patriarchi e ai Profeti che per quanto numerosi sono perfettamente contabili. In fondo c’è voluta l’esplosione demografica mondiale, c’è voluto il passaggio dai due miliardi raggiunti quando facevo le elementari ai sette miliardi di oggi per fare del corpo del morto non più qualcosa di idealmente unitario e consistente, ma pura disgregazione in “succhi” e “minerali” presi nella giga diabolica del passaggio di forma in forma.
Di forma in forma – cioè, aristotelicamente, di anima in anima, di identità in identità, fino al perdersi dell’idea stessa di identità – dove sono io, o cosa sono io, se il mio corpo incessantemente e sempre più rovinosamente si trasforma in altro? Cosa può fare la mia anima, poverina, da sola, se non c’è più, mai più il mio corpo che è diventato tantissimi altri corpi?
Può fare veramente poco; almeno finché il creatore non avrà sollevato il suo smisurato culo dal coperchione della madia e non avrà gettato sulle anime la polvere di aminoacido dando inizio alla seconda e definitiva creazione. Amen.
28 aprile 2015 alle 08:21
Una traduzione al volo, per chi non conoscesse, di Mignonne, allons voir si la rose:
Vieni, amor, la rosellina
che è fiorita stamattina
tutta rossa in pieno sole
or vediamo se stasera
la sua porpora conserva
– bella quasi come te.
Ahi! Ma guarda! Un solo giorno
è bastato perché in terra
i suoi petali cadessero.
Oh, Natura, sei matrigna,
se un tal fiore lasci vivere
da mattina fino a sera!
Se mi credi, dunque, amore,
finché il corpo tuo fiorisce
nella verde giovinezza,
godi, godi la bellezza:
la vecchiaia, come a questo
fiorellino a te farà.
Lo scambio Lessing/Brentano è un clamoroso lapsus (perché son libri che ho letti, e non è che non so chi li ha scritti). Sono sbalordito.
Grazie del tutto, Lucia. Anche per la “giga diabolica”, eccetera.
28 aprile 2015 alle 14:06
Mah, io il lapsus lo vedevo più come un lapsus del parroco e anche, come dicevo, retoricamente efficace.
La precisazione era funzionale al mio discorso, non al tuo, perché per la novella, che sia Lessing o Brentano è del tutto inessenziale.
28 aprile 2015 alle 15:02
Eh, è inessenziale per chi non ha idea di chi siano Lessing o Brentano…
28 aprile 2015 alle 16:07
“ Sabato 11 ottobre 1975 – « Non sono il primo, né l’ultimo sarò che i grilli suoi in istil d’oracolo fa passare per divine apparizioni. » (Delle Favole di Efraimo Lessing / con accurata fedeltà volgarizzate / Libri tre. Corredati di brevi note d’un manual di morale che ha il testo a fronte e d’un indice. A uso degli studiosi della lingua alemanna. Milano, presso A. F. Stella, 1815) “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 310
[**] Così, tanto per farmi vivo…
28 aprile 2015 alle 17:42
Questo “istil d’oracolo” di acabarra (perché parla del suo, vero?) è cosa invero praticissima, perché come ogni autentico istil d’oracolo non presuppone e anzi vanifica in anticipo ogni replica. Chapeau.
28 aprile 2015 alle 18:15
“ Domenica 23 maggio 1999 – Quando uno scrive un diario, ogni nota, ogni frase è come se fosse l’ultima e in realtà potrebbe anche esserlo. Da questo forse viene quel tono ultimativo, un po’ oracolare, un po’ minaccioso, un po’ sentenzioso che hanno tutte le frasi di un diario. Forse, se ci si pensasse, ci accorgeremmo che, quando si scrive ma anche quando si parla, ogni frase ha sempre questo carattere estremo, questo sentore di fatalità. Immersi nel tempo, siamo comunque assoggettati al tempo. Qualunque cosa diciamo, ciò che diciamo è sempre un lungo, penosissimo, e anche verbosissimo addio. Forse sarebbe meglio tacere. Ma ci vuole un coraggio che continua a mancarci. Non siamo eroi. Non lo siamo mai veramente stati. “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 311
[**] À suivre.